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Ernia addominale: cause, sintomi, intervento e cura

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Cosa sono le ernie addominali?

Per ernia addominale s’intende la fuoriuscita di una parte di viscere (intestino tenue nella maggior parte dei casi) o di tessuto adiposo attraverso un punto di passaggio a livello della parete addominale.

Si possono distinguere diversi tipi di ernia addominale a seconda del punto in cui fuoriescono gli organi addominali:

  • Ernia inguinale: è più frequente nel maschio, fuoriesce nel canale inguinale e si può portare a livello dello scroto.
  • Ernia femorale: fuoriesce al di sotto del legamento inguinale che è teso tra la spina iliaca e il pube.
  • Ernia epigastrica: fuoriesce attraverso un punto di debolezza posto nella parte superiore dei muscoli retti dell’addome.
  • Ernia di Spigelio: è un’ernia rara che si forma a livello dei vasi epigastrici inferiori.
  • Ernia lombare: si forma posteriormente in due punti di debolezza della parete muscolare.
  • Ernia ombelicale: tipica dei pazienti obesi o con ascite.

Le forme più frequenti sono l’ernia inguinale e femorale: circa il 5-10% della popolazione mondiale tra i 50 e i 70 anni ne è affetta e il 30-35% delle visite ambulatoriali di chirurgia generale riguarda proprio questi due tipi di ernia.

I sintomi dell’ernia addominale variano in base alla sede e alla gravità del quadro clinico, ma nella maggior parte dei casi si può verificare:

  • totale asintomaticità (senza sintomi): è la forma di presentazione più frequente,
  • dolore: non necessariamente è sintomo di un’ernia complicata,
  • Irriducibilità che si manifesta con tumefazione persistente.

Attraverso il trattamento chirurgico, la percentuale di pazienti che guariscono è elevata, in altre parole si tratta di una malattia con ottima prognosi, tuttavia è necessario prestare attenzione alle complicanze che possono seriamente compromettere le condizioni cliniche generali tanto da richiedere un intervento in urgenza.

Schema semplificato di un'ernia addominale

iStock.com/ttsz

Cause

L’ernia addominale si viene a formare dove esistono dei punti di debolezza della parete addominale. Per punto di debolezza si intende un’area non coperta dal muscolo, ma caratterizzata dalla sola presenza di tessuto fibroso che si può sfiancare in seguito ad aumenti della pressione addominale.

  • Per porta erniaria si intende quindi il punto in cui il viscere attraversa la parete addominale.
  • Per sacco erniario si intende la struttura rivestita da parete addominale ed eventualmente da membrana peritoneale (che avvolge l’intestino nell’addome) che accoglie il viscere erniato.
  • Per colletto si intende il punto più stretto a livello della porta erniaria.

Fattori di rischio dell’ernia addominale

I fattori di rischio hanno come elemento in comune l’aumento della pressione addominale e la debolezza della parete muscolare:

  • aumento della pressione interna all’addome per
    • età,
    • obesità,
    • sforzi intensi e prolungati,
    • stipsi cronica,
    • gravidanza;
  • lassità delle strutture muscolari della parete addominale anteriore,
  • malattie genetiche dei tessuti connettivali.

Sintomi

Per definizione, l’ernia si presenta come

  • una tumefazione (gonfiore)
  • che è riducibile (cioè applicando una debole pressione il viscere può ritornare nella cavità addominale)
  • e non dolente (almeno nelle prime fasi).

La tumefazione può aumentare quando si effettuano manovre di Valsalva, cioè durante

  • la defecazione,
  • starnuti
  • o manovre di espirazione forzata a glottide chiusa.

Tipicamente associata alla tumefazione, può esserci una lieve dolenzia che aumenta durante il giorno, soprattutto in chi per motivi professionali è obbligato a stare in piedi molto tempo.

Complicazioni

Se il dolore aumentasse e l’ernia non fosse più riducibile, bisogna escludere le eventuali complicanze tra cui:

  • Ernia incarcerata: non è più possibile riposizionare il viscere nella cavità addominale per la formazione di aderenze a livello della porta erniaria.
  • Ernia strozzata o strangolata: si verifica un ostacolo all’irrorazione sanguigna del segmento di viscere erniato che può portare a necrosi (cioè a morte delle cellule) di quel tratto di intestino. Anche un’ernia incarcerata si può complicare ulteriormente in un’ernia strozzata.
Ernia strangolata

Non è più possibile far rientrare l’ernia, il cui afflusso di sangue viene pericolosamente ridotto (iStock.com/blueringmedia)

La necrosi del tratto intestinale può determinare, nei casi più gravi, un quadro di shock con rapido deterioramento delle condizioni cliniche generali. Per questo potrà essere necessario un trattamento chirurgico in urgenza.

Diagnosi

Nella maggior parte dei casi la diagnosi è clinica, cioè il medico attraverso l’anamnesi ed un esame obiettivo valuterà

  • la sede,
  • la consistenza
  • e la riducibilità dell’ernia

per arrivare alla diagnosi.

Se persistono dei dubbi diagnostici, potrà essere indicata l’esecuzione di una ecografia che caratterizzerà il contenuto dell’ernia e potrà valutarne la vascolarizzazione.

Solo in rari casi, come l’ernia di Spigelio, potrebbe essere indicata una TAC o una Risonanza magnetica per valutare l’esatta sede di fuoriuscita del contenuto erniario.

Rimedi e chirurgia

L’unica terapia risolutiva dell’ernia addominale è la chirurgia.

  • Nel caso di assenza di sintomi, la chirurgia è elettiva quindi può essere programmata nelle settimane o mesi successivi.
  • Nel caso di ernia strangolata è indicata la chirurgia tra le 4 e le 6 ore per evitare un danno importante a carico dell’intestino.

Tecniche chirurgiche

L’intervento prende il nome di ernioplastica e le tecniche più utilizzate sono:

  • ernioplastica tradizionale o a cielo aperto,
  • ernioplastica laparoscopica.

I vantaggi delle tecniche laparoscopiche comprendono:

  • riduzione del dolore post-operatorio e quindi minor ricorso a farmaci antidolorifici,
  • miglior risultato estetico.

Preparazione all’intervento

Nelle settimane precedenti l’intervento viene eseguita la procedura di pre-ricovero in cui vengono effettuati dei prelievi di sangue. I risultati verranno discussi durante una visita anestesiologica.

È necessario informare il personale sanitario riguardo l’assunzione di farmaci anticoagulanti e/o antiaggreganti.

Generalmente non è necessaria una preparazione intestinale con lassativi come avviene per interventi eseguiti sull’intestino, a meno che il medico non la richieda espressamente.

Anestesia

L’intervento nella maggior parte dei casi è eseguito in anestesia generale, ma in base alle condizioni cliniche, possono essere applicate tecniche di anestesia

La procedura laparoscopia viene in genere praticata in anestesia generale, mentre con la tecnica a cielo aperto è possibile valutare le tecniche loco-regionali.

Quanto dura l’intervento?

La durata dell’intervento è di circa 30-60 minuti, variabile a seconda di fattori tecnici.

Come avviene l’intervento

Nella maggior parte dei casi l’intervento è svolto in regime di day-surgery, cioè la dimissione avviene la sera stessa della giornata dell’intervento.

I casi in cui può essere consigliata una degenza ospedaliera di una notte sono:

Qualora l’ernia sia andata incontro a complicanze, sarà necessario valutare le condizioni dell’intestino con un intervento più complesso e, nel caso in cui il chirurgo noti la presenza di aree non più vitali, si procederà a resecare il segmento di intestino malato; la degenza ospedaliera in questi casi si protrae fino ad almeno 4-5 giorni.

Intervento a cielo aperto

Inizialmente si esegue un’incisione cutanea effettuata a livello del sacco erniario, di lunghezza generalmente inferiore a 10 cm ma variabile a seconda delle dimensioni e alla localizzazione dell’ernia.

Successivamente si riposiziona il viscere in cavità addominale e si fissa con dei punti di sutura a livello della parete addominale interna una piccola rete, sagomata dal chirurgo al momento in base alle caratteristiche anatomiche del paziente, per evitare la recidiva di ernia.

Chirurgo che modella la rete per l'ernia inguinale

iStock.com/PhotoGraphyKM

Intervento laparoscopico

Concettualmente è lo stesso tipo di intervento, con l’importante differenza che viene effettuato dal lato della cavità addominale e non dall’esterno, ma sempre con l’obiettivo di posizionare una rete per evitare la recidiva.

Generalmente si eseguono 3 piccole incisioni sull’addome, attraverso cui sono inseriti gli strumenti:

  • una telecamera dotata di luce,
  • e due strumenti che serviranno per ridurre l’ernia.
Ferite da laparoscopia dopo appedicectomia

iStock.com/annedehaas

Fa male?

Durante l’intervento l’anestesia è in grado di prevenire la comparsa di qualsiasi percezione di dolore, mentre nei primi giorni post-chirurgia gli antidolorifici prescritti permetteranno un efficace controllo di eventuali fastidi.

Dopo l’intervento

Sarà necessario astenersi da sforzi per le 4 settimane successive all’intervento. Si potrà tornare al lavoro già 2-3 giorni dopo l’intervento, a patto che questo non richieda sforzi fisici eccessivi; le attività aerobiche leggere sono invece permesse.

È possibile ricominciare a bere e mangiare lo stesso giorno dell’intervento.

Se è presente dolore questo verrà trattato in modo ottimale con farmaci analgesici. Nei pazienti trattati con tecnica laparoscopica potrebbe esserci anche dolore cervicale o alla spalla legato al fatto che viene inserita anidride carbonica nell’addome per distenderlo durante l’intervento e questo può causare irritazione di alcuni nervi. Questo tipo di dolore di solito regredisce in pochi giorni.

Nelle settimane seguenti l’intervento sarà inoltre programmata una visita ambulatoriale con il chirurgo, volta a

  • verificare il decorso post-operatorio,
  • rimuovere i punti di sutura.

Verrà consigliata una breve astinenza sessuale nei primi giorni, poi la ripresa potrà essere graduale senza previste complicazioni.

Complicanze e rischi dell’intervento

L’intervento di ernia addominale è eseguito ogni giorno su migliaia di pazienti ed è considerato ad oggi molto sicuro. Non bisogna però dimenticare che ogni operazione è caratterizzata da alcuni rischi e complicazioni di cui si verrà edotti.

Le principali complicanze, sia della chirurgia a cielo aperto che della chirurgia laparoscopica sono:

  • infezione della rete posizionata a livello della parete addominale,
  • lesioni di alcuni nervi della regione con conseguente dolore cronico o perdita di sensibilità,
  • ischemia testicolare o dolore testicolare cronico,
  • recidiva dell’ernia,
  • complicanze generali della chirurgia:

Quando chiamare il medico

Una volta a casa si raccomanda di contattare il medico in caso di:

  • febbre elevata e/o persistente,
  • disturbi urinari (ad esempio ritenzione urinaria),
  • dolore addominale importante che non passa,
  • fuoriuscita di materiale sieroso o purulento dalla ferita,
  • gonfiore alle gambe e/o alla caviglia,
  • difficoltà respiratoria,
  • vomito che non passa.

Fonti e bibliografia

L'articolo Ernia addominale: cause, sintomi, intervento e cura proviene da Farmaco e Cura.


Crampi addominali e alla pancia: cause, pericoli e rimedi

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Introduzione

I crampi addominali sono un sintomo frequente, comune a molte patologie prettamente di natura gastrica e/o intestinale. Ne possono soffrire ugualmente uomini e donne, di qualsiasi età compresi i bambini.

Crampo Dolore crampiforme, ossia una contrazione muscolare dolorosa e transitoria, cioè di breve durata e/o intermittente
Addominale Interessa la porzione del corpo compresa tra il petto e l’inguine

Per sua stessa definizione il sintomo presenta quindi numerose caratteristiche variabili:

  • Può avere diversi livelli d’intensità: da leggero, a moderato, a molto forte.
  • Può insorgere immediatamente dopo il pasto, migliorare con il pasto, o non avere correlazione col cibo.
  • Può essere di breve durata con risoluzione spontanea (senza che sia richiesta una terapia) o perdurare per più tempo.
  • Può essere avvertito in tutto la pancia (dolore sordo) o localizzarsi in una zona specifica (localizzato).
  • Può ricorrere più volte nell’arco della vita sempre con le stesse caratteristiche o presentarsi come episodio unico.
  • In genere non è mai isolato, ma si associa ad altri disturbi quali:

La diagnosi si basa sulla obiettività clinica ed eventuali esami strumentali o di laboratorio (non sempre necessari).

La cura è scelta in base alla causa scatenante.

Donna che tiene la pancia a causa del dolore

iStock.com/spukkato

Cause

I crampi addominali sono nella maggior parte dei casi dovuti ad un problema di natura gastrica e/o intestinale; si tratta di un sintomo molto comune e generalmente non preoccupante e destinato a risolversi spontaneamente entro un breve lasso di tempo.

Se compaiono all’improvviso, in modo violento, la causa potrebbe essere un’emergenza medica, come ad esempio un attacco acuto di appendicite, una peritonite od un’occlusione intestinale, e si raccomanda quindi di rivolgersi in Pronto Soccorso.

È tuttavia importante notare che la severità del dolore non sempre riflette la gravità della condizione scatenante, ad esempio:

  • una gastroenterite virale e la presenza di gas intestinali possono causare dolore severo,
  • tuttavia condizioni potenzialmente fatali come il tumore al colon e l’appendicite acuta potrebbero esordire con un dolore lieve o anche presentarsi in assenza di dolore (in genere i tumori nelle fasi più avanzate causano comunque altri sintomi quali sangue nelle feci (visibile od occulto), anemia e severa perdita di peso in pochi mesi).

Le cause dei crampi addominali dunque possono essere svariate, più o meno gravi, più o meno frequenti. In questo elenco raccogliamo le più note, tra cui ricordiamo:

Altre possibili cause di crampi addominali, che esulano dall’apparato digerente e in alcuni casi parafisiologici, sono anche:

Bambini

Nei bambini piccoli, di età inferiore ai 2 anni, possibili cause di crampi addominali sono:

  • coliche gassose,
  • invaginazione (patologia intestinale),
  • ernia strozzata (complicazione delle ernie addominali),
  • ostruzione intestinale,
  • malrotazione con volvolo,
  • infezione delle via urinarie (ad esempio cistite),
  • gastroenterite acuta,
  • trauma (ad esempio in caso di abuso),
  • malattia di Hirschsprung,
  • peritonite spontanea batterica,
  • polmonite (lobo inferiore),
  • aerofagia.

Nei bambini più grandi possibili cause di crampi addominali sono:

  • epatiti,
  • ulcera peptica,
  • tumori addominali (Neuroblastoma – T. di Wilms),
  • stipsi,
  • trauma,
  • appendicite,
  • torsione testicolo,
  • torsione funicolo/ovaio,
  • diverticolo di Meckel,
  • sindrome di Schoenlein-Henoch,
  • gastroenterite,
  • polmonite (lobo inferiore),
  • infiammazione e/o infezione delle vie urinarie (pielonefrite, cistite, …),
  • invaginazione intestinale,
  • sindrome emolitico-uremica,
  • adenite mesenterica,
  • crisi di falcizzazione,
  • chetoacidosi.

Crampi addominali e gravidanza

I crampi addominali cosiddetti “da impianto” sono avvertiti da alcune donne all’inizio di una gravidanza: insieme alla scomparsa del ciclo mestruale, questo sintomo può far parte dei primi segnali che è avvenuto l’annidamento dell’ovulo fecondato nell’utero e la donna è ufficialmente in dolce attesa.

Piccoli crampi sono abbastanza comuni in tutto l’arco della gestazione, ma tendono ad intensificarsi nelle ultime settimane, con la comparsa delle contrazioni preparatorie al parto.

Se i crampi addominali

è necessario che la paziente vada al Pronto Soccorso per sottoporsi ad una visita ginecologica di controllo. Il medico potrà valutare che tutto stia procedendo bene ed escludere problemi di una certa gravità come aborto spontaneo, gravidanza ectopica o parto prematuro.

Sintomi di accompagnamento

In presenza di crampi addominali il paziente avverte contrazioni dolorose dei muscoli dello stomaco o dell’intestino:

  • di tipo spastico, cioè non continuo,
  • diffusi in tutto l’addome o localizzati in una parte precisa della pancia,
  • più o meno intensi.

Questi sono generalmente associati ad altri sintomi, tra cui i più comuni sono:

Quando preoccuparsi

Si raccomanda di rivolgersi ad un medico od eventualmente in Pronto Soccorso quando:

  • i crampi addominali non migliorano entro 1-2 giorni,
  • tendono a peggiorare nonostante le cure, in termini d’intensità e/o frequenza,
  • oppure sono associati a sintomi più gravi quali:
    • nausea e vomito incoercibile (cioè che non rispondono ai farmaci),
    • febbre alta,
    • diarrea profusa e/o dissenteria (diarrea con sangue),
    • gonfiore addominale molto vistoso e persistente,
    • disturbi urinari,
    • affanno,
    • crampi addominali comparsi all’improvviso e di forte intensità, taglianti,
    • ittero,
    • altri dolori al petto, alla spalla, al collo,
    • sangue nelle feci o feci di colore nero piceo,
    • sangue nel vomito,
    • sangue vaginale (al di fuori del ciclo mestruale),
    • grave difficoltà ad evacuare o arresto all’emissione di feci e/o gas,
    • pancia tesa e dura al tatto,
    • perdita di appetito,
    • severa perdita di peso negli ultimi 6 mesi, senza causa apparente.

In caso di complicanze di alcune malattie gastro-intestinali possono inoltre comparire sintomi extra-intestinali come disturbi

  • urinari,
  • visivi,
  • cardiaci,
  • polmonari,
  • ossei o muscolari,

Bambini

Il mal di pancia è un sintomo comune nei bambini, generalmente legato all’abuso di cibi spazzatura, ad un litigio con un piccolo amico o un fratello, oppure alla poca voglia d’andare a scuola. Si tratta in questi casi di episodi sporadici che non devono destare particolari preoccupazioni nei genitori. A volte però, la comparsa di crampi addominali nei bambini può associarsi a sintomi di allarme che è sempre bene non sottovalutare e che richiedono un controllo pediatrico. Questo ad esempio è il caso di:

  • comparsa di crampi addominali di intensità tale da far interrompere il gioco o svegliare durante il riposo notturno,
  • pallore,
  • febbre,
  • diarrea profusa o stitichezza ostinata,
  • vomito,
  • calo di peso,
  • sangue,
  • rallentamento della crescita,
  • durata dei crampi per più di 3-4 ore,
  • dolore diffuso in tutta la pancia, con esordio improvviso (tipico dell’appendicite acuta nei bambini).

Diagnosi

In presenza di un paziente che lamenta dolore addominale per prima cosa il medico raccoglie la storia clinica (anamnesi) del paziente, attraverso una lunga serie di domande quali:

  • come si sono manifestati i crampi all’addome? Il medico annoterà:
    • sede,
    • intensità,
    • durata,
    • risoluzione (spontanea o con l’uso di farmaci),
    • andamento (spastico-crampiforme o continuo),
    • associati o no al pasto,
    • comparsa dei crampi di notte,
    • associazioni con altri disturbi, quali: diarrea, stitichezza, febbre, nausea, vomito, manifestazioni extra-intestinali, …
  • familiarità per malattie gastro-intestinali (ad esempio sindrome dell’intestino irritabile, celiachia, tumori),
  • familiarità per altre malattie, in particolare malattie autoimmuni,
  • nella donna informazioni quali:
    • età del menarca (primo flusso mestruale),
    • età di entrata in menopausa,
    • regolarità del ciclo mestruale,
    • gravidanze,
    • aborti spontanei,
  • abitudini al fumo e/o all’alcool,
  • intolleranze alimentari note,
  • malattie note,
  • interventi chirurgici pregressi,
  • assunzione/abusi di farmaci (in particolare FANS o antibiotici),
  • è sottoposto a trattamenti medici come chemioterapia e/o radioterapia.

Ricordiamo che secondo gli studi di anatomia topografica la pancia può essere distinta in 4 quadranti (superiore destro e sinistro, inferiore destro e sinistro) e 9 regioni che, andando dall’alto verso il basso, comprendono:

  • ipocondrio destro e sinistro con in mezzo l’epigastrio,
  • fianco destro e sinistro con in mezzo il mesogastrio,
  • fossa iliaca destra e sinistra con in mezzo l’ipogastrio.

Ogni regione contiene specifici organi addominali per cui localizzare, quando possibile, con precisione dove i crampi addominali si sono avvertiti può essere utile al medico per formulare un sospetto diagnostico (insieme alle altre caratteristiche del dolore). Spetta al medico inoltre capire quando un paziente riferisce un dolore crampiforme localizzato in un punto, se davvero in quell’area vada ricercato il problema o se, di contro, si tratti di un dolore riflesso: ad esempio il riflesso di un’infiammazione localizzata altrove.

Durante la visita medica, il medico:

  • misura la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca,
  • segna il peso corporeo e calcola il BMI (indice di massa corporea),
  • palpa l’addome apponendo le mani una sopra l’altra e seguendo pressioni superficiali e profonde in tutti i quadranti addominali. La palpazione consente di avvertire se la pancia è trattabile (morbida) o è tesa o dura al tatto, se c’è aria nell’intestino, se c’è una zona particolarmente dolorante, eventuali masse sospette o distensioni intestinali, …,
  • ausculta con il fonendoscopio l’addome alla ricerca di eventuali rumori intestinali anomali (la fisiologica peristalsi è presente? è accentuata? è assente?),
  • può, in base ai sintomi riferiti dal paziente, ispezionare la regione perianale e compiere un’esplorazione rettale,
  • valuta le condizioni generali del paziente con particolare attenzione a stati di magrezza, pallore, ritardo di crescita (nei bambini).

Non sempre giungere ad una diagnosi è semplice, basti pensare che tanti sono gli organi contenuti in addome e tutti direttamente o per via riflessa possono esser causa di crampi addominali. Il medico deve controllare la buona salute di:

  • stomaco,
  • intestino,
  • fegato,
  • cistifellea,
  • pancreas,
  • milza,
  • reni e ureteri,
  • utero e ovaio (nella donna),
  • e per ultimo il peritoneo, che non è un organo, ma una membrana che avvolge, protegge e nutre gli organi addominali.

Talvolta il medico può richiedere un prelievo di sangue per controllare il valore di alcuni parametri come:

  • emocromo completo,
  • indici di malassorbimento (ferritina, sideremia, albumina, folati, B12, proteine totali),
  • PCR,
  • VES,
  • elettroliti,
  • amilasi e lipasi (indici di funzionalità del pancreas),
  • indici di funzionalità epatica (tra cui le transaminasi),
  • creatinina e azotemia,
  • marcatori tumorali,
  • dosaggio di anticorpi per la diagnosi di celiachia (se c’è un sospetto).

In alcuni casi è richiesto un esame delle feci per valutare l’eventuale presenza di sangue occulto e/o una coprocoltura per valutare la presenza di infezioni. La comparsa di febbre e bruciore alla minzione, può essere indagato con un esame delle urine ed eventuale antibiogramma.

Se c’è un sospetto, il medico può richiedere l’esecuzione dei test allergici e di intolleranze alimentari.

Tra gli esami strumentali, in base al sospetto diagnostico, il medico può richiedere:

Raramente è richiesta una laparotomia esplorativa, cioè un intervento chirurgico che ha lo scopo di esaminare direttamente gli organi addominali per valutarne lo stato di salute e trovare una causa ai sintomi riferiti dal paziente, fino a quel momento privi di spiegazione. Questa procedura diagnostica è indicata anche nel caso di traumi addominali, addome acuto o tumori, al fine di valutarne la gravità.

Rimedi

In caso di crampi addominali lievi, dovuti ad esempio al ciclo mestruale, può essere utile l’uso di una borsa d’acqua calda sulla pancia, avvolta da un panno, così come tisane e camomille calde o dormire in posizione fetale, accovacciati con le ginocchia raccolte al petto.

La cura specifica è invece strettamente correlata al problema che ha causato l’insorgenza dei crampi addominali. Trattandosi generalmente di un disturbo di natura gastrica e/o intestinale, tra i possibili rimedi medici al primo posto non si può prescindere da alcune indicazioni dietetiche::

  • preferire cibi leggeri e secchi, bere molta acqua, assumere probiotici nel caso di gastroenteriti, coliti, …
  • assumere fibre, ossia cereali integrali, frutta, verdura, legumi (fa eccezione la fase acuta della diarrea),
  • finocchio, carbone vegetale, tisane allo zenzero ed avere l’abitudine di non mangiare velocemente, sono buoni rimedi nel caso di gonfiore addominale per assorbire i gas intestinali in caso di meteorismo
  • eliminare i cibi ritenuti responsabili di intolleranze, o contenenti glutine nel caso della celiachia
  • alimenti ricchi di ferro (legumi, frutta secca, verdure a foglia verde scuro, fegato, carni, tuorlo d’uovo, …) e vitamina C (per favorirne l’assorbimento) vanno assunti nel caso di anemia da malassorbimento, stanchezza o ciclo mestruale abbondante,
  • evitare gli abusi di alcool, caffè e bibite contenenti caffeina e quelle gassate in generale,
  • evitare gli abusi di cibi grassi, fritti e “cibi spazzatura” (merendine, pizza surgelata, patatine fritte, insaccati e salumi, wurstel, bevande light, dolci e dolcificanti, …) in generale.

Tra i farmaci comunemente utilizzati ci sono, a seconda dei casi:

  • antispastici,
  • antiacidi,
  • inibitori di pompa protonica,
  • antidiarroici,
  • antinausea e antivomito,
  • lassativi,
  • antibiotici intestinali,
  • integratori probiotici,
  • procinetici,
  • antidepressivi.

La depressione, l’ansia e lo stress sono sovente causa di crampi addominali: praticare uno sport o un hobby o tecniche di rilassamento aiuta al benessere psichico.

Cure specifiche come chirurgia, chemioterapia e/o radioterapia vanno presi in considerazione nel caso di un tumore.

La chirurgia d’urgenza è richiesta nel caso di crampi addominali acuti e violenti da cause particolari come occlusione intestinale, appendicite acuta, volvolo, emorragie, traumi addominali, …

Bibliografia

  • Harrison, Principi di Medicina Interna, McGraw-Hill, 2006

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Mesotelioma: cause, sintomi e cura

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Introduzione

Il mesotelio è una membrana sierosa che riveste diversi organi e strutture dell’organismo; le cellule mesoteliali sono il mattone base che lo costituisce.

A seconda della struttura che riveste, il mesotelio prende il nome di:

  • Pleura, che riveste polmoni e gabbia toracica.
  • Peritoneo, che riveste i visceri e la cavità addominale.
  • Pericardio, che riveste il cuore.
  • Tunica vaginale, che riveste il testicolo e lo scroto.
  • Perimetrio, origina dalla tonaca sierosa che riveste l’utero nelle donne.

La sua funzione principale è quella produrre un liquido sieroso che permette, alle strutture che riveste, una sorta di “movimento senza frizione” (pensiamo ai polmoni che si espandono all’interno della gabbia toracica).

Il mesotelioma è il tumore che nasce dalle cellule mesoteliali.

Le neoplasie del mesotelio si distinguono in due forme:

  • Benigne: tumori rari di piccole dimensioni, a lento accrescimento, scarsa capacità di infiltrazione e di diffusione a distanza;
  • Maligne: si parla propriamente di mesoteliomi, tumori molto aggressivi con alta capacità di invasione locale e a distanza.

Il mesotelioma si sviluppa nell’80% dei casi a livello della pleura, ed ha un’incidenza che è andata aumentando negli ultimi 30 anni per via dell’esposizione all’amianto avutasi qualche decennio fa (il tempo di latenza tra l’esposizione all’amianto e lo sviluppo di malattia varia tra 10 ai 40 anni).

Infografica del mesotelioma

iStock.com/VectorMine

È più frequente nel sesso maschile e si manifesta intorno ai 50-60 anni.

La causa principale dello sviluppo del mesotelioma è l’esposizione alle fibre di amianto, minerale utilizzato in passato in moltissimi campi (industria siderurgica e navale, costruzione delle autovetture, abitazioni, impianti di riscaldamento, …) per via delle sue eccellenti proprietà fisico-strutturali. Solo a distanza di molti anni si è comprovata la sua elevata cancerogenicità e sono state promulgate diverse leggi che ne vietano l’utilizzo.

L’esposizione professionale o ambientale all’amianto rappresenta perciò il fattore di rischio più importante, soprattutto quando associato al fumo di sigaretta.

I sintomi del mesotelioma sono piuttosto aspecifici nella fase iniziale e solo nella fase ormai conclamata della malattia si sviluppa un quadro clinico caratterizzato da:

La diagnosi deve partire da una dettagliata anamnesi che dimostri l’esposizione del paziente all’amianto negli anni precedenti. Sulla base di questo dato anamnestico, il medico richiederà una serie di esami strumentali radiologici (come la radiografia e la TC del torace) che permettono la diagnosi o il follow-up a distanza della malattia per seguirne l’eventuale sviluppo nel corso degli anni successivi.

Il sospetto diagnostico di mesotelioma deve essere confermato dalla biopsia che ne permette la definizione istologica.

Il trattamento si fonda su tre opzioni:

  • chirurgia (utile soprattutto negli stadi iniziali o a scopo palliativo in caso di malattia ormai avanzata),
  • radioterapia,
  • chemioterapia.

Essendo il mesotelioma una patologia subdola, che solo di rado dà luogo a segni e sintomi precoci, si manifesta quasi sempre quando ha ormai raggiunto uno stadio avanzato e refrattario a qualsiasi forma di terapia; per tal motivo la prognosi è quasi sempre infausta con la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi che non supera il 20%.

Cause e fattori di rischio

Il principale fattore di rischio per il mesotelioma è l’esposizione all’amianto e quindi colpisce generalmente soggetti che sono entrati in contatto con tale sostanza dopo esposizione ambientale e sul posto di lavoro.

L’amianto è un minerale caratterizzato da una struttura microscopica di tipo fibroso che risultava molto resistente al calore e utile in moltissimi campi: veniva utilizzato nella costruzione di navi, autovetture, impianti di riscaldamento, tubi e tute di protezione di vario genere.

L’amianto è pericoloso perché le sue fibre sono ultrasottili e quando inalate possono depositarsi a livello polmonare e danneggiare le cellule mesoteliali, danneggiandone il DNA e portando allo sviluppo del mesotelioma.

Particolare di asbesto

iStock.com/Tunatura

Inoltre a livello polmonare possono provocare anche patologie come l’asbestosi e diverse forme tumorali benigne come i tumori adenomatoidi e il mesotelioma cistico.

In Italia il mesotelioma rappresenta circa lo 0.3% di tutti i tumori diagnosticati, con maggiore frequenza nell’uomo rispetto alla donna soprattutto per la maggiore esposizione professionale.
Il rischio di sviluppare un mesotelioma è correlato sia al tempo di esposizione che alla quantità di amianto inalata nel corso degli anni.

Recenti studi inoltre hanno dimostrato come il fumo di sigaretta aumenti considerevolmente il rischio di sviluppare un mesotelioma nei soggetti esposti all’amianto rispetto ai non fumatori esposti.

Oltre all’esposizione all’amianto, le altre cause principali di sviluppo di mesotelioma sono:

  • esposizione a minerali simili all’amianto come l’erionite,
  • radiazioni a livello toracico e addominale,
  • infezione da virus SV40 (correlazione ancora in fase di studio),
  • iniezioni di diossido di Torio (usate in medicina sino al 1950),
  • mutazioni di alcuni geni come il BAP1.

Classificazione

A seconda del distretto corporeo interessato, si riconoscono:

  • Mesotelioma pleurico: nasce dalla pleura viscerale (che riveste il polmone) o dalla pleura parietale (che riveste la gabbia toracica); è la forma più frequente di mesotelioma con un’incidenza dell’80%.
  • Mesotelioma peritoneale: forma rara che origina dal peritoneo, membrana sierosa che riveste la parete e i visceri addominali.
  • Mesotelioma pericardico: forma ultra-rara che origina dalla membrana che riveste il cuore.
  • Mesotelioma vaginale: anch’esso molto raro e ad origine dalla cavità scrotale contenente i testicoli.

A livello istologico si riconoscono forme:

  • Epitelioide: nel 70% dei casi con cellule maligne che hanno un aspetto che ricorda le cellule epiteliali; questo istotipo è correlato ad una prognosi meno infausta.
  • Sarcomatoide: circa il 20% dei casi.
  • Mista: con aspetti sia epitolioidi che sarcomatoidi.

Sintomi

Il mesotelioma presenta una fase di crescita iniziale con quadro clinico subdolo e sintomatologia piuttosto sfumata, che rende la sua diagnosi precoce molto complessa e conseguente peggioramento della prognosi.

I sintomi sono perciò poco specifici e caratterizzati da:

  • dolore a livello
    • toracico,
    • dorsale,
    • addominale,
  • sintomi polmonari come dispnea (difficoltà respiratoria con sensazione di mancanza d’aria),
  • tosse secca, stizzosa, che non migliora con la routinaria terapia antibiotica ed antinfiammatoria,
  • versamento pleurico spesso recidivante (in gergo popolare “acqua nei polmoni”),
  • febbre,
  • nausea e vomito,
  • perdita dell’appetito e calo ponderale,
  • sensazione di malessere generale,
  • dolori articolari e muscolari.

Diagnosi

Vista la rarità della patologia non risulta utile uno screening generale per la diagnosi precoce, a meno che non si tratti di persone esposte in passato all’amianto per ragioni professionali o per la vicinanza con aree contaminate per periodi di tempo più o meno lunghi; in tali casi le linee guida consigliano l’esecuzione di esami radiologici di controllo come radiografia o TC del torace, per tenere sotto controllo la comparsa di eventuali cambiamenti patologici a livello polmonare.

L’anamnesi gioca un ruolo fondamentale nella diagnosi del mesotelioma; per anamnesi si intende una sorta di intervista medico-paziente con cui è possibile ricostruire la storia clinica passata e recente dell’ammalato.

Se il paziente riferisce in passato l’esposizione ambientale o professionale all’amianto, il medico inizierà un percorso diagnostico per seguirne il follow-up a distanza (ricordiamo come gli esiti patologici dell’esposizione all’amianto possono insorgere anche distanza di 20-40 anni).

L’esame obiettivo può dimostrare la presenza di disturbi della funzionalità polmonare che possono richiedere un approfondimento diagnostico con esami strumentali.

Gli esami strumentali radiologici utilizzati per la diagnosi di mesotelioma possono essere:

  • Radiografia del torace: può mostrare reperti patologici a carico della pleura o del polmone stesso.
  • TC del torace: esame di secondo livello nonché il gold-standard per questa patologia. Permette di determinare la presenza del tumore, le sue dimensioni e i rapporti con le strutture circostanti. Viene utilizzata anche per il follow-up a distanza di pazienti con nodularità polmonari sospette da seguire nel tempo.
  • Risonanza magnetica: esame efficace per lo studio dei tessuti molli del corpo che in alcuni casi approfondisce sotto altri aspetti lo studio con TC.
  • PET-TC: esame di terzo livello utile per lo studio delle patologie neoplastiche. Si basa sull’avidità di assorbimento delle cellule neoplastiche del fluoro-desossiglucosio (FDG); evidenzia in associazione alla TC le aree di maggior accumulo di questo radio-farmaco permettendo di individuare le lesioni realmente neoplastiche da lesioni di altro genere. Permette anche di localizzare eventuali metastasi linfonodali o a distanza.
  • Biopsia: è l’esame necessario per la conferma del sospetto di mesotelioma. Con un ago sottile viene prelevato un frustolo di tessuto che viene analizzato poi istologicamente permettendo di confermare la diagnosi di mesotelioma e caratterizzarne l’istotipo.

Cura

Le leggi promulgate a partire dal 1992 hanno vietato globalmente l’utilizzo di amianto e ne obbligano la verifica della presenza all’interno di edifici pubblici come scuole o abitazioni. I soggetti risultati esposti ad amianto nel corso della loro attività professionale hanno avuto diritto ad un risarcimento per malattia professionale.

Il trattamento del mesotelioma è piuttosto complesso e la sua possibilità dipende da vari fattori:

  • stadio della malattia, ovvero quanto la malattia è estesa nell’organismo,
  • presenza di metastasi a distanza,
  • presenza di patologie sottostanti,
  • regioni del corpo interessate (pleura, pericardio o peritoneo),
  • condizioni generali del paziente.

Le opzioni terapeutiche per il mesotelioma sono essenzialmente tre:

  • chirurgia,
  • radioterapia,
  • chemioterapia.

La chirurgia dev’essere il primo approccio terapeutico qualora sia possibile, in base allo stadio e quindi all’estensione della malattia. Se il mesotelioma è localizzato solo a livello polmonare la chirurgia può risultare spesso risolutiva, tuttavia spesso si rende evidente clinicamente quando ha già ha invaso strutture nobili vicine o si è diffuso a distanza: in tali casi la chirurgia curativa non avrebbe efficacia ed è pertanto da sconsigliare.

La chirurgia o altre procedure invasive possono invece avere anche negli stadi più avanzati, una finalità palliativa, per alleviare la sintomatologia e mantenere una qualità di vita adeguata per il paziente. Gli approcci chirurgici possono essere:

  • Pleuropneumonectomia: con asportazione della pleura, del polmone, di parte del diaframma e dei linfonodi viciniori.
  • Pleurectomia: rimozione della pleura invasa dal tumore risparmiando il polmone risultato sano.
  • Pleurodesi: qualora il mesotelioma si manifesti con versamento pleurico recidivante, la pleurodesi permette la rimozione del versamento pleurico e l’inserimento di una specifica sostanza nel cavo pleurico che fa aderire il foglietto viscerale a quello parietale riducendo la possibilità che si riformi il versamento.

La radioterapia è utile dopo l’intervento chirurgico per “sterilizzare” la zona sede dell’intervento, distruggendo le cellule tumorali non visibili ad occhio nudo. Così come per la chirurgia, anche per la radioterapia vi può essere uno scopo palliativo per citoridurre la massa neoplastica ed alleviarne la sintomatologia specifica.

Infine la chemioterapia riconosce due modalità:

  • Neoadiuvante: viene eseguita per ridurre le dimensioni di un tumore e renderlo asportabile chirurgicamente.
  • Adiuvante: eseguita dopo l’intervento chirurgico per migliorarne gli esiti terapeutici. La chemioterapia trova indicazione soprattutto in quelle forme in cui la neoplasia ha già dato metastasi linfonodali o a distanza.

La somministrazione di farmaci chemioterapici può avvenire per via endovenosa, o per via intrapleurica ovvero direttamente nelle spazio pleurico, che permette un’azione locale più mirata ed efficace.

In definitiva il mesotelioma è una patologia insidiosa che solo di rado dà luogo a segni e sintomi precoci e più spesso si manifesta quando ha ormai raggiunto uno stadio avanzato e refrattario a qualsiasi forma di terapia.

La prognosi è quasi sempre infausta con la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi che non supera il 20%.

Fonti e bibliografia

  • Malattie dell’apparato respiratorio II edizione. E. Gramiccioni, M. Loizzi, M.P. Foschino Barbaro, O. Resta, F. Sollitto. (Edizioni Minerva Medica Torino).
  • MedScape

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Spondiloartrosi: cause, sintomi e cura

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Introduzione

Per spondiloartrosi s’intende una patologia degenerativa della colonna vertebrale che si delinea come un processo di artrosi.

La spondiloartrosi è quindi un quadro di artrosi che coinvolge le strutture anatomiche del rachide, ovvero:

  • disco intervertebrale,
  • corpi vertebrali,
  • tessuti perivertebrali adiacenti.

A seconda della sede anatomica maggiormente coinvolta dalla patologia si parlerà di:

  • spondiloartrosi cervicale (cervicoartrosi),
  • spondiloartrosi lombare (lomboartrosi),
  • spondiloartrosi completa, coinvolgente tutti i tratti della colonna.
Colonna vertebrale

iStock.com/Tera Vector

Si manifesta per lo più in soggetti in età avanzata o individui che svolgono lavori pesanti o lavori che richiedono posture fisse ed errate del corpo per lunghi periodi di tempo.

Le principali cause di spondiloartrosi sono:

  • vizi posturali prolungati (mantenimento di posizioni errate),
  • sforzi esagerati e prolungati,
  • trauma alla schiena,
  • patologie sistemiche che colpiscono secondariamente la colonna vertebrale,
  • lavori pesanti,
  • sovrappeso e obesità.

Il quadro clinico della spondiloartrosi prevede diversi sintomi, tra cui:

Dolore alla schiena, con irradiazioni a braccia e gambe

  • difficoltà nei movimenti, nelle lunghe camminate e nel mantenere la posizione eretta per diverso tempo,
  • astenia e malessere generalizzato,
  • dolori muscolari e/o articolari piuttosto diffusi,
  • parestesie (sensazione di formicolio) e altri disturbi sensitivi.

La diagnosi di spondiloartrosi avviene per mezzo di anamnesi ed esame obiettivo specialistico, con la possibilità di eseguire alcuni esami strumentali come radiografia del rachide o risonanza magnetica.

Essendo la spondiloartrosi una patologia degenerativa progressiva, non vi può essere guarigione completa.

Con il passare del tempo si assiste ad una deformazione delle articolazioni della colonna vertebrale difficilmente risolvibile, si può tuttavia agire sui sintomi attenuando il dolore e la disfunzione nei movimenti della colonna.

Per queste ragioni il trattamento si basa su:

  • prevenzione da sforzi e ulteriori sollecitazioni alla colonna,
  • terapia antalgica per mezzo di farmaci antinfiammatori e antidolorifici di uso comune,
  • fisioterapia,
  • intervento chirurgico nelle forme gravi non responders alla terapia medica.

Cause

Nella spondiloartrosi si sviluppano processi degenerativi che coinvolgono le articolazioni del rachide. Le principali cause e i fattori di rischio legati allo sviluppo di tale processo sono:

  • traumi (da incidenti stradali, colluttazioni, …),
  • vizi posturali, con sviluppo di cifosi, scoliosi o lordosi,
  • anomalie congenite della colonna,
  • svolgimento di attività lavorative “pesanti” (muratori, agricoltori, …),
  • sforzi ripetuti nel corso degli anni,
  • familiarità per patologie vertebrali, reumatiche ed osteo-articolari (artrite reumatoide, spondilite anchilosante, spina bifida, …),
  • interventi chirurgici a carico della colonna,
  • sovrappeso ed obesità,
  • fattori genetici ed ereditari,
  • età avanzata.

La spondiloartrosi si sviluppa dopo una progressiva degenerazione del nucleo polposo presente all’interno del disco intervertebrale e delle faccette articolari. Col tempo le cartilagini articolari vanno incontro a disidratazione (perdita di liquidi) avviando un processo di fibrosi e calcificazione, con il tempo queste modifiche istologiche portano alla perdita delle tipiche funzioni della cartilagine con:

  • minore resistenza alle sollecitazioni,
  • minore elasticità,
  • minore capacità ammortizzante.
Paragone tra colonna vertebrale sana e affetta da artrosi

iStock.com

Questo porta come conseguenza alla formazione di:

  • calcificazioni di superficie,
  • sclerosi dei tessuti molli,
  • formazione di osteofiti,
  • usura della cartilagine che si assottiglia e diventa piuttosto fragile,
  • appiattimento dei dischi dopo disidratazione del nucleo polposo,
  • spondilolistesi: scivolamento anteriore di una vertebra rispetto a quella sottostante;
  • stenosi del canale vertebrale: con compressione midollare e delle radici nervose (nelle forme più gravi ed inveterate da molto tempo). Il dolore può risultare maggiore da seduti e diminuisce quando si assume una posizione eretta, o durante la deambulazione.

La spondiloartrosi si può classificare in tre forme principali:

  • Disco uncus artrosi: quando sul disco intervertebrale si genera un osteofita che si sviluppa sulle estremità laterali dell’uncus vertebrale. Clinicamente si osserverà una cifosi segmentale (ovvero curvatura di parte del rachide con convessità posteriore).
  • Forma posteriore: quando l’artrosi interessa i massicci articolari.
  • Forma diffusa: la degenerazione articolare si estende a tutto il tratto cervicale con forte riduzione della mobilità del collo e forte rigidità che predispone ad un quadro di artrosi fissa. Rappresenta la forma più invalidante di spondiloartrosi, in cui spesso l’intervento chirurgico rappresenta l’unica soluzione per risolvere il problema.

Sintomi

Questa patologia è molto diffusa in età avanzata, tanto che a partire dai 50-60 anni di età oltre il 60% della popolazione può soffrire di disturbi a carico della colonna vertebrale e quindi di spondiloartrosi.

Il quadro clinico è soggettivo e variabile, con sintomi che possono essere più o meno gravi, a seconda della forma di artrosi e della sua entità con dolori che potranno essere localizzati soltanto alla zona cervicale o che si estendono sino ai glutei.

Nella maggior parte dei casi le alterazioni della spondiloartrosi non si rendono evidenti clinicamente, ma vengono diagnosticate come reperto accessorio nel corso di esami strumentali eseguiti per altri motivi (come una radiografia, una TC o una risonanza magnetica).

In alcuni casi si avverte un dolore diffuso a gran parte della colonna, di entità lieve-moderata, con carattere di intermittenza durante il corso della giornata ed esacerbazione durante gli sforzi o le attività fisiche più intense.

Nei quadri conclamati di spondiloartrosi si presentano sintomi tipici come:

  • rigidità della colonna nei movimenti, tipicamente al risveglio al mattino,
  • dolore che aumenta con l’attività e gli sforzi intensi,
  • dolore che si irradia al collo, alla testa, ai glutei e alle gambe,
  • difficoltà nei movimenti del tronco come il piegarsi in avanti o lateralmente,
  • sensazione e rumore di scricchiolio durante i movimenti del collo,
  • riduzione delle attività lavorative e delle performance sportive per la comparsa improvvisa di dolore,
  • parestesie (sensazione di formicolio o di arto addormentato) a livello di braccia, mani, gambe o piedi,
  • debolezza e dolore a livello muscolare,
  • cefalea (mal di testa),
  • nausea e vomito,
  • astenia e malessere generalizzato.

Nel quadro specifico di spondiloartrosi cervicale si possono riconoscere 3 sottotipi clinici a seconda della sintomatologia:

  • Tipo I: compressione delle radici nervose come nei casi di ernia del disco cervicale.
  • Tipo II: compressione del midollo spinale, con difficoltà nei movimenti fini delle mani, senso di pesantezza agli arti, parestesie e dolore generalizzato.
  • Tipo III: dolore intermittente lieve-moderato che si localizza alla sola regione cervicale o con irradiazione al capo.

Nel quadro specifico di spondiloartrosi lombare si presenta invece un dolore in regione lombare (zona più bassa della schiena) di tipo cronico che peggiora in posizione eretta o durante la deambulazione. Possono associarsi disturbi nella motilità degli arti inferiori, disturbi sensitivi come parestesie e sensazione di “scosse elettriche” alla schiena, disturbi sfinterici (con lieve incontinenza urinaria o fecale).

Diagnosi

Il percorso diagnostico si avvale di anamnesi ed esame obiettivo, coadiuvato dall’esecuzione di alcuni esami strumentali.

Con l’anamnesi il medico ricostruisce la storia clinica recente e passata del paziente cercando di evidenziare:

  • familiarità per patologie o problematiche alla colonna vertebrale,
  • presenza di patologia sistemica coinvolgente la colonna come l’artrite reumatoide, la spondilite anchilosante, lupus, spina bifida,
  • vizi posturali come scoliosi, cifosi o lordosi,
  • episodi di traumi alla colonna (da incidenti stradali, colluttazioni, …),
  • attività lavorative a rischio come lo svolgimento di lavori pesanti o che richiedono una postura errata prolungata.

L’esame obiettivo specialistico permette di repertare i sintomi e i segni clinici caratteristici della spondilosi. Viene indagato soprattutto la sintomatologia dolorosa con tutte le sue caratteristiche:

  • quando compare,
  • cosa lo scatena,
  • da cosa viene alleviato,
  • se è acuto o cronico,
  • continuo o intermittente,

Il sospetto di spondiloartrosi può essere confermato da alcuni esami strumentali come:

  • Radiografia della colonna in posizione eretta o sotto carico.
  • TC, insieme alla radiografia utile per lo studio delle componenti ossee e di eventuali focolai di calcificazione patologici.
  • Risonanza magnetica, utile nello studio delle alterazioni dei tessuti molli perivertebrali, come il disco, il nucleo polposo, le cartilagini articolari e i legamenti vertebrali.
  • Scintigrafia ossea.

Cura

Per la spondiloartrosi non esiste una guarigione definitiva dai sintomi, visto il quadro di degenerazione anatomico progressivo e inesorabile; si attua a tale scopo un trattamento di tipo:

  • sintomatico (ovvero mirato alla riduzione della gravità dei sintomi e all’aumento della qualità della vita),
  • preventivo basato sull’educazione posturale e sulla riduzione delle sollecitazioni meccaniche alla colonna.

Dal punto di vista sintomatico si utilizzano farmaci antinfiammatori come i FANS e nei casi più gravi i cortisonici, che possono essere assunti

I principali FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei) di utilizzo comune sono:

Il trattamento preventivo e non farmacologico si basa invece su:

  • riposo assoluto nelle fasi acute,
  • massoterapia (serie di massaggi praticati da specialisti accreditati come fisioterapisti o medici fisiatri),
  • ginnastica funzionale aerobica correttiva,
  • attività sportive particolari come il nuoto,
  • applicazioni di calore (borsa di acqua calda),
  • fasciature contenitive, bustini dorso-lombari, collari cervicali, …

TENS e altre terapie similari moderne che svolte da professionisti abilitati, migliorano notevolmente la sintomatologia algica della spondilosi con buoni risultati a lungo termine.

Nelle situazioni più gravi con alterazioni anatomiche irrimediabili, il trattamento medico non sortisce più alcun effetto, motivo per cui può rendersi necessario l’intervento chirurgico risolutivo di correzione.

Fonti principali

  • Manuale di ortopedia e traumatologia di AA.VV. Ed. Elsevier

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Spondilolistesi: cause, sintomi e cura

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Introduzione

Per spondilolistesi si intende una patologia della colonna vertebrale caratterizzata dallo scivolamento di una vertebra su quella sottostante. Il termine deriva dal greco

  • spondylos (vertebra)
  • e olisthesis (scivolamento).
Rappresentazione grafica della Spondilolistesi

iStock.com/nmfotograf

Questa patologia interessa circa il 5% della popolazione, ma è più frequente tra gli sportivi dove può raggiungere una prevalenza del 20%.

A seconda di come si manifesti questo scivolamento si parla di:

  • anterolistesi: quando lo scivolamento di una vertebra avviene anteriormente rispetto alla sottostante; rappresenta la forma più frequente di spondilolistesi e colpisce soprattutto la quarta o quinta vertebra lombare;
  • retrolistesi: quando avviene posteriormente;
  • laterolistesi: se avviene lateralmente.

La spondilolistesi può essere:

  • congenita (presente dalla nascita),
  • post-traumatica (comparsa dopo un trauma),
  • secondaria a sollecitazioni meccaniche ripetute (tipicamente nei soggetti che praticano sport come tuffi, ginnastica o sollevamento pesi che praticano esercizi ripetuti a carico della colonna vertebrale),
  • patologica (secondaria a malattie sistemiche che interessano la colonna vertebrale).

I principali sintomi della spondilolistesi sono:

  • dolore in zona lombo-sacrale che si irradia sui glutei e gli arti inferiori,
  • astenia e malessere generalizzato,
  • difficoltà nei movimenti del tronco e degli arti inferiori,
  • difficoltà nelle attività lavorative e sportive,
  • parestesie (sensazione di formicolio o scossa elettrica) a livello degli arti inferiori..

Il quadro clinico con la descrizione dei sintomi è spesso già dirimente di un problema alla colonna vertebrale, che deve tuttavia essere approfondito con esami strumentali come una radiografia del rachide e una risonanza magnetica (indagine di secondo livello).

Essendo la spondilolistesi una patologia con problematiche di natura meccanica, non vi può essere guarigione completa, per questo il trattamento si basa su:

  • prevenzione da sforzi e ulteriori sollecitazioni alla colonna,
  • terapia antalgica per mezzo di farmaci antinfiammatori e antidolorifici di uso comune,
  • fisioterapia,
  • intervento chirurgico nelle forme gravi che non rispondono alla terapia medica.

Cause

In base alle cause e alla patogenesi con cui si viene a creare la spondilolistesi, la si può classificare in:

  • congenita: quando è presente sin dalla nascita; questi neonati nascono con difetto articolare di una vertebra, di solito la quinta lombare (L5) che scivola anteriormente sull’osso sacro;
  • istmica: quando si presenta in seguito ad una frattura da stress dell’istmo vertebrale, tipica dei casi di sovraccarico meccanico negli sportivi;
  • degenerativa acquisita, spesso secondaria ad un quadro di artrosi;
  • post-chirurgica: ovvero dopo intervento sulla colonna vertebrale;
  • traumatica: si presenta in seguito ad un trauma come per un incidente automobilistico, colluttazione, investimento, …
  • secondaria a sollecitazioni meccaniche ripetute, come nei soggetti che praticano taluni sport;
  • patologica: quando si presenta in seguito ad una patologia sistemica che coinvolge secondariamente la colonna vertebrale, come ad esempio:

Per valutare il grado di scivolamento si utilizza la classificazione di Meyerding basata su 4 gradi:

  • grado 1: lo scivolamento è inferiore al 25%,
  • grado 2: scivolamento inferiore al 50%,
  • grado 3: scivolamento inferiore al 75%,
  • grado 4: scivolamento che può raggiungere il 100% (si parla in tal caso anche di spondiloptosi)
Rappresentazione grafica della gravità della spondilolistesi

iStock.com/nmfotograf

Sintomi

Il quadro clinico varia da soggetto a soggetto con sintomi che possono essere più o meno gravi a seconda del grado di scivolamento e della velocità con cui esso avviene; nella maggior parte dei casi si avverte un dolore di entità moderata, intermittente che può peggiorare nel corso della giornata ed esacerbarsi durante gli sforzi o le attività fisiche più intense.

I principali sintomi della spondilolistesi sono:

  • “mal di schiena”, ovvero dolore in sede lombare (lombalgia o “low back pain” meccanico) ed in sede sacrale che può irradiarsi lungo il decorso del nervo sciatico (gluteo, coscia, gamba sino al piede). Il dolore viene esacerbato soprattutto in caso di estensione del rachide;
  • rigidità della colonna con difficoltà nei movimenti: si parla di claudicazione neurogena nel caso di stenosi del canale vertebrale;
  • astenia, stanchezza e malessere generalizzato,
  • difficoltà nei movimenti del tronco come il piegarsi in avanti o lateralmente,
  • riduzione delle attività lavorative e delle performance sportive per la presenza del dolore,
  • debolezza muscolare soprattutto agli arti inferiori,
  • sensazione di formicolio ed arto addormentato (mani e piedi, braccia e polpacci),
  • accorciamento del tronco e spostamento in avanti dell’addome, nei casi più gravi.

Diagnosi

Il percorso diagnostico si avvale di anamnesi ed esame obiettivo, coadiuvato dall’esecuzione di alcuni esami strumentali.

Con l’anamnesi il medico ricostruisce la storia clinica recente e passata del paziente cercando di evidenziare:

  • familiarità per patologie o problematiche alla colonna vertebrale,
  • presenza di patologia sistemica coinvolgente la colonna come l’artrite reumatoide, la spondilite anchilosante, lupus, spina bifida,
  • vizi posturali come scoliosi, cifosi o lordosi,
  • episodi di traumi alla colonna (da incidenti stradali, colluttazioni, …),
  • attività sportive a rischio per spondilolistesi.

L’esame obiettivo specialistico permette di repertare i sintomi e i segni clinici caratteristici della spondilosi. Viene indagata soprattutto la sintomatologia dolorosa con tutte le sue caratteristiche (quando compare, cosa lo scatena, da cosa viene alleviato, se è acuto o cronico, continuo o intermittente, …).

Il sospetto di spondilolistesi viene poi confermato da alcuni esami strumentali come:

  • Radiografia della colonna in posizione eretta o sotto carico, in due proiezioni; spesso sarà necessario allargare il focus dell’esame non solo al tratto di colonna colpita ma anche ai segmenti adiacenti.
  • Risonanza magnetica, utile nello studio delle alterazioni dei tessuti molli perivertebrali, come il disco, il nucleo polposo, le cartilagini articolari e i legamenti vertebrali. È un’indagine di secondo livello, utile per approfondire il quadro radiologico standard. Risulta utile anche nello studio del canale vertebrale per capire se vi possa essere una sofferenza a tale livello che possa determinare una sintomatologia neurologica.
  • TC torace e addome con studio della colonna, nel caso si voglia approfondire il sospetto di un tumore osseo.
  • Elettromiografia: utile in caso di sintomi neurologici per valutare la sofferenza dei nervi e fare diagnosi differenziale con problematiche di pertinenza muscolare.

Cura

Il trattamento può essere

  • preventivo (ovvero basato sull’educazione posturale e sulla riduzione delle sollecitazioni meccaniche alla colonna),
  • sintomatico (ovvero mirato alla riduzione della gravità dei sintomi e all’aumento della qualità della vita) .

Il trattamento preventivo si basa su:

  • riposo assoluto nelle fasi più acute di malattia,
  • massoterapia (serie di massaggi praticati da specialisti accreditati come fisioterapisti o medici fisiatri),
  • ginnastica funzionale aerobica,
  • attività sportive particolari come il nuoto,
  • applicazioni di calore (borsa di acqua calda),
  • approccio ortopedico con utilizzo di fasciature contenitive, bustini dorso-lombari o corsetti,
  • TENS e altre terapie similari svolte da professionisti abilitati, che migliorano notevolmente la sintomatologia dolorosa con buoni risultati a lungo termine.

Dal punto di vista sintomatico l’approccio è tipicamente farmacologico, basato sull’utilizzo di antidolorifici ed antinfiammatori. Possono essere assunti

I principali FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei) di utilizzo comune sono:

Nelle situazioni più gravi, in presenza di alterazioni anatomiche irrimediabili, il trattamento medico non sortisce più alcun effetto, motivo per cui può rendersi necessario l’intervento chirurgico risolutivo di correzione. Nella maggior parte dei casi si esegue un intervento di artrodesi degli archi vertebrali posteriori (una tecnica chirurgica che permette di unire ossa della colonna vertebrale per stabilizzarla).

Viene valutato nei casi in cui vi sia presenza di sintomi neurologici gravi con perdita di sensibilità e di forza, dolore lombare di grave intensità che non si allevia con la terapia medica e fisioterapica.

Fonti e bibliografia

  • Manuale di ortopedia e traumatologia di AA.VV. Ed. Elsevier
  • MedScape

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Arteriopatia periferica: cause, sintomi, pericoli e cura

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Cos’è l’arteriopatia periferica?

L’arteriopatia periferica (anche conosciuta come arteriopatia periferica o con l’acronimo inglese PAD) è una patologia caratterizzata dal restringimento del lume dei vasi arteriosi (arterie), ossia i vasi che portano il sangue ricco di ossigeno e nutrienti dal cuore alla periferia dell’organismo, tra cui:

  • arti superiori,
  • arti inferiori (questo è il distretto corporeo più frequentemente colpito dall’arteriopatia periferica),
  • organi del capo (cervello),
  • organi del tronco (intestino, stomaco, …).

La riduzione del calibro delle arterie costituisce un ostacolo al normale flusso sanguigno, che arriverà quindi in quantità ridotte ai tessuti a valle dell’ostruzione che, di conseguenza, riceveranno meno ossigeno e nutrienti.

Esemplificazione delle cause che portano alla PAD attraverso l'aterosclerosi

iStock.com/VectorMine

Nelle forme più lievi si manifesta senza alcun sintomo, con la progressione dell’ostruzione possono comparire:

  • dolori muscolari,
  • intorpidimento e formicolio,
  • alterazioni della temperatura dell’arto interessato.

Il riconoscimento ed un corretto trattamento della patologia riveste un’importanza fondamentale per prevenire l’aumento del rischio di sviluppo di eventi cardiovascolari come l’ictus.

La prognosi dipende dalla tempestività della diagnosi, dalla gravità dell’ostruzione e dall’aderenza del paziente alla terapia.

Al fine di migliorare la prognosi è importante:

  • evitare il fumo
  • controllare il peso e dimagrire se necessario,
  • mantenere sotto controllo i valori di pressione, glicemia, colesterolo e trigliceridi.

Cause

Il restringimento del vaso è generalmente dovuto alla presenza di una placca aterosclerotica, un aggregato di colesterolo e materiale fibroso che si deposita all’interno della parete dell’arteria che dunque si inspessisce andando a ridurre il lume del vaso.

Immagine di un vaso sanguigno in cui il progressivo accumulo di grasso e altro materiale riduce sempre di più il passaggio di sangue.

Il progressivo accumulo di grasso e altro materiale riduce sempre di più il passaggio di sangue. (Credit: iStock.com/lvcandy)

L’aterosclerosi è favorita e causata dalla coesistenza di diverse condizioni:

Altre cause più rare dell’occlusione sono:

  • vasculite, cioè un’infiammazione della parete del vaso stesso,
  • trauma,
  • anomalia anatomica per cui un muscolo, un tendine o un altro vaso comprimono l’arteria,
  • spasmo della muscolatura liscia che prende arte alla formazione della parete dell’arteria.

Sintomi

I sintomi dell’arteriopatia periferia sono dovuti al ridotto flusso di sangue a valle dell’ostruzione ed al conseguente ridotto apporto di ossigeno e nutrienti; compaiono generalmente quando il 70% del lume del vaso risulta ostruito, mentre prima di questa soglia il disturbo risulta asintomatico.

I sintomi variano a seconda del distretto corporeo colpito, ma nella maggior parte dei casi la condizione interessa prevalentemente le gambe; in questo caso il sintomo caratteristico dell’arteriopatia periferica è la claudicatio intermittens, ossia la percezione di un dolore di tipo crampiforme in seguito ad uno sforzo, la cui localizzazione cambia in base all’arteria colpita (di norma un polpaccio, ma può interessare anche una porzione diversa).

Il dolore si manifesterà tendenzialmente al polpaccio anche durante una semplice passeggiata, per poi cessare immediatamente al termine del movimento (motivo per il quale l’arteriopatia degli arti inferiori è anche detta malattia delle vetrine). A tal proposito è importante porre attenzione a quanti metri si è in grado di percorrere prima che il dolore insorga e che quindi si senta il bisogno di fermarsi (più o meno di 150-200 metri), poiché questa è una domanda che certamente sarà posta dal medico.

Nei casi più gravi compaiono inoltre i seguenti sintomi di accompagnamento:

Tra gli altri distretti che possono essere colpiti dall’arteriopatia periferica ricordiamo:

  • Arteriopatia vasi del capo: in questo caso i sintomi sono estremamente vari e possono comprendere:
    • sincope,
    • capogiri,
    • riduzione della vista,
    • debolezza o impossibilità di muovere un determinato distretto corporeo.
  • Arteriopatia vasi del tronco: anche in questo caso gli organi che posso essere coinvolti sono numerosi. Uno dei sintomi più frequenti, tipici dell’occlusione di uno dei vasi che irrora l’intestino, è la cosiddetta claudicatio abdominis, una condizione che consiste nell’insorgenza di un forte dolore all’addome dopo i pasti; l’intestino, attivandosi durante il processo digestivo, necessita di un aumento della quantità di ossigeno, che tuttavia non può essergli fornito in quantità adeguate a causa dell’ostruzione dei vasi. La carenza di ossigeno manda in sofferenza la muscolatura intestinale e quello che ne risulta e un dolore di tipo crampiforme.

Tendenzialmente i sintomi dell’arteriopatia si sviluppano lentamente e gradualmente nel tempo; in caso di manifestazioni improvvise e/o che peggiorano rapidamente si raccomanda di rivolgersi immediatamente al medico perché la causa potrebbe essere di natura diversa e più urgente.

Complicazioni

L’arteriopatia periferica non espone il paziente ad un rischio immediato, ma se il processo di aterosclerosi che ne è alla base non viene riconosciuto e curato può condurre allo sviluppo di condizioni gravi e potenzialmente fatali.

Se il flusso sanguigno alle gambe viene gravemente limitato può svilupparsi una condizione di ischemia critica degli arti inferiori, una complicazione estremamente grave e difficile da trattare, che si manifesta con:

  • forte bruciore alle gambe e ai piedi che persiste anche a riposo,
  • pallore della pelle,
  • comparsa di ferite e ulcere (piaghe aperte) su piedi e gambe che non guariscono,
  • perdita di massa muscolare nelle gambe

Le lesioni che si verificano possono infettarsi e peggiorare fino a causare la gangrena del tessuto (morte), fino al punto di richiedere l’amputazione dell’arto.

Il blocco dell’afflusso di sangue alle gambe può inoltre verificarsi anche in altre aree del corpo, interessando per esempio le arterie che alimentano il cuore e il cervello ed esponendo al rischio di:

Diagnosi

La diagnosi prevede diversi passi:

  1. Anamnesi, il medico ascolta il paziente e raccoglie informazioni utili alla diagnosi ed all’eventuale terapia.
  2. Esame obiettivo, il medico esamina il distretto coinvolto e cerca i polsi periferici (ossia il battito cardiaco in diverse sedi):
    • popliteo (dietro al ginocchio),
    • femorale (piega inguinale),
    • tibiale (dietro al malleolo mediale del piede),
    • pedidio (dorso del piede),
    • brachiale (piega del gomito),
    • radiale (porzione esterna della faccia ventrale del polso),
    • ulnare (porzione interna della faccia ventrale del polso);
    • viene inoltre ricercato l’indice caviglia/braccio, che consiste nel misurare la pressione arteriosa a livello della caviglia e del braccio, il cui rapporto risulta essere nei limiti di norma se pari a 1 (i due valori dovrebbero cioè essere uguali).
  3. Esami del sangue, al fine di valutare i livelli di:
    • colesterolo,
    • glicemia,
    • trigliceridi,
    • omocisteina.
  4. Esami strumentali, che comprendono:

Cura

Nelle forme più lievi è sufficiente adottare un corretto stile di vita, basato su

Qualora questo non fosse sufficiente, è possibile ricorrere ad una terapia farmacologica basata sull’assunzione di:

  • Anti-aggreganti: si usano la fine di evitare a formazione di trombi sulla superficie della placca aterosclerotica, evento che potrebbe restringere maggiormente il lume del vaso.
  • Farmaci ipocolesterolemizzanti: ridurre i livelli di colesterolo riduce l’accumulo di quest’ultimo all’interno della parete del vaso.
  • Farmaci volti ad abbassare la pressione arteriosa: nel caso in cui il paziente risulti iperteso, questo fattore collabora alla formazione della placca aterosclerotica.
  • Farmaci per il controllo della glicemia: nei pazienti con diabete, l’iperglicemia può concorrere alla formazione della placca.
  • Farmaci che inducono la dilatazione dei vasi arteriosi, al fine di aumentare il diametro del lume vasale.

Nei casi più gravi si ricorre alla terapia chirurgica tramite:

  • Angioplastica percutanea: consiste nella dilatazione del vaso tramite il posizionamento di uno stent (un tubicino in rete metallica).
  • Bypass: consiste nell’inserzione di un nuovo vaso (sintetico o prelevato da un’altra zona del corpo) che colleghi la zona del vaso a monte e quella a valle dell’ostruzione permettendo così che il sangue durante il suo circolo la eviti.
  • Amputazione: viene riservata ai casi più gravi riguardanti gli arti inferiori, in cui si è sviluppata gangrena.
Angioplastica per arteriopatia periferica

iStock.com/blueringmedia

Prevenzione

Sebbene non possano controllare tutti i fattori di rischio (pensiamo per esempio al sesso e all’età), è possibile acquisire uno stile di vita sano ed abbattere così il rischio di sviluppare l’arteriopatia periferica e le sue complicanze; si raccomanda quindi di:

  • praticare regolare attività fisica,
  • seguire un’alimentazione varia e sana,
  • smettere di fumare,
  • perdere peso se necessario.

Questi cambiamenti possono ridurre il rischio di sviluppo dell’arteriopatia, ma anche prevenire le condizioni cardiovascolari e metaboliche che ne condividono i fattori di rischio (cardiopatia ischemica, diabete, ipertensione, colesterolo alto, ictus…).

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Sindrome di Goodpasture: cause, sintomi e cura

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Introduzione

Gli anticorpi sono proteine che rivestono un ruolo fondamentale all’interno del nostro sistema immunitario, ossia l’insieme di cellule e meccanismi che ci proteggono dalle aggressioni esterne (virus, batteri, …).

Ogni anticorpo può legarsi ad un unico e specifico bersaglio (per esempio il virus della varicella oppure quello del raffreddore), con lo scopo di fermarlo; alcuni anticorpi lo distruggono direttamente, mentre altri agiscono come una sorta di bandierina per indicare ad altre cellule la presenza di un’entità da attaccare.

In alcune situazioni, e per ragioni ancora non del tutto chiare, gli anticorpi possono sbagliarsi ed attaccare cellule dell’organismo stesso, scambiandole per minacce esterne: si parla in questi casi di malattia autoimmune.

La sindrome di Goodpasture è una rara malattia autoimmune causata dalla produzione di autoanticorpi diretti contro la catena del collagene IV della membrana basale

  • degli alveoli polmonari
  • e dei glomeruli renali.

Conseguentemente le manifestazioni cliniche saranno a carico

  • dei polmoni con emorragia alveolare
  • e dei reni, in forma di glomerulonefrite (infiammazione dei glomeruli renali).
Meccanismo e segni della glomerulonefrite

iStock.com/ttsz

I sintomi possono includere

Alla base della sindrome di Goodpasture troviamo la presenza di fattori ambientali (fumo, infezioni, alcuni farmaci) che innescano la malattia in soggetti che presentano una predisposizione genetica, in particolare un’associazione con un tipo specifico di antigene leucocitario umano (HLA).

La diagnosi è confermata dalla presenza di anticorpi anti-GBM nel sangue o a livello renale mediante biopsia.

Il trattamento di scelta è la plasmaferesi (separazione della componente liquida da quella corpuscolata del sangue) in associazione alla terapia farmacologica, in particolare con l’utilizzo di prednisone (un cortisonico) e ciclofosfamide.

In passato la sindrome di Goodpasture era generalmente fatale, mentre ad oggi la terapia aggressiva con plasmaferesi, corticosteroidi e agenti immunosoppressori ha migliorato notevolmente la prognosi. Con questo approccio il tasso di sopravvivenza a 5 anni supera l’80% e meno del 30% dei pazienti richiede un trattamento dialitico a lungo termine.

Ci sono però alcuni pazienti che sono maggiormente a rischio, ossia coloro che presentano

  • livelli di creatinina nel sangue superiori a 4 mg/dL,
  • oliguria (escrezione urinaria inferiore a 500 ml/24ore)
  • e oltre il 50% di semilune riscontrate con la biopsia renale.

Solitamente questi pazienti progrediscono verso l’insufficienza renale allo stadio terminale e di conseguenza necessitano di dialisi.

Cause

La sindrome di Goodpasture è una condizione caratterizzata dalla produzione di anticorpi che attaccano e danneggiano il rivestimento dei polmoni e dei reni; Ernest Goodpasture descrisse per la prima volta la sindrome durante la pandemia di influenza del 1919, quando riferì di un paziente morto per sanguinamento nei polmoni ed insufficienza renale.

Viene diagnosticata tipicamente in pazienti di età compresa tra 20 e 30 anni, oppure dopo i 60 anni; non è contagiosa ed più comune negli uomini e nei caucasici; può associarsi ad altre malattie come il lupus eritematoso o la granulomatosi di Wegener.

Le cause esatte alla base dell’insorgenza della malattia sono sconosciute, ma si ritiene che possa essere il risultato dell’azione di fattori ambientali (fumo di sigaretta, idrocarburi inalatori infezioni virali, …) su pazienti che presentino una predisposizione genetica che coinvolge il sistema di istocompatibilità (HLA); quest’ultimo è fondamentale nel sistema immunitario umano perché ha la capacità di differenziare il “self” e il “non self”, è in grado, quindi, di riconoscere eventuali sostanze estranee al nostro organismo.

In particolare il gene HLA-DR15 è stato riscontrato in quasi il 90% dei pazienti con sindrome di Goodpasture, ma è stato rilevato inoltre che:

  • i pazienti che presentano HLA-B8 e HLA-DR2 tendono ad avere una prognosi peggiore
  • mentre, viceversa, gli antigeni HLA-DR7 e HLA-DR1 conferiscono una certa protezione contro lo sviluppo della malattia.

Essendo una malattia autoimmune, quello che si verifica è la produzione da parte dello stesso organismo di anticorpi diretti contro i propri tessuti; in questo caso il bersaglio è la catena alfa 3 del collagene IV, presente nei polmoni a livello alveolare e nei glomeruli renali (le unità filtranti del rene).

Sintomi

Le manifestazioni cliniche della sindrome di Goodpasture sono il risultato dell’azione di attacco degli autoanticorpi contro le unità funzionali di polmoni e reni, quindi sintomi possono essere variabili.

I sintomi polmonari generalmente sono i primi a manifestarsi e prevedono: i sintomi renali e di solito includono: tosse con sangue, dolore toracico (in meno del 50% dei casi in generale), tosse e respiro corto.

  • emottisi (sanguinamento nasale), che si verifica prima della malattia renale in circa 2/3 dei pazienti,
  • dolore al petto,
  • tosse,
  • dispnea (difficoltà respiratorie),
  • epatomegalia (fegato ingrossato).

La condizione può causare emorragie potenzialmente fatali a livello polmonare, ma tendenzialmente non si verificano danni a lungo termine in questo distretto; il danno renale, al contrario, può condurre ad insufficienza renale cronica, una condizione caratterizzata da un danno progressivo ed irreversibile che può condurre all’esigenza di dialisi o di un trapianto renale per garantire la sopravvivenza del paziente.

Quando la funzionalità renale viene gravemente compromessa possono comparire:

Tra i possibili sintomi sistemici ricordiamo infine:

Di norma la produzione di autoanticorpi si esaurisce nell’arco di un breve periodo, variabile da qualche settimana a due anni, dopodiché i sintomi polmonari tendono a regredire e risolversi; purtroppo invece i reni potrebbero aver riportato danni permanenti, più o meno gravi, per questa ragione riveste una grande importanza la diagnosi precoce e l’inizio tempestivo del trattamento.

Diagnosi

Viene sospettata la sindrome di Goodpasture quando un paziente presenta manifestazioni cliniche respiratorie associate ad emorragia alveolare, oltre al riscontro di ematuria e proteinuria (rispettivamente sangue e proteine nelle urine).

Si ricercano, quindi, gli anticorpi anti-membrana basale glomerulare (anti-GBM) nel sangue e solo successivamente viene effettuata una biopsia renale. La microscopia ottica solitamente mostra una glomerulonefrite rapidamente progressiva, ossia un’infiammazione dei glomeruli renali e conseguente peggioramento della funzionalità renale.

Un aspetto molto caratteristico di questa patologia è la presenza di strutture a semiluna all’interno della capsula di Bowman (membrana che riveste il glomerulo renale).

La microscopia a immunofluorescenza, invece, mostra la deposizione lineare delle IgG lungo i capillari glomerulari o alveolari.

Un’altra tecnica strumentale che può essere utilizzata è la broncoscopia, soprattutto quando la diagnosi non è ancora chiara.

È essenziale diagnosticare rapidamente l’emorragia polmonare, perché questa è la principale causa di morte precoce quando non trattata.

Diagnosi differenziale

Non sempre un’emorragia alveolare diffusa è legata alla sindrome di Goodpasture. Devono infatti essere escluse altre patologie che possono dare segni e sintomi polmonari e renali (sindromi pneumo-renali), tra cui:

  • la granulomatosi di Wegener,
  • la sindrome di Churg-Strauss,
  • il lupus eritematoso sistemico,
  • la poliangioite microscopica,
  • l’artrite reumatoide,
  • disturbi mediati da IgA (es. Nefropatia da IgA o porpora di Schönlein-Henoch).

Nei soggetti più giovani devono essere escluse altre patologie come la sindrome di Behçet, l’emosiderosi (accumulo di ferro anche a livello polmonare e conseguente sanguinamento) e infezione da legionella.

Cura

Il trattamento di prima scelta è la plasmaferesi, una procedura che prevede la separazione e la rimozione del plasma dal resto del sangue (il plasma è la frazione in cui sono presenti gli anticorpi) per essere sostituito da quello di un donatore.

In associazione vengono prescritti corticosteroidi (soprattutto prednisone) e ciclofosfamide.

I tre principali obiettivi del trattamento sono:

  • Rimuovere rapidamente gli autoanticorpi circolanti, principalmente mediante la plasmaferesi.
  • Interrompere l’ulteriore produzione di anticorpi mediante terapia farmacologica con corticosteroidi e ciclofosfamide. La durata del trattamento è variabile ma generalmente è di 6 mesi per i corticosteroidi e 3 mesi per la ciclofosfamide.
  • Rimuovere gli agenti che potrebbero aver causato la produzione di autoanticorpi.

A seguito della dimissione ospedaliera ai pazienti sono richiesti dei controlli prima mensili, poi annuali. per il monitoraggio della funzionalità renale e per la terapia immunosoppressiva, che a lungo termine può provocare effetti collaterali. Se la funzionalità renale non dovesse ripristinarsi anche mediante trattamento dialitico, è necessario pianificare il trapianto renale.

Risulta infine di grande importanza modificare lo stile di vita, talvolta responsabile dello sviluppo della malattia: se il paziente fuma, viene consigliato di smettere, così come se fosse esposto a sostanze ritenute altamente a rischio, come gli idrocarburi, viene consigliato di cambiare lavoro, alla luce del fatto che il rischio di recidiva è molto elevato.

Fonti e bibliografia

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Esaurimento nervoso (nevrastenia): sintomi e cura

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Introduzione

Il termine esaurimento nervoso (in medicina nevrastenia, “stanchezza dei nervi”) indica uno stato di estremo senso di affaticamento mentale e fisico insorto in seguito a un forte stress che può essere:

  • economico,
  • lavorativo,
  • scolastico,
  • familiare,
  • sociale,
  • interpersonale.

Nell’accezione comune del termine, “esaurimento” significa appunto il consumo, lo svuotamento delle energie personali che comporta un ampio spettro di sintomi in risposta alle elevate richieste, in un determinato momento.

La nevrastenia è stata studiata per la prima volta più di un secolo fa, nel 1869, dal neurologo americano George Beard che la descrisse come una condizione caratterizzata da:

La nevrastenia raggiunse poi un picco agli inizi del XX secolo, estendendosi in seguito nei paesi asiatici, per poi presentarsi nuovamente in quelli occidentali a metà del XX secolo e raggiungere livelli elevati nella popolazione cinese alla fine degli anni ’80.

Donna in macchina con la testa appoggiata al volante e gli occhi chiusi

iStock.com/bokan76

Cause

Le cause della nevrastenia sono da ricondursi allo squilibrio esistente fra:

  • richieste dell’ambiente e del mondo esterno (lavorativo, scolastico, sociale, familiare, culturale, interpersonale e così via),
  • capacità individuali di rispondere a tali stimoli.

Sia nel caso in cui siano le richieste a essere eccessive per la persona, sia nel caso in cui sia l’individuo stesso a non avere le risorse adeguate alla gestione dello stress, il risultato sarà invariabilmente un’intensa stanchezza mentale e del corpo, associata a vari sintomi sia fisici sia cognitivi (pensiero, comportamento, memoria).

Le cause possono quindi essere:

  • preoccupazione lavorativa ed economica (perdita del lavoro, debiti, precarietà lavorativa),
  • problemi familiari e relazionali (divorzi, separazioni, problemi di comunicazione),
  • cambiamenti del ruolo sociale (soprattutto nel sesso femminile),
  • traumi e violenze,
  • tratti caratteriali della persona.

Sintomi

I sintomi della nevrastenia sono molto simili a quelli della sindrome da fatica cronica, la nevrosi, i disturbi dell’umore e i disturbi somatoformi, tanto che la loro distinzione nelle classificazioni cliniche non è così netta, con il rischio che i pazienti non siano adeguatamente trattati.

Secondo l’ICD-10 (Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati, redatta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità), il sintomo che caratterizza l’esaurimento nervoso è l’intensa stanchezza fisica e mentale che si manifesta in seguito a periodi di sforzi emotivi significativi, che si manifesta attraverso la comparsa di:

Possono inoltre essere presenti sintomi autonomici vari come ad esempio:

Nevrastenia o sindrome da fatica cronica?

In particolare, la condivisione dei sintomi con la più recente sindrome da fatica cronica, ha portato alcuni studiosi a pensare a quest’ultima come a una versione “moderna” della nevrastenia del IXX secolo.

La sindrome da fatica cronica è una diagnosi sempre più popolare al giorno d’oggi e, sebbene l’enfasi sia posta maggiormente sull’aspetto fisico rispetto a quello mentale della nevrastenia, si notano molti sintomi in comune:

  • fatica pervasiva fisica e mentale,
  • sintomi fisici (come dolori muscolo-articolari, mal di testa),
  • sintomi cognitivi (come difficoltà nella concentrazione, perdita di memoria),
  • sintomi emozionali (come irritabilità, eccitazione).

Nevrastenia e sindrome da fatica cronica condividono inoltre le cause, poiché entrambe emergono in seguito a periodi di forte stress e preoccupazione e possono compromettere fortemente la qualità della vita.

La nevrastenia possiede però importanti connotazioni socio-culturali, soprattutto nella popolazione asiatica, per cui il lavoro e le preoccupazioni correlate possiedono un significato diverso rispetto ai paesi occidentali. Per questo, nei paesi asiatici la nevrastenia resta il nucleo centrale della diagnosi, anche se possono essere presenti contemporaneamente altri disturbi.

Diagnosi

I criteri per fare diagnosi di nevrastenia sono controversi e nel tempo si sono susseguite diverse revisioni per quanto riguarda la classificazione clinica, tant’è che il disturbo si ritrova come categoria a se stante in un tipo di classificazione delle malattie (ICD-10 e CCMD-3) mentre è eliminata in un altro tipo di classificazione (DSM V).

Nel DSM V (il Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali, redatto dall’American Psychiatric Association), infatti, la nevrastenia è inclusa nel glossario finale come “concetto culturale di sofferenza” tipico della cultura asiatica, questo per porre l’accento sulla relazione esistente fra contesto socio-culturale e definizione di sofferenza emotiva.

“Shenjing shuairuo” (“debolezza del sistema nervoso centrale” in cinese mandarino) è difatti una sindrome che integra i concetti della medicina tradizionale cinese e la diagnosi occidentale di nevrastenia (fatica fisica e mentale, capogiro, mal di testa, dolori, difficoltà nella concentrazione, disturbi del sonno e perdita di memoria).

In altre classificazioni, invece, la nevrastenia è riconosciuta come categoria definita e in base a queste il medico indagherà la storia familiare e personale del soggetto, i sintomi e la presenza di eventuali stress recenti.

  • Diagnosi secondo l’ICD-10 (Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati). La nevrastenia è un tipo di fatica che subentra dopo un intenso sforzo mentale ed emotivo (ma anche in seguito a sforzi minimi), spesso accompagnato da compromissione lavorativa e della vita quotidiana. La diagnosi è clinica e si basa sulla presenza di almeno 2 dei 7 sintomi principali:
    • indolenzimento o dolore muscolare,
    • capogiri,
    • cefalea,
    • disturbi del sonno,
    • difficoltà a rilassarsi,
    • irritabilità,
    • dispepsia (“cattiva digestione”).
  • Diagnosi secondo la CCMD-3 (Chinese Classification of Mental Disorder). La diagnosi è clinica e si basa sulla presenza di almeno 3 dei 5 gruppi di sintomi:
    • debolezza fisica o mentale,
    • irritazione o preoccupazione,
    • eccitazione,
    • dolore neuropatico,
    • disturbi del sonno.

    Con una conseguente difficoltà nel campo lavorativo, scolastico, sociale e nella vita di tutti i giorni.

Diagnosi differenziale

È importante escludere alcune condizioni mentali e mediche che potrebbero mimare o sovrapporsi al disturbo come:

Cura

Attualmente per la nevrastenia non esistono molti studi scientifici, soprattutto se ne cerchiamo di ben strutturati, che analizzino l’efficacia di una particolare cura oppure che confrontino un approccio terapeutico rispetto all’altro, nonostante la condizione non sia più un concetto nuovo.

Come per altri disturbi psicologici, la cura validata a livello internazionale è l’associazione di

Essendo una condizione clinica che si sviluppa a causa di forti preoccupazioni e stress, e che intacca inevitabilmente non solo la mente come la conosciamo, ma anche le funzioni del corpo, è molto importante seguire uno stile di vita incentrato al benessere totale della persona, costituito da

  • alimentazione equilibrata,
  • esercizio o attività fisica regolare,
  • modifica degli agenti stressanti, se possibile (ad esempio abitudini e ritmi lavorativi, relazioni interpersonali disfunzionali),
  • gestione dello stress,
  • cura di se stessi (coltivare degli hobby, mantenere una rete di amicizie valide, prendersi del tempo per se stessi, costituire dei confini solidi per rispettare se stessi).

Fonti e bibliografia

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Tricotillomania: cause, sintomi e cura

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Introduzione

La tricotillomania, o disturbo da strappamento di peli, è una malattia conosciuta sin dal IXX secolo ma introdotta nel DSM, il Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali, solo nel 1987.

Dal greco

  • thrìx -‘capello’,
  • tìllō – ‘strappare’
  • e manìa – ‘ossessione’,

questa condizione fa parte dei “disturbi correlati al disturbo ossessivo-compulsivo” (insieme a dismorfismo corporeo, disturbo da accumulo, e disturbo da escoriazione) e si contraddistingue per il comportamento ripetitivo focalizzato sul corpo.

Le caratteristiche principali sono:

  • strappamento ripetuto di peli o capelli,
  • perdita di peli o capelli (alopecia),
  • tentativi di ridurre o interrompere il comportamento.

È importante ricordare che il disturbo ossessivo-compulsivo e la tricotillomania presentano importanti differenze riguardo alla diagnosi e alla terapia.

Lo strappamento di peli o capelli:

  1. Non è scatenato da ossessioni (tipiche del disturbo ossessivo-compulsivo),
  2. È preceduto o accompagnato da stati di tensione, ansia oppure noia,
  3. È seguito da un senso di distensione e gratificazione, nel momento in cui i peli o capelli sono strappati.

Chi soffre del disturbo può essere più o meno consapevole riguardo al proprio comportamento:

  • Alcuni si dimostrano maggiormente attenti e coscienti delle proprie azioni: riconoscono la tensione o l’ansia precedenti, la sensazione che peli o capelli “non vadano bene”, e infine il sollievo successivo.
  • Altri agiscono in maniera più “automatica”: si strappano i peli o i capelli senza un’apparente causa scatenante o una consapevolezza dei meccanismi sottostanti, e se ne accorgono solo dopo aver notato un mucchietto di peli o capelli accanto a loro.

È frequente anche una combinazione fra i due stati di consapevolezza e si è rilevato che il tipo “automatico” è diffuso nei più giovani (che a causa dell’età non hanno ancora sviluppato delle capacità introspettive sufficienti).

Mano di donna che tiene dei capelli strappati

iStock.com/Doucefleur

Cause

Diffusione

La prevalenza della tricotillomania nella popolazione generale (persone colpite in un dato periodo) è dello 0,5-2%.

L’esordio coincide con la pubertà o comunque con la giovane età (10-13 anni) e se la malattia insorge prima, solitamente si risolve con lo sviluppo.

Il disturbo colpisce in maniera uguale bambini maschi e femmine, mentre nell’età giovane-adulta è più comune nelle femmine; questa differenza potrebbe riflettere un fatto culturale, per le femmine il diradarsi dei capelli fino alla loro assenza non è un fatto socialmente accettato come lo è per i maschi, questo potrebbe spingerle a ricercare aiuto e quindi a essere diagnosticate in maniera maggiore rispetto alla controparte maschile.

Fattori di rischio

Nonostante la malattia sia conosciuta da tempo, gli studi sulle possibili cause sono limitati e poco ancora si padroneggia sui meccanismi sottostanti.

Poiché I comportamenti motori ripetuti della tricotillomania condividono delle similitudini con le compulsioni del disturbo ossessivo-compulsivo, si potrebbe essere indotti a ipotizzare l’esistenza di cause in comune fra le due malattie, tuttavia le evidenze scientifiche dimostrano che esse sono in realtà due entità distinte.

Sono invece stati individuati alcuni fattori che possono conferire una predisposizione allo sviluppo del disturbo:

  • Fattori genetici e familiari: La malattia è più comune:
    • Nei parenti di I grado dei pazienti stessi, insieme a ansia e disturbi dell’umore.
    • Nelle persone sofferenti di disturbo ossessivo-compulsivo e nei loro parenti di I grado.
  • Alterazioni dei circuiti cerebrali: Alcuni studi sul cervello dei pazienti hanno dimostrato delle alterazioni in certe aree cerebrali che potrebbero indicare una disfunzione nella regolazione motoria ed emotiva.
  • Fattori psicologici: Le persone colpite mostrano delle difficoltà nella regolazione delle emozioni negative frutto di situazioni stressanti e lo strappamento di peli o capelli potrebbe regolare questa tensione emotiva. Il conseguente sollievo fungerebbe poi da rinforzo positivo, promuovendo la ripetizione del comportamento. Anche la noia può innescare il ciclo. Sembra che il tratto comune di personalità presente sia il perfezionismo, caratterizzato da frustrazione, impazienza e insoddisfazione ogniqualvolta non si soddisfino determinati standard e aspettative, soprattutto se si è annoiati e improduttivi.

Sintomi e conseguenze

I sintomi principali della tricotillomania sono:

  • Urgenza incontrollabile di strapparsi i peli o i capelli in maniera ripetuta. Lo strappamento può avvenire in qualsiasi area del corpo ma frequentemente è a livello di:
    • Cuoio capelluto (la corona e le aree temporali),
    • Sopracciglia,
    • Ciglia.

    Le aree invece meno colpite sono quelle:

    • ascellari,
    • facciali,
    • pubiche,
    • perianali.

    Non è escluso che le zone colpite possano variare nel tempo. Lo strappamento può avvenire in brevi periodi e diverse volte in una giornata, oppure meno frequentemente ma con una durata maggiore (anche fino a diverse ore).

  • Perdita di peli o capelli (alopecia). Questa può essere ben visibile oppure meno evidente (zone diradate di minore densità capillare) in base alla gravità e alla distribuzione della perdita di peli o capelli.
  • Tentativi di camuffamento. Si cerca di nascondere la perdita di peli o capelli tramite trucco, sciarpe, parrucche e trattamenti.
  • Tentativi ripetuti di ridurre o interrompere il comportamento.
  • Compromissione delle attività quotidiane (lavorative, relazionali, sociali e in altri ambiti rilevanti) fino all’evitamento delle situazioni pubbliche a causa del forte disagio, imbarazzo, vergogna e sensazione di perdita di controllo.

Caratteristiche dello strappamento

Esistono delle caratteristiche tipiche del comportamento motorio focalizzato sul corpo presente nella tricotillomania e riguardano:

  • Qualità del capello strappato: a volte si prediligono particolari tipi di peli o capelli (ad esempio in base al colore, trama, spessore, lunghezza e sede).
  • Comportamento motorio. Si seguono delle regole di strappamento piuttosto che altre ad esempio:
    • si estraggono i capelli o peli con la radice intatta,
    • si esaminano i capelli visivamente,
    • si manipolano,
    • si mordicchiano,
    • si ingeriscono,
    • si strappano i peli o capelli dalle bambole, animali, tessuti (maglioni, sciarpe, tappeti).

    La maggioranza delle persone poi presenta altri comportamenti ripetitivi come stuzzicarsi la pelle, mangiarsi le unghie o morsicarsi labbro.

  • Stimoli scatenanti lo strappamento:
    • Emotivi: ansia, noia, tensione, rabbia (in particolar modo immediatamente prima di strappare o se si tenta di resistere all’impulso). L’azione sfocia poi in una gratificazione che ben presto si trasforma in vergogna e imbarazzo. Infatti, il comportamento ripetuto tende a non essere compiuto in pubblico ma attuato di nascosto.
    • Sensoriali: sensazioni simili al prurito o al formicolio innescano il comportamento.
    • Cognitivi: pensieri particolari sui capelli e sull’apparenza (i capelli “non vanno bene”, “sono in disordine”).

Decorso e complicazioni

Se non trattata la tricotillomania può avere un decorso:

  • cronico (della durata di diversi anni),
  • intermittente (caratterizzato da ricadute),
  • con oscillazioni sintomatologiche (sintomi lievi, moderati o gravi).

In una minoranza di casi si assiste a una completa scomparsa della malattia entro pochi anni dall’esordio, senza ricadute.

Le conseguenze della tricotillomania non trattata sono tutt’altro che irrilevanti e possono consistere in:

  • Compromissione nella vita di tutti i giorni:
    • ritiro sociale,
    • evitamento delle situazioni pubbliche e delle relazioni,
    • perdita del lavoro,
    • difficoltà economiche per la ricerca di interventi di camuffamento e trattamento dell’alopecia.
  • Danni irreversibili alla crescita e qualità di peli o capelli.
  • Conseguenze mediche (fortunatamente rare):
    • infezioni cutanee,
    • danni muscolo-scheletrici dovuti ai movimenti ripetuti (sindrome del tunnel carpale, dolore alla schiena, alle spalle e al collo),
    • blefarite (infiammazione delle palpebre),
    • lesioni dentali a causa del mordere o spezzare i peli o capelli con i denti,
    • tricobezoari: ammasso di peli o capelli che si forma in seguito alla loro ingestione (tricofagia) e localizzato nell’intestino; in rari e gravi casi possono diventare rischiosi per la vita e richiedono l’intervento chirurgico.

Diagnosi

La diagnosi di tricotillomania è clinica e in alcuni casi strumentale.

  • Clinica: raccolta dei sintomi ed esame fisico (soprattutto in presenza di tricofagia).
  • Laboratorio: se si sospetta un’anemia da emorragia intestinale.
  • Strumentale:
    • Biopsia e dermatoscopia per differenziare altre cause dermatologiche di alopecia,
    • TAC se si sospetta un tricobezoaro (ammasso di capelli/peli nell’intestino a seguito dell’ingestione degli stessi).

Diagnosi differenziale e comorbidità

La diagnosi permette di escludere le patologie che condividono con la tricotillomania alcuni tratti:

  • disturbo ossessivo-compulsivo,
  • disturbi del neurosviluppo,
  • psicosi,
  • altre condizioni dermatologiche.

La tricotillomania è infine spesso accompagnata da altri disturbi mentali, ma che ne seguono quasi sempre l’esordio:

  • depressione,
  • ansia,
  • disturbo da escoriazione,
  • disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati,
  • disturbi del comportamento alimentare,
  • abuso di sostanze.

Cura

Come per le cause sono necessari ulteriori studi che convalidino le basi della tricotillomania e di conseguenza le terapie mirate.

Purtroppo molte persone non cercano l’aiuto necessario per via della vergogna e lo stigma che come sempre colpiscono le malattie mentali, spingendo chi ne soffre all’emarginazione.

Come per altre malattie psicologiche sembra che la combinazione fra psicoterapia e farmaci sia la più promettente.

  • Psicoterapia: l’approccio più utilizzato è quello cognitivo-comportamentale, che permette di focalizzarsi sui pensieri e apprendere nuove strategie di gestione degli eventi. L’Habit Reversal Therapy, o HRT (“inversione dell’abitudine”) è quella che fornisce buoni risultati ma purtroppo soggetta anche a ricadute. Gli aspetti fondamentali dell’HTR sono:
    • controllo degli episodi (ad esempio monitorare e scrivere quanti episodi si hanno),
    • incremento della consapevolezza riguardo ai comportamenti,
    • controllo degli stimoli scatenanti l’episodio,
    • messa in atto di comportamenti incompatibili con lo strappamento appena insorge l’urgenza.
  • Farmaci: non esistono farmaci specifici per la malattia e, benché ne siano stati studiati alcuni, sono necessarie ulteriori evidenze scientifiche che li convalidino.Tra i più comuni ricordiamo:
    • antidepressivi serotoninergici,
    • glutaminergici (n-acetilcisteina),
    • antipsicotici (olanzapina),
    • agonisti oppioidi (naltrexone).

Fonti e bibliografia

  • DSM V – Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali, V edizione
  • Franklin ME et al., Trichotillomania and its treatment: a review and recommendations. Expert Rev Neurother. 2011; 11(8): 1165-1174. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3190970/
  • Grany JE. Et al., Trichotillomania. Am J Psychiatry. 2016; 173(9):868-874. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5328413/

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Sarcopenia: definizione, cause, sintomi e cura

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Introduzione

Con il termine sarcopenia s’intende la perdita progressiva di massa muscolare e la conseguente diminuzione della forza; oltre che alla riduzione della massa muscolare, si va incontro anche ad un peggioramento di quest’ultima perché:

  • il muscolo viene lentamente sostituito da tessuto adiposo (grasso),
  • le giunzioni tra fibre muscolari e nervose (giunzione neuromuscolare) tende a degenerare,
  • lo stress ossidativo a carico delle fibre muscolari aumenta.

Esistono 2 tipi di fibre muscolari:

  • Fibre muscolari di tipo 1, anche dette rosse, si contraggono e rilasciano lentamente. Queste fibre hanno una bassa potenza ma un’alta resistenza alla fatica, sono dunque coinvolte in azioni di scarsa entità e lunga durata come il mantenimento della postura (rivestono un ruolo ridotto nello sviluppo della sarcopenia).
  • Fibre muscolari di tipo 2, si contraggono e rilasciano più rapidamente e sono coinvolte negli sforzi rapidi di potenza.

Nei giovani sani, il 30% del peso corporeo è rappresentato dai muscoli, il 20% dal tessuto adiposo e il 10% dalle ossa. Ai muscoli si deve il 50% della massa magra corporea e circa il 50% del contenuto corporeo totale di azoto. Entro i 75 anni, i muscoli costituiscono circa il 15% del peso corporeo, il tessuto adiposo il 40% e le ossa l’8%. Pertanto, la metà della massa muscolare è scomparsa a causa della sarcopenia. Fonte: MSD

La sarcopenia costituisce quindi un processo fisiologico che inizia dopo i 30 anni di età, per poi procedere più rapidamente una volta superati i 70 anni; ne consegue una perdita di forza pari al 20% entro i 60 anni, ed al 50% entro gli 80 anni.

Se ne riconosce infine una forma patologica che sopraggiunge dopo un’immobilità prolungata, ad esempio a seguito di una ingessatura.

La sarcopenia, in quanto processo fisiologico, non può essere curata, è importante però rallentarne l’avanzamento (attraverso l’attività fisica ed una corretta alimentazione) così da evitare che tale condizione degeneri rapidamente in una sindrome da fragilità dell’anziano con conseguente disabilità.

L’obiettivo del medico e del paziente stesso consiste dunque nella conservazione di una maggiore autonomia possibile, così da ridurre anche il rischio di insorgenza di una sindrome depressiva.

Donna con i capelli bianchi che indica il muscolo bicipite

iStock.com/IPGGutenbergUKLtd

Cause

Le cause di sarcopenia patologica comprendono:

  • riduzione dell’attività fisica,
  • riduzione dell’apporto proteico attraverso l’alimentazione,
  • aumento del fabbisogno proteico,
  • patologie che causano un malassorbimento intestinale (per esempio diverticolite o malattie infiammatorie croniche dell’intestino, come morbo di Crohn e rettocolite ulcerosa)
  • deficit di ormoni anabolizzanti (ossia quelli responsabili della crescita della massa muscolare), come il testosterone e l’ormone della crescita.

All’origine della malattia in genere si riconosce una combinazione più o meno variabile dei fattori elencati.

Sintomi

I sintomi della sarcopenia comprendono:

  • atrofia muscolare (visibile come una riduzione del volume dei muscoli),
  • senso di debolezza,
  • stanchezza persistente,
  • difficoltà nel mantenimento della postura con tendenza alle cadute,
  • andatura rallentata,
  • diminuzione della forza,
  • riduzione della capacità di svolgere le normali attività quotidiane e questo può condurre a depressione.

Il grado di severità del disturbo è determinato essenzialmente da due fattori:

  • la quantità iniziale di massa muscolare iniziale,
  • velocità di perdita di massa.

Numerosi studi svolti hanno associato, nel lungo periodo, la sarcopenia a conseguenze ancora più gravi:

  • riduzione della qualità di vita,
  • aumento del rischio cardiovascolare, soprattutto in pazienti con concomitante disabilità,
  • aumento della disabilità a causa della riduzione della mobilità e della scarsa autonomia,
  • aumento della fragilità nell’anziano.

Diagnosi

Il segno distintivo di sarcopenia è la perdita di massa muscolare (massa magra), ma questo cambiamento può essere difficile da rilevare a causa di fattori quali

  • obesità,
  • modifiche nella quantità di massa grassa,
  • sviluppo di edema (accumulo di liquido).

Per questa ragione le variazioni di peso, della circonferenza degli arti o della vita non sono indicatori affidabili delle variazioni della massa muscolare.

Per formulare una diagnosi di sarcopenia sono necessari

  • l’anamnesi (raccolta dei fattori di rischio attraverso una serie di domande medico-paziente)
  • e l’esame obiettivo (visita medica),

a cui si aggiungono alcuni esami che, oltre che a stabilire la presenza o meno della patologia, sono fondamentali per stabilirne il grado di severità:

  • DEXA (esame che utilizza i raggi x per distinguere la massa grassa dalla massa magra. La quota di raggi x utilizzata è minima, per questo motivo non ci sono problemi nel ripetere l’esame nel tempo);
  • Test della velocità del cammino (questo test si effettua invitando il paziente a camminare a velocità normale per circa 5-6 metri e si valuta il tempo di percorrenza di tale distanza);
  • Test della forza di presa della mano (il paziente viene invitato a stringere il più possibile uno strumento detto dinamometro. Viene valutata la forza di entrambe le mani).

I parametri utili alla diagnosi di sarcopenia sono:

  • Massa muscolare inferiore di almeno due deviazioni standard (un indice statistico spesso utilizzato in medicina) rispetto alla media nella popolazione adulta (valutata attraverso la DEXA).
  • Velocità del cammino inferiore a 0,8 metri al secondo.
  • Forza di presa della mano inferiore a 20 Kg nella donna e 30 Kg nell’uomo.

I risultati permettono di definire anche il grado di severità:

  1. Se un soggetto presenta solo una riduzione della massa muscolare si parla di “pre-sarcopenia”,
  2. mentre a ciò si aggiunge un’alterazione di uno degli altri due esami (test del cammino o della forza di presa della mano) si entra nell’ambito della “sarcopenia”.
  3. Se entrambi i test sono alterati si parla di “sarcopenia severa”.

Cura e prevenzione

La sarcopenia costituisce un processo fisiologico e, per questa ragione, non ne esiste una cura risolutiva. È tuttavia possibile rallentare tale processo principalmente attraverso un approccio combinato che prevede:

  • Corretta alimentazione, alcuni studi hanno dimostrato come per tutelare l’anziano dal rischio di sarcopenia siano necessari almeno 1,2 g di proteine per chilogrammo di peso corporeo al giorno (mentre nel soggetto giovane sedentario sono sufficienti meno di 1.0 g per chilogrammo di peso al giorno). Alle proteine (anche e soprattutto di origine vegetale) bisogna poi affiancare altri macro e micronutrienti come fibre, acidi grassi, sali minerali, vitamine, ferro ed acido folico.
  • Attività fisica che coinvolga braccia, gambe, spalle, dorso, petto ed addome, da svolgersi almeno 2 o 3 volte la settimana e che comprendano esercizi sia per la forza che per la potenza.
  • Integrazione: Alcuni studi hanno indagato l’eventuale utilità dell’integrazione alimentare (principalmente proteica e/o amminoacidica), spesso in combinazione con un’adeguata attività fisica.

Non esistono ad oggi farmaci specifici per il trattamento della patologia; sono stati studiati trattamenti ormonali, per esempio a base di testosterone, ma in genere il rapporto rischio-beneficio non è considerato favorevole.

Attraverso una diagnosi ed un intervento tempestivo la sarcopenia può essere correttamente controllata, a patto però che il paziente risulti collaborativo e che si attenga alle indicazioni del medico con impegno e costanza.

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Addome acuto: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

L’addome acuto è una grave condizione clinica caratterizzata da

Le possibili cause di addome acuto sono numerose, ma le più comuni includono:

Si noti che, pur essendo una manifestazione addominale, non sempre è conseguente a disturbi legati ad organi contenuti in questa cavità (il termine addome acuto fa quindi riferimento all’espressione dei sintomi e non necessariamente all’origine della causa).

Una diagnosi precoce è fondamentale e si basa sulla storia clinica del paziente e su eventuali patologie avute in passato, sulla modalità di insorgenza e localizzazione del dolore, che può essere circoscritto oppure diffuso. Dopo un attento esame fisico può rendersi necessario procedere con esami strumentali per una diagnosi di certezza, che consenta di intervenire farmacologicamente oppure mediante trattamento chirurgico.

Da un punto di vista generale la gestione del paziente con addome acuto richiede un approccio tempestivo e personalizzato; la prognosi è strettamente dipendente dalla causa, ma nelle forme gravi è fondamentale intervenire immediatamente, per evitare le complicanze che includono:

  • sepsi,
  • necrosi e/o gangrena intestinale,
  • fistole,
  • morte del paziente.
Paziente in ospedale che si tocca la pancia a causa del dolore provocato da uno stato di addome acuto

iStock.com/trumzz

Cause

L’addome acuto può essere causato da un’infezione, infiammazione, occlusione vascolare o ostruzione; può quindi essere secondario a numerose patologie, ma le più comuni sono:

Poi ci sono cause meno frequenti tra cui

Occasionalmente, la causa del dolore addominale può essere sospettata in base alla localizzazione e al tipo di dolore, che può aiutare lo specialista a stabilire la diagnosi.

L’addome può essere suddiviso in 9 regioni, ciascuna delle quali può indirizzare, in caso di addome acuto, verso una patologia piuttosto che un’altra.

Alcune patologie possono tuttavia coinvolgere diffusamente tutti i quadranti addominali, come in un’occlusione intestinale oppure in caso di peritonite diffusa.

Sintomi

Il dolore è ovviamente il sintomo caratterizzante una condizione di addome acuto; può avere una modalità di espressione estremamente variabile, presentandosi

  • improvvisamente o con un’evoluzione più graduale,
  • localizzato, oppure sordo e diffuso,
  • continuo od intermittente,
  • crampiforme, trafittivo, …

Oltre al dolore addominale possono essere presenti altri disturbi tra cui

Il vomito è un disturbo precoce e molto comune:

  • se persistente e accompagnato da forte dolore addominale deve far sospettare un’occlusione intestinale,
  • se si presenta come primo sintomo può indirizzare verso un’appendicite. In questo caso spesso viene sottodiagnosticata, in quanto può essere erroneamente confusa con patologie minori.

Il dolore, accompagnato da stipsi, distensione e gonfiore addominale dovuti a gas eccessivi (aumentati a causa dell’ostruzione e da una maggior produzione da parte della flora intestinale), deve far sospettare un’ostruzione intestinale.

Al contrario, un dolore che si accompagna a stipsi senza distensione addominale, deve far sospettare una diverticolite del colon, tipica dei pazienti anziani.

Se è presente invece diarrea, talvolta con feci sanguinolente, si deve sospettare una malattia infiammatoria intestinale (Morbo di Crohn o rettocolite ulcerosa) oppure un infarto intestinale.

A seconda della patologia scatenante possono infine essere presenti anche:

Diagnosi

Oltre ad un’accurata anamnesi, ossia una ricostruzione dello stato di salute e della storia clinica del paziente, l’esame fisico dell’addome è un punto cruciale per stabilire la diagnosi. Lo specialista valuterà

  • l’aspetto generale del paziente,
  • l’espressione facciale
  • e il grado di sofferenza.

Successivamente procederà alla valutazione dell’addome:

  • Auscultazione: praticata mediante fonendoscopio, permette di valutare la presenza della peristalsi intestinale (movimenti tipici dell’intestino), la quale può risultare ridotta o addirittura assente in caso di occlusione intestinale.
  • Percussione: permette di valutare l’eventuale presenza di liquido o di aria libera nelle anse intestinali.
  • Palpazione: ci sono diverse manovre che possono essere eseguite sul paziente e che possono indirizzare verso una diagnosi (sensibili ma poco specifiche).
    • segno di Murphy, spesso positivo in corso di colecistite acuta,
    • segno di Rovsing (appendicite),
    • segno di Blumberg (peritonite),
    • manovra di Giordano (indica una sofferenza renale: pielonefrite o calcolosi delle vie urinarie).

Un’esplorazione rettale e una visita ginecologica, nella donna, devono essere eseguite nel caso in cui vi sia il sospetto di addome acuto correlato a patologie relative a questi apparati.

Esami di laboratorio

Sebbene un’anamnesi dettagliata e un esame fisico completo rivestano un ruolo importante per stabilire la diagnosi del dolore addominale acuto, il ricorso ad esami di laboratorio può costituire un importante tassello ai fini della diagnosi.

Ai pazienti viene effettuato un prelievo di sangue dove verrà richiesto al laboratorio:

in aggiunta viene effettuato anche un esame delle urine.

Il test di gravidanza dev’essere eseguito in tutte le donne in età riproduttiva con dolore addominale.

Esami strumentali

Gli esami utilizzati dipendono dalla localizzazione del dolore addominale:

  • Ecografia: è raccomandata quando il paziente presenta dolore al quadrante superiore destro (ipocondrio). In particolare nelle donne in età fertile, dove sono più comuni le cause ginecologiche e qualora si sospetti una gravidanza, dev’essere evitata l’esposizione alle radiazioni; se il dolore è localizzato nei quadranti inferiori dell’addome è pertanto raccomandata un’ecografia addominale o transvaginale. Quest’ultima presenta una specificità molto elevata in caso di gravidanza extrauterina, torsioni ovariche e ascessi tubo-ovarici.
  • Tomografia computerizzata (TC): spesso accompagnata dall’utilizzo del mezzo di contrasto aumentando notevolmente la specificità. È un esame fondamentale perché permette di valutare numerosi organi tra cui pancreas, milza, reni, intestino e la loro vascolarizzazione. Inoltre è altamente efficace nell’identificare i pazienti con dolore addominale aspecifico che necessitano di un intervento urgente.
  • Se la storia del paziente e l’esame obiettivo suggeriscono una patologia dell’esofago, dello stomaco o del duodeno si raccomanda un’esofagogastroduodenoscopia (EGDS).
  • La semplice radiografia dell’addome è spesso più facilmente eseguibile e meno costosa rispetto alla TC ma non sempre permette di identificare precisamente la causa: può comunque rilevare aria libera sotto il diaframma, che indica una perforazione del tratto gastrointestinale oppure calcificazioni che possono derivare da calcoli biliari o renali.
  • Negli adulti, soprattutto di età superiore ai 40 anni, sarà opportuna l’esecuzione di un elettrocardiogramma (ECG), dato che tra le possibile cause ci può essere un infarto del miocardio ad insorgenza atipica.
  • Se il quadro clinico è grave e in tempi ragionevoli non si è arrivati ad una diagnosi corretta, sarà opportuno sottoporre il paziente ad una laparoscopia esplorativa, che permette di valutare direttamente tutti gli organi addominali.

Cura

I pazienti vengono valutati caso per caso, a partire dai parametri vitali che includono

Diversi studi hanno dimostrato che il trattamento precoce mediante somministrazione di analgesici può fornire sollievo dal dolore e non oscurare la diagnosi. Gli analgesici usati più di frequente sono gli oppioidi, che permettono una rapida ed efficace risposta.

Fonti e bibliografia

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Encondroma (ginocchio, femore, mano, …): pericoli e cura

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Introduzione

Con il termine “encondroma” si indica un processo tumorale osseo che coinvolge una cellula del tessuto cartilagineo presente nel midollo osseo.

Nella maggior parte dei casi questo tumore è benigno e colpisce:

  • la cartilagine delle ossa lunghe della mano (è il tumore più comune della mano),
  • le ossa dei piedi,
  • il femore (osso della coscia),
  • la tibia (una delle ossa della gamba),
  • l’omero (osso del braccio).

In altri casi, tuttavia, può avere potenziale maligno ed evolvere in un tumore a prognosi più infausta detto “condrosarcoma”.

L’encondroma colpisce prevalentemente pazienti tra i 20 e i 30 anni, anche se può interessare persone di qualunque età e sesso; si manifesta attraverso la comparsa di una piccola cisti che, in alcuni pazienti, potrebbe causare i seguenti sintomi:

  • indebolimento osseo,
  • maggiore predisposizione alle fratture,
  • rigidità articolari,
  • comparsa di noduli,
  • tumefazioni ossee (per esempio attraverso il gonfiore del dito interessato),
  • deformità ossee,
  • dolore alle ossa.

Gli encondromi tuttavia raramente causano dolore o altri sintomi, quindi la maggior parte rimane non diagnosticata fino ad una radiografia richiesta per altre ragioni (incidenti, traumi, …).

Radiografia di un encondroma

iStock.com/sittithat tangwitthayaphum

Nei  pazienti in cui l’encondroma è asintomatico spesso non è richiesto alcun trattamento; se sintomatico, invece, potrebbe essere necessario un intervento chirurgico volto a migliorare il quadro clinico.

Fatta eccezione per i casi in cui l’encondroma è mutato in una neoplasia maligna, la patologia ha in genere una prognosi positiva.

Cause

Alla base di questo processo tumorale è stata individuata una mutazione genetica del DNA, responsabile di un’alterazione nei processi di crescita, divisione e morte cellulare, il cui meccanismo di azione non è tuttavia ancora del tutto noto.

Secondo alcuni Autori l’encondroma potrebbe essere il risultato di un’anomala moltiplicazione di una cellula cartilaginea localizzata all’estremità delle ossa, mentre per altri è da considerare come la conseguenza della persistenza e dell’alterato sviluppo della cartilagine embrionale.

Sintomi

Generalmente questa neoplasia si manifesta come una singola cisti cartilaginea, localizzata all’interno del midollo osseo, nella maggior parte dei casi asintomatica (senza causare cioè alcun disturbo).

Solo in una minoranza di pazienti, infatti, l’encondroma si sviluppa sotto forma di multiple lesioni che insorgono per la maggior parte in corrispondenza delle ossa di mani e piedi e che possono essere responsabili della comparsa di una sintomatologia rilevante, caratterizzata da:

  • anomalo indebolimento osseo,
  • deformità ossee,
  • maggiore suscettibilità alle fratture.

In rari casi, inoltre, l’encondroma può essere associato a due particolari condizioni cliniche:

  • Sindrome di Ollier: detta anche encondromatosi, che si manifesta con la comparsa di multipli encondromi situati in diverse regioni corporee; compare in età giovanile, con un’incidenza di 1 ogni 100000 e si caratterizza, oltre che per le evidenti deformità, anche per la maggiore frequenza, nei pazienti affetti, di fratture ossee.
  • Sindrome di Maffucci: è caratterizzata, oltre che per la presenza di multipli encondromi, anche per la presenza di emangiomi (tumori benigni delle cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni); la malattia riguarda principalmente gli adolescenti e si manifesta con una localizzazione elettiva in corrispondenza delle falangi delle mani, che possono essere sede di deformità e fratture.

Complicazioni

Se interessato da ulteriori eventi mutazionali del DNA, l’encondroma può evolvere, trasformandosi in una lesione maligna (più frequentemente un “condrosarcoma”).

Questo tumore maligno può essere responsabile di:

  • dolore osseo particolarmente intenso,
  • dolore al risveglio o durante lo svolgimento di attività fisica,
  • fratture,
  • gonfiore in corrispondenza dell’area sede di lesione.

Diagnosi

Per diagnosticare l’encondroma si ricorre generalmente a:

  • Esame fisico: volto alla ricerca di tumefazioni e cisti in corrispondenza delle ossa del paziente.
  • Radiografia: spesso l’encondroma è diagnosticato casualmente durante esami ai raggi X svolti dal paziente per altre ragioni.
  • Altri esami di diagnostica per immagine, quali:
    • TAC (tomografia assiale computerizzata): si effettua mediante l’esposizione del paziente a radiazioni ionizzanti.
    • RMN (risonanza magnetica nucleare): a differenza dell’esame precedente, non sfrutta l’utilizzo di radiazioni ionizzanti e può essere considerata meno invasiva per il paziente.
    • Scintigrafia ossea: esame di medicina nucleare che prevede l’utilizzo di un mezzo di contrasto radioattivo il quale consente la visualizzazione di possibili anomalie nel rimodellamento scheletrico.

Per definire al meglio altre caratteristiche della neoplasia, come ad esempio la differenziazione istologica oppure il grado di malignità, si può infine ricorrere ad una biopsia ossea, eseguita in anestesia locale o generale, per mezzo di un ago o di un bisturi che consente il prelievo di cellule direttamente provenienti dalla lesione e la loro successiva tipizzazione.

Cura

Se asintomatico, l’encondroma non richiede necessariamente alcun trattamento.

Al contrario, quando sintomatico o mutato in una lesione di tipo maligno, dev’essere trattato in modo mirato.

Le opzioni terapeutiche comprendono:

  • Raschiamento chirurgico: è effettuato esclusivamente in caso di integrità ossea (non può quindi essere realizzato in caso di fratture) e prevede la rimozione della massa tumorale dall’osso.
  • Trapianto osseo: comporta il prelievo e l’innesto di una porzione di osso sano (spesso proveniente dal paziente stesso, ma anche da altri donatori compatibili) nell’area affetta da neoplasia.

In questo modo è possibile rinforzare ulteriormente la sede oggetto di raschiamento chirurgico, stimolandone la guarigione.

L’intervento, che richiede generalmente una giornata di ricovero, è svolto in anestesia generale o loco-regionale in relazione alla sede dell’eventuale prelievo osseo e alla sede della lesione.

I pazienti devono essere valutati pre-operatoriamente, di modo che possa essere stabilita la scelta terapeutica più appropriata, la quale tenga conto delle preferenze del paziente, nonché di parametri quali età, stato di salute del paziente, storia medica del paziente e possibilità di tolleranza delle sequele post-operatorie.

Dopo l’esecuzione della procedura, infatti, è necessario tenere a riposo l’osso interessato per qualche giorno e assumere, qualora fosse necessario, un’opportuna terapia farmacologica.

Fonti e bibliografia

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Griffonia Simplicifolia: integratori e proprietà

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Cos’è la Griffonia?

La Griffonia (Griffonia Simplicifolia), detta anche fagiolo africano per la forma dei suoi baccelli, è un albero tipico delle zone tropicali dell’Africa occidentale, appartenente alla famiglia delle Leguminosae. Dai semi contenuti in questi baccelli si estrae il 5-idrossitritofano (5-HTP), precursore della serotonina – il neurotrasmettitore del buonumore (coinvolto anche nel meccanismo di inibizione della fame). Il 5-HTP è in grado di oltrepassare la barriera ematoencefalica, la stretta rete di capillari che separa il cervello dal resto del corpo, e una volta raggiunto il sistema nervoso centrale può essere trasformato in serotonina, aumentandone le quantità disponibili.

Foto di capsule bianche su sfondo azzurro e la scritta Garcinia Simplicifolia

iStock.com/nadisja

La serotonina, a sua volta, è precursore di un altro importante neurotrasmettitore, la melatonina, coinvolta nel meccanismo di controllo sonno-veglia. L’integrazione di 5-HTP, dunque, può avere importanti indicazioni

  • nella regolazione del ritmo sonno-veglia,
  • nel controllo del tono dell’umore, nelle depressioni lievi,
  • nella terapia dei lievi stati d’ansia,
  • nel controllo di obesità e bulimia. [1,2,6].
Schematizzazione semplificata delle vie biochimiche del triptofano

Schematizzazione semplificata delle vie biochimiche del triptofano

Griffonia (5-HTP) e depressione

Secondo quanto riportato sul sito del National Center for Complementary and Integrative Health [3], alcune ricerche suggeriscono che l’integrazione del 5-HTP possa avere effetti positivi sulla depressione, paragonabili a quelli di alcuni farmaci in uso, per via dell’azione diretta a livello centrale, che si manifesta con un aumento della produzione di serotonina.

Il 5-HTP nei prodotti in commercio, ottenuto dai semi della Griffonia simplicifolia, è pubblicizzato per insonnia, depressione, ansia, cefalea tensiva, fibromialgia, sindrome premestruale, malattia di Parkinson, … tuttavia le evidenze scientifiche ad oggi disponibili riguardano solo la possibile efficacia come antidepressivo, mentre in riferimento alle altre patologie i risultati sono ancora insufficienti.

Secondo un lavoro di revisione pubblicato dalla Cochrane, in due studi randomizzati controllati il 5-HTP e il triptofano (che ne è il precursore) avrebbero mostrato effetti superiori al placebo nel migliorare i sintomi legati alla depressione. Dato il numero limitato di pazienti (64 in totale) coinvolti nei due studi, tuttavia, i risultati non possono ancora essere considerati conclusivi [4,5].

Griffonia (5-HTP) come ansiolitico

Esistono studi in vivo su animali che suggeriscono la potenziale efficacia dell’estratto di Griffonia come ansiolitico nell’uomo, mentre per quanto concerne gli studi in vivo i risultati sono ancora considerati insufficienti.

In uno studio italiano condotto su topi dai ricercatori dell’Università di Modena e Reggio Emilia, per esempio, è stato dimostrato l’effetto ansiolitico della Garcinia (attribuito all’azione del 5-HTP), a confronto sia con placebo che con un comune farmaco ansiolitico (Diazepam). La somministrazione dell’estratto, peraltro, ha manifestato effetto ansiolitico senza indurre sedazione – comune effetto collaterale indesiderato dei farmaci per il trattamento dell’ansia [6].

Griffonia (5-HTP) e cinetosi nei bambini

Un’interessante potenziale applicazione dell’estratto secco di Griffonia riguarda la cinetosi (malessere legato al movimento, come ad esempio il mal d’auto) nei bambini. In uno studio recente dell’Università di Napoli sono stati selezionati 254 bambini sofferenti di cinetosi, divisi in due gruppi uguali: al primo (Gruppo A) è stato somministrato un complesso a base di Griffonia e Magnesio (50mg e 200mg rispettivamente), due volte al giorno per 3 mesi, come terapia preventiva della cinetosi, all’altro (Gruppo B) nessun trattamento.

Al termine del periodo di test si è registrato un 36% di casi di cinetosi nel gruppo trattato, significativamente inferiore al 76% manifestatosi nel gruppo B. Inoltre, i sintomi manifestatisi nel Gruppo A sono risultati più lievi rispetto a quelli del Gruppo B [8]. Si tratta di risultati preliminari – col limite dell’assenza di un gruppo di controllo trattato con placebo e per il fatto che lo studio non è stato condotto in doppio cieco, per esempio – che aprono però la strada a futuri approfondimenti sulla possibilità di trattare la cinetosi nei bambini senza ricorrere a terapie farmacologiche, col vantaggio di ridurre l’incidenza di effetti collaterali indesiderati.

Dose

La Griffonia si trova in commercio come estratto secco titolato in 5-HTP (dal 20% al 95% nelle formulazioni più concentrate), disponibile in capsule o compresse.

Il 5-HTP contenuto nella Griffonia è ben assorbito dopo somministrazione orale (il 70% raggiunge circolazione sanguigna) e non subisce interferenze da parte di altri amminoacidi: per questo può essere assunto ai pasti, senza timore che la compresenza di cibo ne diminuisca l’efficacia.

La dose iniziale è in genere di 50 mg tre volte al giorno, aumentabili fino a 100 mg se non si evidenziano effetti. Per l’insonnia, la dose è di 100-300 mg prima di coricarsi.

Effetti collaterali e controindicazioni

Alcune persone manifestano una lieve nausea durante le prime assunzioni, che in genere è transitoria e scompare col tempo. Per evitarla, è bene assumere l’estratto ai pasti, partendo dal dosaggio più basso (50 mg).

Se ne sconsiglia l’uso in associazione con farmaci antidepressivi (SSRI o IMAO) o sedativo-ipnotici (lorazepam e affini), perché potrebbe potenziarne l’effetto o causare un eccessivo aumento dei livelli cerebrali di serotonina, con comparsa di sintomi potenzialmente importanti (confusione, tremori, agitazione).

Non ci sono studi sufficienti riguardo l’assunzione in gravidanza e allattamento, per cui, a scopo precauzionale, se ne sconsiglia l’uso [7].

Fonti e bibliografia

  1. Erboristeria moderna, M. Pifferi
  2. Erbe Officinali e Piante Medicinali, Tucci-DeLeo, Prontuario Enciclopedico 2.0, 2014
  3. MedLinePlus, 5-HTP
  4. Nutritional supplements in depressive disorders. Martínez-Cengotitabengoa M1, González-Pinto A. Actas Esp Psiquiatr. 2017 Sep;45(Supplement):8-15.
  5. Tryptophan and 5-hydroxytryptophan for depression. Shaw K, Turner J, Del Mar C. Cochrane Database Syst Rev. 2002;(1):CD003198.
  6. Phytomedicine. 2011 Jul 15;18(10):848-51. Anxiolytic-like effect of Griffonia simplicifolia Baill. seed extract in rats. Carnevale G, Di Viesti V, Zavatti M, Zanoli P.
  7. Altern Med Rev. 1998 Aug;3(4):271-80. 5-Hydroxytryptophan: a clinically-effective serotonin precursor. Birdsall TC.
  8. J Med Food. 2015 Aug;18(8):916-20. A Medical Food Formulation of Griffonia simplicifolia/Magnesium for Childhood Periodic Syndrome Therapy: An Open-Label Study on Motion Sickness. Esposito M, Precenzano F, Sorrentino M, Avolio D, Carotenuto M.

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Oftalmopatia tiroidea: cause, sintomi, cura

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Introduzione

L’oftalmopatia di Graves, anche nota come esoftalmo basedowiano, è una manifestazione clinica di interessamento oculare tipica di una forma di ipertiroidismo conosciuta come “morbo di Basedow-Graves”.

L’interessamento oculare, caratteristico di questa malattia tiroidea autoimmune, si manifesta con:

  • esoftalmo o proptosi (protrusione dei bulbi oculari che può riguardare uno o entrambi gli occhi, simmetricamente o asimmetricamente; in caso di esoftalmo gli occhi appaiono sporgenti verso l’esterno in maniera anomala),
  • dolore oculare (è intenso, frequente e può peggiorare con il movimento degli occhi),
  • edema palpebrale (caratteristico gonfiore della palpebra),
  • oftalmoplegia (i muscoli oculari non si muovono in maniera coordinata),
  • bruciore e arrossamento oculare, specialmente al risveglio,
  • secchezza oculare,
  • sensazione di corpo estraneo nell’occhio,
  • annebbiamento visivo,
  • fotofobia (aumentata sensibilità alla luce),
  • chemosi (gonfiore della congiuntiva),
  • diplopia (visione doppia),
  • abbondante lacrimazione,
  • interessamento del nervo ottico, frequentemente dovuto in seguito a compressione,
  • ulcerazioni corneali (lesioni della membrana esterna e trasparente dell’occhio).

L’oftalmopatia di Graves è una conseguenza della “Malattia di Graves” per cui, per risolvere questa condizione, è indispensabile il trattamento della patologia tiroidea di base.

Successivamente, una volta ripristinato il normale funzionamento della tiroide, è possibile elaborare una terapia per curare l’oftalmopatia che, a seconda dei casi, potrà essere farmacologica oppure chirurgica.

Esoftalmo

By Jonathan Trobe, M.D. – University of Michigan Kellogg Eye Center – The Eyes Have It, CC BY 3.0, Link

Panoramica sulla Malattia di Basedow-Graves

La malattia di Graves è una patologia cronica, su base autoimmune, che causa:

  • disfunzione tiroidea: in genere ipertiroidismo, con aumento degli ormoni tiroidei prodotti dalla ghiandola, la quale solitamente risulta essere ingrossata;
  • oftalmopatia di Graves: caratteristico interessamento oculare con manifestazioni cliniche variabili, di cui la principale risulta essere l’esoftalmo (condizione in cui i bulbi oculari appaiono sporgenti, quasi “fuori” la cavità oculare);
  • dermopatia infiltrativa: di solito apprezzabile sotto forma di un’“edema duro” degli arti inferiori che può causare gonfiore, prurito, arrossamento, formicolii e senso di pesantezza e dolore alle gambe.

Alla base della Malattia di Graves, che è particolarmente frequente nelle regioni con carenza endemica di iodio (sostanza fondamentale per la formazione degli ormoni tiroidei), si riconosce un processo autoimmunitario, per cui l’organismo riconosce erroneamente come “estranee” alcune componenti del nostro corpo, scatenando contro queste una reazione anticorpale volta alla loro eliminazione.

Recentemente, inoltre, sono stati identificati ulteriori anticorpi in grado di reagire contro componenti dell’orbita, responsabili dell’ingrossamento dei muscoli oculari e del grasso contenuto nella cavità orbitaria, caratteristico della malattia.

Fattori di rischio

I fattori che favoriscono lo sviluppo della malattia includono:

  • predisposizione genetica,
  • sesso femminile (è più frequente nelle donne),
  • età,
  • disfunzioni tiroidee,
  • fumo di sigaretta.

Come si manifesta l’oftalmopatia di Graves?

Una qualunque disfunzione tiroidea, sia l’ipertiroidismo che l’ipotiroidismo (rispettivamente eccessiva e insufficiente produzione di ormoni tiroidei), può essere associata alla comparsa o al peggioramento dell’oftalmopatia di Graves; questa malattia, che condivide il meccanismo autoimmune delle disfunzioni tiroidee, si sviluppa di solito lentamente e risulta essere più frequente negli uomini affetti da ipertiroidismo e nei pazienti fumatori.

La conseguenza più comune di un interessamento oculare in corso di malattia tiroidea è l’esoftalmo, cioè la sporgenza dei bulbi oculari verso l’esterno che si accompagna generalmente ad alterazioni nei muscoli extraoculari e al coinvolgimento del nervo ottico, che può risultare compresso e causare un’alterazione nella visione.

Altre possibili manifestazioni cliniche degne di nota sono:

  • dolore oculare: è intenso, frequente e può peggiorare con il movimento degli occhi;
  • edema palpebrale: è un caratteristico gonfiore della palpebra;
  • oftalmoplegia: i muscoli oculari non si muovono in maniera coordinata;
  • bruciore e arrossamento oculare, specialmente al risveglio:
  • secchezza oculare;
  • sensazione di corpo estraneo nell’occhio;
  • annebbiamento visivo;
  • fotofobia: aumentata sensibilità alla luce;
  • chemosi: gonfiore della congiuntiva;
  • diplopia: sdoppiamento nella visione;
  • abbondante lacrimazione;
  • ulcerazioni corneali: lesioni della membrana esterna e trasparente dell’occhio.

Diagnosi

Gli accertamenti utili per la diagnosi includono:

  • Visite specialistiche:
    • Visita endocrinologica: l’endocrinologo è lo specialista deputato alla valutazione dei disturbi tiroidei ed è il primo a porre il sospetto dell’eventuale presenza di un’oftalmopatia di Graves;
    • Visita oculistica: l’oculista esegue un controllo della vista e dei muscoli dell’occhio e, grazie ad un’ecografia endorbitaria, può ottenere informazioni sullo stato del nervo ottico e sulla presenza di patologie oculari concomitanti. Durante la visita medica, inoltre, potrebbero essere valutati alcuni segni distintivi di oftalmopatia, come:
      • Segno di Dalrymple: la palpebra appare ritratta, rigonfia e ispessita, mentre i bulbi oculari sporgono verso l’esterno della cavità oculare;
      • Segno di Graefe: quando si muove l’occhio verso il basso, la palpebra superiore appare immobile o retratta;
      • Segno di Jeffroy: quando si guarda verso l’alto, non è presente corrugamento;
      • Segno di Moebius: difficoltà nella visione da vicino.

Lo studio dell’orbita e del suo contenuto può essere poi approfondito attraverso esami strumentali come:

  • TAC (tomografia assiale computerizzata): consente di rilevare i muscoli ed eventuali cambiamenti patologici della struttura della cavità orbitaria;
  • RM (risonanza magnetica): permette di studiare meglio il nervo ottico e il suo aspetto a livello dell’apice orbitario nonché di valutare lo stato del tessuto adiposo;
  • PEV (potenziali evocati visivi): sono esami condotti da un neurofisiologo, spesso sia prima che dopo il trattamento, per valutare ulteriormente i nervi ottici.

Cura

Il trattamento dipende dalla gravità e dalla progressione della malattia e in ogni caso prevede la cura della disfunzione tiroidea di base (attraverso terapie farmacologiche, radioterapiche oppure chirurgiche).

Nelle forme più lievi di oftalmopatia di Graves può essere sufficiente l’uso di colliri o lacrime artificiali per ridurre la sensazione di secchezza oculare.

L’uso di colliri-betabloccanti è indicato qualora sia presente un aumento del tono oculare.

Nelle forme di oftalmopatia più gravi è indicato l’utilizzo di corticosteroidi, farmaci dotati di azione antinfiammatoria, utilizzati per stabilizzare, e in alcuni casi, ridurre, l’esoftalmo.

L’intervento chirurgico è attuato in casi selezionati e prevede lo svolgimento di una decompressione orbitaria attuabile con:

  • Tecnica di decompressione ossea: l’intervento è svolto in anestesia generale e prevede l’allargamento delle pareti orbitarie in modo di aumentare le dimensioni dell’orbita ossea;
  • Tecnica di decompressione attraverso lipectomia: anche in questo caso l’intervento si svolge in anestesia generale e prevede la rimozione del grasso presente all’interno dell’orbita, in modo da creare più spazio e diminuire la pressione intra-orbitaria.
  • Combinazione delle due tecniche: in casi di esoftalmo particolarmente gravi.

Fonti e bibliografia

  • Humanitas
  • EndocrinologiaOggi
  • Università degli Studi di Ferrara
  • Rugarli, Medicina interna sistematica, Edra Masson, 7° edizione, 2015.
  • Manuale di patologia degli organi di senso, Antonella Polimeni, Roberto Filipo, Giorgio Iannetti, Edra, 2014.
  • Ophthalmologe. 2016 Apr;113(4):349-64; quiz 465-6. doi: 10.1007/s00347-016-0239-3. [Graves’ ophthalmopathy]. Eckstein A1, Dekowski D2, Führer-Sakel D3, Berchner-Pfannschmidt U4, Esser J2.
  • Ophthalmologe. 2013 Nov;110(11):1079-96. doi: 10.1007/s00347-013-2976-x.  [Update on endocrine orbitopathy]. Eckstein A1, Berchner-Pfannschmidt U, Führer D, Esser J.

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Monociti alti, bassi e valori normali: cause e pericoli

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Cosa sono i monociti?

I globuli bianchi, o leucociti, sono cellule presenti nel sangue e che fanno parte del sistema immunitario dell’organismo, difendendolo dalle aggressioni esterne dovute a batteri, virus, funghi, parassiti, …

Possono essere classificati in:

  • granulociti neutrofili
  • granulociti basofili
  • granulociti eosinofili
  • monociti,
  • linfociti,
  • cellule natural killer.

I monociti sono prodotti nel midollo osseo (all’interno delle ossa) e rappresentano il 2-10% dei leucociti circolanti, ma questa è solo una piccola frazione rispetto alla quota totale presente e disponibile nell’organismo; il monocita maturo rimane infatti in circolo per breve tempo (12 ore circa), prima di entrare nei tessuti per diventare un macrofago (cellule in grado di inglobare microrganismi ed altre particelle estranee).

I monociti, quando si trasformano in macrofagi, diventano altamente efficienti: ogni macrofago può mangiare fino a 100 batteri; entrano in azione in due modi:

  • a volte sanno riconoscere da soli la minaccia e vanno ad eliminare gli agenti patogeni autonomamente,
  • altre volte hanno bisogno di essere guidati chimicamente da alcune sentinelle, cioè dagli anticorpi.

Oltre all’eliminazione degli agenti patogeni i monociti sono detti anche spazzini del corpo perché rimuovono diversi tipi di scorie, come i globuli rossi ormai invecchiati, i neutrofili morti e altre particelle e corpuscoli indesiderati, ad esempio il carbone e le fibre di amianto.

Possono accelerare la risposta immunitaria nei momenti di maggiore bisogno: una volta che hanno digerito l’agente patogeno, ne elaborano alcuni frammenti per poi esporli nella propria membrana cellulare di rivestimento, diventando di fatto “segnaletici” nei confronti di altri anticorpi (globuli bianchi di tipo “T helper”), che raccolgono la segnalazione ed amplificano la risposta del sistema immunitario di tutto l’organismo.

Ai fini dell’esame non è necessaria alcuna preparazione specifica e non serve presentarsi a digiuno (salvo il caso in cui si eseguano contemporaneamente altri esami che al contrario lo richiedano).

Rappresentazione grafica di un monocita nel sangue, circondato da globuli rossi

iStock.com/Dr_Microbe

Valori normali

Sono considerati normali

  • 100 – 850 cellule per mm3 di sangue (valore assoluto),
  • rappresentanti circa il 2-10 % dei leucociti totali (valore percentuale).

Si noti che i valori possono differire leggermente da un laboratorio all’altro.

Vi sono tuttavia numerosi fattori in grado d’influenzare l’esame, tra i principali il fatto che negli anziani, a causa di un sistema immunitario non più in perfetta efficienza, è comune osservare valori molto più bassi della soglia normale.

Nei bambini, invece, non è possibile generalizzare un intervallo di riferimento, poichè variabile rapidamente per età e per sesso.

In caso di asportazione della milza è possibile sviluppare un moderato ma persistente aumento della conta totale.

Ricordiamo poi la presenza di farmaci in grado di ridurre il numero di monociti circolanti, in particolare l’uso di agenti immunosoppressivi e cortisonici.

Monociti alti

Un aumento dei monociti circolanti è in genere segno della presenza di una patologia di natura infettiva, ma piccole variazioni rispetto ai valori normali possono anche non avere alcun significato clinico.

Per quanto sia difficile cercare di compiere un esaustivo elenco di quelle che sono le cause dei monociti alti, possiamo comunque cercare di individuarne le principali in:

È inoltre possibile che valori molto alti di monociti possano nascondere patologie più gravi, come la tubercolosi o il linfoma di Hodgkin.

Monociti bassi

Piccole variazioni rispetto ai valori normali spesso non hanno alcun significato clinico.

La monocitopenia, ossia la presenza di quantità insufficienti di monociti in circolo, può aumentare il rischio di infezione a causa della ridotta efficienza del sistema immunitario, ma si tratta di una condizione più rara rispetto al riscontro di valori aumentati.

Tra le cause più diffuse ricordiamo:

  • anemia,
  • infezioni (HIV, mononucleosi, da adenovirus, …),
  • leucemia,
  • aplasia midollare (condizione caratterizzata da una riduzione importante del tessuto emopoietico midollare),
  • generale ridotta funzionalità del midollo osseo,
  • chemioterapia,
  • terapia cortisonica e/o immunosoppressiva.

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Ferritina alta, bassa e valori normali: cause e sintomi

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Cos’è la ferritina?

La ferritina è la principale forma di accumulo del ferro nell’organismo; dal punto di vista chimico si tratta di una proteina con forma globulare (una sorta di sfera, costituita dalle catene della molecola avvolte su sé stesse) di peso molecolare elevato, caratterizzata da un guscio proteico e una parte centrale ove si deposita il metallo.

È prodotta da quasi tutti gli organismi viventi, compreso l’uomo, dove assolve la funzione di gestione delle scorte di ferro, mantenendo il delicato equilibrio tra carenza e sovraccarico attraverso la capacità di accumulare il metallo e poi, in condizioni di necessità, rilasciarlo rapidamente con lo scopo di renderlo prontamente utilizzabile. Quando richiesto il ferro viene liberato dal guscio in cui si trova e si lega alla transferrina, una proteina circolante che si occupa di trasportarlo alle cellule responsabili dell’eritropoiesi (processo di sintesi dei globuli rossi).

La ferritina può contenere fino a 4.500 ioni ferro, allo stato di ione ferroso (Fe3+), che se fossero liberi di circolare come tali diventerebbero invece rapidamente tossici per le cellule che lo contengono.

La maggior parte della ferritina si trova a livello tissutale, essenzialmente

  • nel fegato,
  • nella milza
  • e nel tessuto eritropoietico (midollo osseo, all’interno delle ossa).

La ridotta concentrazione nel sangue, dove funziona da trasportatore, è tuttavia direttamente proporzionale alle quantità totali e quindi la sua valutazione consente di ottenere una stima realistica della quantità di ferro di scorta dell’organismo.

Il ferro è un elemento essenziale, cioè che deve necessariamente essere introdotto con la dieta, e che tra le molte funzioni consente ai globuli rossi di trasportare l’ossigeno a tutte le cellule dell’organismo.

Nella pratica clinica viene dosata a partire dal prelievo di sangue e prende il nome di ferritinemia.

Provetta di sangue con la scritta "ferritina" e l'esito dell'esame di sfondo

iStock.com/jarun011

Perché viene misurata?

I livelli sierici di ferritina vengono dosati quando si è diagnosticata, o si teme, uno stato di anemia, ossia una ridotta quantità di globuli rossi; di norma infatti le concentrazioni di ferritina nel sangue sono strettamente correlati alla quantità totale di ferro di riserva dell’organismo, metallo indispensabile alla produzione dei globuli rossi.

Da un punto di vista permette ad esempio di distinguere:

  • anemia da carenza di ferro, caratterizzata da valori di ferritina bassi,
  • anemia causata da una malattia cronica, dove i livelli di solito sono nella norma o alti a causa dell’infiammazione;

oppure anche tra una microcitosi, condizione caratterizzata da un’anomala riduzione del volume medio dei globuli rossi, causata da

  • carenza di ferro (valori bassi di ferritina),
  • talassemia minor (valori normali o alti).

Valori normali

I valori normali di ferritina variano in funzione di età, sesso e di particolari condizioni come la gravidanza.

  • Bambini: 6 – 55 ng/mL o microgrammi/L
  • Donne: 20 – 200 ng/mL o microgrammi/L
  • Uomini: 20 – 500 ng/mL o microgrammi/L
  • Donne in gravidanza: 10 – 150 ng/mL o microgrammi/L

Si raccomanda di fare riferimento al referto del proprio laboratorio, in quanto a seconda della strumentazione utilizzata i valori di riferimento possono variare leggermente.

Ferritina alta, iperferritinemia

Cause

I livelli aumentano fisiologicamente con l’età e sono in genere più elevati negli uomini rispetto alle donne (dove risultano ulteriormente aumentati in caso di assunzione di anticoncezionali ormonali come la pillola); anche un eccessivo consumo di carne rossa può far aumentare le concentrazioni.

La ferritina può risultare elevata a causa di diverse condizioni:

  • Emocromatosi: condizione che comporta un maggiore assorbimento di ferro a livello intestinale, dunque del ferro introdotto tramite l’alimentazione (spesso legata a valori superiori a 1000 ng/mL).
  • Porfiria: un gruppo di malattie rare conseguenti ad un’alterazione enzimatica coinvolta nella sintesi dell’eme (costituente non proteico dell’emoglobina).
  • Infiammazioni acute e croniche: in questi casi la ferritina si comporta come una proteina di risposta all’infiammazione, con il risultato di un aumento della sua concentrazione nel siero. Le infiammazioni possono essere conseguenti ad infezioni, ma anche a processi cronici come l’artrite reumatoide o sindromi intestinali di malassorbimento autoimmuni come il morbo di Crohn e la rettocolite ulcerosa. Tra i processi infiammatori le epatiti, sia acute che croniche, accompagnano valori elevati di ferritina a livelli altrettanto alti delle transaminasi.
  • Tumori del sangue come le leucemie, linfoma di Hodgkin, carcinomi del colon, mammari e pancreatici: I parametri ematici della ferritina spesso possono essere alterati dalla presenza di uno specifico tumore. Per tale ragione, la ferritina viene considerata dalla medicina un marker tumorale a tutti gli effetti perché è in grado di evidenziare l’alterazione di cellule neoplastiche, anche se a livello di screening della popolazione è associata ad evidenti limiti di sensibilità e specificità (per esempio non fornisce indicazioni sulla localizzazione del tumore e può essere elevata anche in altre condizioni non correlate).
  • Abuso di alcool:l’alcool stimola la produzione di ferritina indipendentemente dalle riserve di ferro ed inoltre provoca danni alle cellule epatiche che hanno elevati contenuti di ferritina in quanto il fegato è il principale responsabile dell’accumulo del ferro.
  • Farmaci ed integratori: eccessiva assunzione di farmaci che contengono ferro.
  • Disturbi metabolici: alterazioni del metabolismo come l’obesità, l’ipercolesterolemia, il diabete, l’ipertensione arteriosa provocano un aumento di ferritina.
  • Trasfusioni multiple di sangue.
  • Abuso di alimenti ricchi di ferro o integratori ricchi di ferro.
  • Sindrome emofagocitica (ferritina superiore a 3000 ng/mL).
  • Malattia di Still (ferritina superiore a 3000 ng/mL).

Sintomi

I sintomi associati ad una elevata ferritinemia possono variare in funzione della causa scatenante tale incremento, ma più frequentemente si riscontrano:

Ferritina bassa nel sangue, ipoferritinemia

Cause

Valori bassi di ferritina indicano una condizione di ridotto contenuto di ferro a livello dell’organismo; l’ipoferritinemia può essere molto pericolosa e talvolta indicare la presenza di disturbi o patologie anche gravi.

Una delle più frequenti forme di ferritina bassa è l’anemia sideropenica, una forma di anemia (ridotta concentrazione di globuli rossi) causata da carenze di ferro per

  • alterato assorbimento,
  • o da aumentata eliminazione.

Le cause più comuni di ferritina bassa nel sangue sono:

  • Deficit nutrizionali:
  • Ridotto assorbimento intestinale, per esempio a causa di malattie infiammatorie croniche intestinali come la celiachia.
  • Emorragie dovute a traumi, ulcere, …
  • Stillicidi (lenta ma costante perdita di sangue, per esempio stillicidi gastrointestinali dovuti a tumore).
  • Ipocloridria: cattivo funzionamento dello stomaco che secerne un insufficiente quantitativo di succhi gastrici, necessari al corretto assorbimento del metallo.
  • Ulcere gastroduodenali: lesioni dello stomaco e del duodeno che si accompagnano a perdite di sangue.
  • Gravidanza e flusso mestruale.
  • Anemia emolitica cronica.
  • Artrite reumatoide.

Sintomi

Anche se nelle sue fasi iniziali la carenza di ferro può non presentare alcun sintomo grazie alla capacità di adattamento dell’organismo, man mano che le riserve finiscono e che il corpo inizia a richiedere più ferro di quanto ne venga immesso, il soggetto può notare alcuni sintomi, tra cui:

Preparazione all’esame ed esami complementari

Il campione biologico dal quale si valuta la ferritina è il campione ematico, ovvero il sangue prelevato tipicamente da una vena del braccio.

Il prelievo si deve eseguire a digiuno e preferibilmente al mattino.

Alla valutazione della ferritina sierica spesso si associa la valutazione di

  • ferro (sideremia),
  • transferrina (la principale proteina di trasporto del ferro a livello ematico),
  • UIBC (capacità di riserva della transferrina, ossia la quantità disponibile a legare il ferro),
  • percentuale di saturazione transferrina (rapporto tra quantità di ferro circolante e la quantità totale di ferro che può essere legato dalle proteine del sangue).
Malattia Ferro TIBC/Transferrin UIBC %Saturazione transferrina Ferritina
Carenza ferro Basso Alto Alto Basso Basso
Emocromatosi Alto Basso Basso Alto Alto
Malattia cronica Basso Basso Basso/Normale Basso Normale/Alto
Anemia emolitica Alto Normale/Basso Basso/Normale Alto Alto
Anemia sideroblastica Normale/Alto Normale/Basso Basso/Normale Alto Alto
Avvelenamento da ferro Alto Normale Basso Alto Normale

Fonte tabella: LabTestOnLine

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Piaga da decubito: come si cura?

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Lesioni da pressione

Il termine lesione da pressione, o piaga da decubito, viene utilizzato per descrivere una lesione ad evoluzione necrotica che interessa l’epidermide, il derma e gli strati sottocutanei fino a raggiungere, nei casi più gravi, la muscolatura e le ossa.

Pelle e cheratinociti, schema grafico

iStock.com/ttsz

Tali lesioni sono la conseguenza diretta di un’ischemia localizzata, ossia la riduzione o l’interruzione dell’afflusso di sangue, che si sviluppa quando un tessuto molle viene compresso tra una prominenza ossea e una superficie esterna per un prolungato periodo di tempo (si pensi tipicamente al paziente a letto, che poggia sempre la stessa superficie corporea sul materasso). Si determina in questo modo uno stress meccanico a carico dei tessuti, con conseguente compressione e strozzatura dei vasi sanguigni.

Le sedi maggiormente predisposte allo sviluppo di lesioni da pressione, o lesioni da pressione, sono le prominenze ossee quali anche, spine ischiatiche e coccige, nonché malleoli e ginocchia.

Rappresentazione grafica delle principali zone colpite dalle piaghe da decubito

iStock.com/solar22

Le lesioni da pressione sono causate dalla pressione esercitata da un corpo immobile sulle prominenze ossee, in combinazione con altri due fattori: lo stiramento e la frizione.

  • La frizione, definita come la forza che si oppone ad un movimento relativo tra due oggetti a contatto (pelle e lenzuola), nasce ad esempio durante un sollevamento non corretto della persona con fattori di rischio per lo sviluppo di lesioni da pressione, provocando la rimozione degli strati superficiali della cute.
  • Per stiramento s’intende invece la forza che agisce sulla cute determinando la trazione degli strati cutanei superiori su quelli più profondi; tale forza si applica quando la persona scivola in basso nel letto o su una sedia.

L’applicazione ripetuta di queste forze determina la riduzione della circolazione sanguigna nella zona interessata, che a sua volta genera un fenomeno a cascata che porta all’ipossia tissutale, ovvero la riduzione dell’apporto di ossigeno al tessuto, con successivo danno della parete capillare che si manifesta con eritema permanente (rossore ed infiammazione). L’assenza di ossigeno induce le cellule dei tessuti interessati ad utilizzare un metabolismo alternativo (anaerobio), che comporta la produzione di sostanze tossiche con conseguente formazione di trasudato ed edema; questo processo porta la cellula ad una condizione di sofferenza cellulare che determina, successivamente, la necrosi, ovvero la morte dei tessuti.

Classificazione delle lesioni da pressione

Le linee guida di riferimento (NPUAP, EPUAP e PPPIA) classificano le lesioni da pressioni sulla base del grado di interessamento degli strati cutanei:

  • Stadio I, eritema non sbiancabile: La cute si presenta intatta con rossore che non si riduce in una zona localizzata in prossimità di una prominenza ossea. L’area può essere dolorosa, solida, morbida più calda o, in alcuni casi, più fredda rispetto ai tessuti adiacenti.
  • Stadio II, perdita cutanea a spessore parziale: La cute si presenta con un’ulcera superficiale che interessa il derma o con una vescica intatta, aperta o rotta e piena di siero.
  • Stadio III, perdita cutanea a spessore totale: In questo stadio può essere esposto il grasso sottocutaneo, mentre ossa, tendini e muscoli non sono interessati. Il grado di esposizione del grasso sottocutaneo è correlato alla zona in cui si sviluppa la lesione, poiché in aree anatomiche con scarso tessuto sottocutaneo (ad esempio i malleoli) la lesione di stadio III può risultare poco profonda.
  • Stadio IV, perdita di tessuto a spessore totale: Le ferite in questo stadio si presentano con esposizione delle ossa, dei tendini e dei muscoli. Spesso i tessuti alla base della ferita si presenta devitalizzati.
Rappresentazione grafica delle lesioni da pressione

iStock.com/solar22

La classificazione NPUAP/EPUAP/PPPIA è particolarmente importante per identificare i prodotti più idonei per la medicazione della lesione.

Prevenzione

La più efficace strategia terapeutica contro le lesioni da pressione si configura, nella maggior parte dei casi, con la prevenzione. Le strategie preventive maggiormente raccomandate dalle linee guida di riferimento sono le seguenti:

  • Mobilizzazione precoce del soggetto a rischio: le evidenze in letteratura dimostrano che solo due ore nella medesima posizione sono sufficienti per dare inizio al processo che determina lo sviluppo di una lesione da pressione. Un adeguato programma riabilitativo focalizzato al raggiungimento della maggiore indipendenza possibile è dunque un fondamentale fattore preventivo per lo sviluppo di lesioni da pressioni.
  • Riposizionamento frequente del soggetto allettato: variare la posizione del soggetto allettato almeno ogni due ore permette di prevenire il rischio di sviluppo di lesioni da pressione. Inoltre si raccomanda di evitare di posizionare l’individuo a rischio su un’area in cui si è precedentemente sviluppato un eritema, poiché ciò indica che l’organismo non è stato in grado di recuperare da un precedente carico sulla zona interessata e richiede dunque ulteriore riposo prima di un successivo carico.
  • Cura preventiva della cute: un’adeguata attenzione alla cura della cute del soggetto a rischio di sviluppo di lesioni da pressione è un’essenziale strategia preventiva. La cute dei soggetti a rischio deve essere frequentemente ispezionata e mantenuta pulita e asciutta, soprattutto nelle zone ad elevato tasso di umidità che sono maggiormente predisposte al rischio di sviluppo di lesioni. È raccomandato, a tal proposito, l’utilizzo di saponi a pH bilanciato per la detersione della cute a rischio e l’utilizzo di panni morbidi per l’asciugatura, che deve avvenire per tamponamento e non per sfregamento, poiché, oltre a poter risultare doloroso, lo sfregamento determina il progressivo deterioramento dei tessuti molli generando così reazioni infiammatorie cutanee.
  • Una particolare attenzione va posta alla cute dei soggetti con incontinenza urinaria o fecale, nei quali l’utilizzo di presidi assorbenti determina una notevole alterazione del microclima della zona coccigea, di per sé maggiormente predisposta allo sviluppo di lesioni da pressione.
  • Utilizzo di creme idratanti: la cute secca è maggiormente predisposta allo sviluppo di danni derivati da traumi da sfregamento, motivo per il quale le linee guida NPUAP raccomandano l’utilizzo di creme idratanti in quelle zone che risultino particolarmente disidratate e maggiormente predisposte allo sviluppo di lesioni da pressioni.
  • Utilizzo di presidi antidecubito: nei soggetti a rischio e allettati è indicato l’utilizzo di presidi che aiutino a ridurre la pressione esercitata sulle zone a rischio di sviluppo di lesioni. I presidi antidecubito comprendono materassi in schiuma o gel, materassi a cessione d’aria, a pressione alternata o ad aria fluidizzata (materassi a microsfere siliconate). Oltre ai materassi antidecubito, in commercio sono presenti presidi antidecubito specifici per area, come ad esempio protezioni in materiale sintetico per talloni, ginocchia e malleoli, che contribuiscono a ridurre lo sfregamento tra la cute e le superfici d’appoggio, o cuscini e traverse antidecubito di varie dimensioni e in vari materiali (sintetici, in gel, in vello naturale).

Medicazioni preventive

Le medicazioni preventive sono presidi non medicati che hanno lo scopo di prevenire lo sviluppo di lesioni da pressioni attraverso un meccanismo di riduzione della pressione esercitata dalle prominenze ossee sui tessuti a rischio contro superfici di supporto. Tali presidi devono essere posizionati su cute intatta in zone a rischio di sviluppo di danni da pressione al fine di ridurre le forze di attrito e le forze da taglio esercitate sui tessuti da parte delle superfici di appoggio.

Si tratta di medicazioni che favoriscono inoltre il mantenimento del microclima cutaneo, fornendo una barriera protettiva contro l’eccessiva umidità a cui sono sottoposte alcune aree a rischio (es. zona coccigea nei soggetti incontinenti).

L’utilizzo di questi presidi non preclude la necessità di valutare accuratamente la cute, sulla quale devono essere ricercati i segni di sviluppo di lesioni da pressione giornalmente. Questi presidi presentano, a tal proposito, forme che ne facilitano la rimozione atraumatica quotidiana al fine di prevenire la comparsa di ustioni da cerotto durante la loro rimozione per i controlli di routine.

Le medicazioni preventive devono essere sostituite ogni qualvolta si presentino danneggiate, non adeguatamente adese alla cute, sporche o eccessivamente umide.

Medicazione delle lesioni da pressione

La medicazione delle lesioni da pressioni necessita di previa valutazione da parte di un professionista sanitario e di una stadiazione delle lesioni secondo la classificazione NPUAP, EPUAP, PPPIA. Lesioni di stadio II,III, IV e lesioni non stadiabili necessitano infatti di medicazioni avanzate eseguite da personale sanitario adeguatamente formato.

Lesioni di stadio I, ovvero lesioni caratterizzate dalla presenza di eritema persistente e non sbiancabile, necessitano di medicazioni con film semipermeabili traspiranti, che mantengono un ambiente adeguatamente umido e favoriscono la guarigione della lesione. La procedura per la medicazione di una lesione da pressione di stadio I prevede i seguenti passaggi:

  1. Lavare le mani con acqua e sapone per almeno 40 secondi.
  2. Osservare la lesione: in caso di ferite aperte, comparsa di vesciche o abbondante essudato sieroso o siero – ematico, consultare il medico.
  3. Detergere la ferita con soluzione fisiologica o acqua sterile: la detersione è un passo fondamentale per preparare adeguatamente il letto della ferita della lesione da pressione, rimuovendo residui di medicazioni precedenti e scorie in superficie; permette inoltre una migliore visualizzazione della ferita per la sua valutazione.
  4. Spesso, per rimuovere detriti superficiali dalla ferita, può essere necessario esercitare una certa pressione; per questo motivo, è possibile utilizzare una siringa senza ago riempita con soluzione fisiologica o acqua sterile per detergere la ferita, di modo da poter esercitare una maggiore pressione senza frizionare meccanicamente con altri prodotti la ferita.
  5. Asciugare con garze sterili la ferita: non sfregare o massaggiare la zona della lesione, poiché il tessuto sottostante si presenta particolarmente fragile e può essere facilmente soggetto a irritazione. Asciugare tamponando.
  6. Detergere la cute perilesionale con acqua e sapone: questa manovra permette di prevenire la diffusione dei microrganismi presenti sulla cute alla lesione da pressione. Asciugare tamponando.
  7. Applicare un film semipermeabile sulla ferita prestando attenzione a non toccare direttamente la ferita con le mani e mantenendo la medicazione per i lembi.

Le medicazioni in film semipermeabile possono rimanere in sede fino a 7 giorni e sostituite prima solo nel caso in cui la medicazione si presenti sporca o non adeguatamente adesa alla cute.

Fonti

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Debolezza muscolare alle gambe e generalizzata

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Introduzione

Con il termine “debolezza” si è soliti indicare una perdita di forza muscolare tale che chi ne è affetto risulta impossibilitato a muovere uno o più muscoli, nonostante lo sforzo fisico.

In prima battuta la debolezza può essere semplicisticamente classificata in:

  • generalizzata (in tal caso si avverte una debolezza muscolare globale, cioè che interessa in maniera diffusa l’intero corpo);
  • localizzata (se riguarda esclusivamente un solo punto o un lato del corpo, come nel caso delle gambe).

La debolezza può essere indicativa di molte condizioni cliniche, sia patologiche che non; chi ne è affetto, inoltre, può presentare una serie di sintomi correlati tra cui:

  • sensazione di cedimento muscolare,
  • sonnolenza,
  • stanchezza prolungata,
  • malessere generale,
  • intorpidimento muscolare,
  • difficoltà a sostenere gli arti,
  • talora fascicolazioni e tremori.

A seconda di quanto emerge durante la visita e dei sintomi riferiti dal paziente il medico potrà prescrivere accertamenti diagnostici volti ad individuare la causa alla base della debolezza, come ad esempio:

Solo successivamente, quindi, sarà possibile intervenire attraverso una terapia specifica che consenta il miglioramento o la risoluzione del quadro clinico descritto dal paziente.

Cause

Chiunque può accusare una sensazione di debolezza fisica più o meno occasionalmente, per esempio dopo un periodo stressante (durante e dopo il quale è normale somatizzare anche attraverso sintomi fisici) o dopo un’attività fisica particolarmente intensa; questa difficoltà è tuttavia una reazione del tutto normale (parafisiologica) e tende a risolversi con qualche notte di riposo e il superamento del periodo di difficoltà.

Da un punto di vista patologico, invece, la debolezza muscolare può essere il sintomo di un’alterazione a carico del sistema nervoso; i movimenti volontari, infatti, avvengono grazie ad un segnale che si propaga attraverso:

  • cervello,
  • cellule nervose situate nel tronco cerebrale e nel midollo spinale,
  • nervi che dal midollo spinale raggiungono i muscoli (nervi periferici),
  • connessioni tra nervi e muscoli (dette “giunzioni neuromuscolari”).
Semplificazione del motoneurone

iStock.com/ttsz

Quando una parte di questo percorso è danneggiata, il tessuto muscolare perde la possibilità di contrarsi in risposta al segnale proveniente dai nervi e di conseguenza il soggetto sviluppa debolezza.

Anche il quantitativo di tessuto muscolare dev’essere normale perché possa contrarsi in maniera efficace in risposta allo stimolo nervoso.

La debolezza può insorgere in maniera improvvisa o graduale e, a seconda del punto in cui è danneggiato il midollo spinale, riguardare

  • più muscoli del corpo,
  • o un solo gruppo di essi (come nel caso delle gambe).

Le cause più frequenti di debolezza generalizzata sono:

  • Diminuzione della forma fisica generale a causa di malattie o stati di fragilità (per esempio riduzione di massa muscolare, diminuita densità ossea o alterazioni della capacità di funzionamento di cuore e polmoni) caratteristici degli anziani.
  • Lunghi periodi di inattività o di riposo a letto (come nel caso di pazienti sottoposti a terapia intensiva) che causino una vera e propria perdita di tessuto muscolare (riduzione o atrofia).
  • Gravi disturbi neurologici, muscolari o neuromuscolari (come miastenia gravis, distrofie, varie forme di sclerosi, dermatomiosite, miosite, fibromialgia o rabdomiolisi).
  • Disturbi tiroidei (come il morbo di Basedow o tireotossicosi) che causano manifestazioni a livello dell’apparato neuromuscolare come tremori delle mani, alterazioni del trofismo e della forza muscolare, debolezza, facile affaticabilità.
  • Disturbi metabolici (principalmente correlati a bassi livelli di potassio o all’eccessiva assunzione di alcol).
  • Intossicazioni (il tipico caso è quello del botulismo).
  • Assunzione di farmaci che annoverano la debolezza muscolare tra gli effetti collaterali (come cortisonici, diuretici, lassativi e statine).

Altre patologie che possono causare debolezza generalizzata sono:

Tra le cause di debolezza localizzata alle gambe, si annoverano principalmente:

Tra le altre cause di debolezza localizzata alle gambe, meno comunemente si rilevano:

Sintomi

Chi è affetto da debolezza (generalizzata o localizzata) presenterà, oltre ai sintomi della malattia di base, una serie di sintomi correlati, tra cui:

  • sensazione di cedimento muscolare,
  • sonnolenza,
  • stanchezza prolungata,
  • malessere generale,
  • intorpidimento muscolare,
  • difficoltà a sostenere gli arti,
  • talora fascicolazioni e tremori.

Diagnosi

La formulazione della diagnosi prevede un esame accurato del paziente, condotto attraverso

  • l’esame obiettivo della sua condizione ( che prevede la valutazione dell’aspetto fisico generale, nonché dello stato dei muscoli, l’esecuzione di prove di funzionalità muscolare e l’esame dei riflessi);
  • l’anamnesi, ovvero una serie di domande volte ad identificare nel dettaglio la natura della debolezza (quando è iniziata, se è insorta improvvisamente o nel corso del tempo, se è peggiorata improvvisamente negli ultimi tempi, quali muscoli colpisce, se si associa ad altri sintomi o allo svolgimento di particolari attività).

In base alla descrizione della debolezza è possibile pensare a:

  • un disturbo muscolare se la debolezza inizia nelle anche, nelle cosce o nelle spalle, le persone hanno difficoltà nello svolgimento del movimento, ma non riferiscono disturbi di sensibilità;
  • un disturbo dei nervi periferici se la debolezza inizia nelle mani e nei piedi e si associa a perdita di sensibilità.

Se l’anamnesi e l’esame obiettivo non rivelano specifiche anomalie che possano essere indicative di un disturbo al cervello, al midollo spinale, ai nervi o ai muscoli, molto probabilmente alla base della debolezza c’è una condizione di affaticamento.

A seconda del problema sospettato dal medico potranno poi essere condotti altri esami:

  • analisi del sangue (emocromo completo, misurazione degli elettroliti e della VES),
  • RMI o TC (nel sospetto di un disturbo cerebrale),
  • RMI o mielografia (nel sospetto di un disturbo del midollo spinale),
  • elettromiografia e studi di conduzione nervosa (nel sospetto di un disturbo dei nervi periferici),
  • elettromiografia, studi di conduzione nervosa, misurazione di enzimi muscolari, biopsie muscolari, test genetici (nel sospetto di un disturbo di natura muscolare).

Cura

Il trattamento è specifico e impostato in base alla causa scatenante; nel caso in cui a questo sintomo si associno difficoltà respiratorie, diventa essenziale il ricorso ad un ventilatore polmonare.

Fisioterapia e terapia occupazionale sono consigliate nelle persone con debolezza permanente o perdita di funzione muscolare per adattarsi alla propria condizione.

Qualora invece la debolezza non sia attribuibile ad una determinata e specifica patologia può comunque essere d’aiuto l’adozione di sano stile di vita, che preveda

Fonti e bibliografia

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Riso rosso fermentato contro il colesterolo

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Riso rosso fermentato: farmaco o integratore?

Il riso rosso fermentato è, come dice il nome stesso, un prodotto di fermentazione del riso ad opera di un lievito, il Monascus Purpureus: grazie all’azione di quest’ultimo il riso si arricchisce di una sostanza, la Monacolina K, dimostratasi efficace nel ridurre i livelli ematici di colesterolo.

Riso rosso fermentato raccolto da un cucchiaio di ceramica bianca

iStock.com/Hendra Su

La Monacolina K, infatti, presenta una struttura chimica sovrapponibile a quella della Lovastatina, un farmaco appartenente alla ben nota classe delle statine – medicinali di elezione per il controllo del colesterolo. Il meccanismo d’azione della Monacolina è identico a quello delle statine: agisce su un particolare enzima, l’HMG-CoA reduttasi, responsabile della sintesi endogena di colesterolo, bloccandone l’azione (e quindi diminuendo la quantità di colesterolo prodotta a livello del fegato) [1].

Struttura chimica della monacolina K

Struttura chimica della Monacolina K (perfettamente identica a quella della lovastatina), di Panoramix303Opera propria, CC BY-SA 3.0, Collegamento

L’efficacia della Monacolina K è ben nota e riconosciuta anche in ambito scientifico, tanto che l’EFSA, (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) ne ha autorizzato l’indicazione (claim) di utilità nel controllo dei livelli ematici di colesterolo, purché assunta nella dose quotidiana di 10 mg [2].

Studi clinici

L’Efsa, nel suo rapporto sulla validità dell’uso della Monacolina per il controllo dell’ipercolesterolemia, cita due studi clinici a supporto:

  • uno studio del 1999, randomizzato, in doppio cieco versus placebo, in cui a 88 persone (uomini e donne di età compresa tra 34 e 78 anni) con ipercolesterolemia, non in trattamento farmacologico, veniva somministrato riso rosso fermentato (2,4 g/die, corrispondenti in quella preparazione a 7,5 mg/die di Monacolina k) o un placebo. Al termine dello studio (12 settimane) si evidenziava una differenza significativa tra i due gruppi, sia sul colesterolo totale – diminuito del 16% nel gruppo con Monacolina – che sull’LDL – diminuito del 22% [2,6];
  • uno studio del 2005, randomizzato, in doppio cieco versus placebo, condotto su 79 individui con ipercolesterolemia, non sottoposti a trattamento farmacologico. Lo studio, della durata di 8 settimane, prevedeva la somministrazione di riso rosso fermentato (1,2 g/die, corrispondenti in quella preparazione a circa 11,4mg/die di Monacolina k) oppure di un placebo. Al termine del test, nel gruppo trattato con Monacolina k si registrava una diminuzione significativa del colesterolo LDL (26,3%) e del colesterolo totale (20,4%) rispetto al gruppo trattato con placebo. Si osservò altresì una diminuzione del 15,8% di trigliceridi e del 26% di Apolipoproteina B (coinvolta nel metabolismo dei lipidi e principale costituente di LDL e VLDL)[2,7].

Uno studio più recente, pubblicato nel 2016, ha valutato l’effetto della Monacolina k a dosi ancora più basse, pari a 3 mg die. Lo studio, randomizzato, in doppio cieco versus placebo, è stato condotto su 142 pazienti con ipercolesterolemia non trattata farmacologicamente: a metà dei soggetti è stata somministrata Monacolina K (3 mg) e acido folico (200 µg), all’altra metà un placebo. Al termine delle 12 settimane previste, si è osservata una significativa riduzione del colesterolo LDL (14,8%), del colesterolo totale (11,2%) e dell’omocisteina (12,5%) nel gruppo trattato, rispetto a quello con placebo, ove invece non ci sono stati cambiamenti significativi. Nessun effetto collaterale è stato osservato durante lo studio [8].

Effetti collaterali e controindicazioni

In generale, secondo quanto emerso dagli studi clinici pubblicati finora, le preparazioni a base di riso rosso fermentato risultano ben tollerate e raramente associate a seri effetti collaterali. Questi ultimi, quando presenti, riguardano prevalentemente

e risultano spesso sovrapponibili a quelli dei gruppi trattati con placebo [3,11].

Per quanto riguarda la dose, l’EFSA, (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) riconosce l’efficacia della Monacolina K sul controllo dei livelli ematici di colesterolo se assunta giornalmente nella dose di 10 mg [2].

Studi recenti, tuttavia, ne hanno evidenziato l’efficacia anche a dosaggio inferiore, pari a 3 mg die [8].

Il limite delle preparazioni a base di riso rosso fermentato risiede nel contenuto variabile di Monacolina k, che purtroppo non sempre corrisponde a quello dichiarato in etichetta, come dimostrato da uno studio di recente pubblicazione [10]: questa variabilità (spesso tutt’altro che trascurabile) può essere dovuta

  • alle differenti specie di Monascus,
  • al processo di fermentazione,
  • alle condizioni di conservazione, poiché la Monacolina k è sensibile all’aria e al calore [3].

La Monacolina k, comportandosi in maniera analoga alle statine di sintesi, può potenzialmente causare gli stessi effetti collaterali e interazioni con altri farmaci, come suggerito dall’American College of Cardiology [12].

In un articolo pubblicato sul British Journal of Clinical Pharmacology, un gruppo di ricercatori italiani ha raccolto tutte le reazioni avverse associabili all’utilizzo di integratori a base di riso rosso fermentato pervenute al Sistema di Sorveglianza sui prodotti di origine naturale dell’Istituto Superiore della Sanità, in un periodo di 13 anni, tra il 2002 e il 2015 [9]. Nello studio sono state documentate 55 reazioni avverse, consistenti in:

  • dolori muscolari (19 casi),
  • rabdomiolisi, ossia rottura delle cellule muscolari (1 caso),
  • problemi gastrointestinali (12 casi),
  • danni epatici (10 casi),
  • rash cutaneo (9 casi),
  • altri effetti (4 casi).

La correlazione con il riso rosso fermentato è risultata

  • certa in 1 caso,
  • probabile in 31 casi,
  • possibile in 18 casi,
  • incerta o improbabile nei restanti casi.

Delle 55 reazioni avverse, 28 provenivano da pazienti che facevano uso contemporaneo di altri farmaci o integratori, quindi non è escluso l’effetto combinato di più medicamenti/integratori anche nella manifestazione degli effetti indesiderati.

Tutto ciò per ricordare che naturale non significa innocuo e il riso rosso fermentato non fa eccezione. L’invito resta sempre quello di informarsi e consultare il farmacista o il proprio medico curante.

Riso rosso e riso rosso fermentato…

…non sono la stessa cosa! Il riso rosso fermentato è, come già descritto, il prodotto di fermentazione del riso bianco cotto al vapore ad opera del lievito rosso Monascus Purpureus.

Il riso rosso, invece, è una qualità di riso integrale originario delle regioni asiatiche che presenta qualità nutrizionali degne di nota:

  • è più ricco in proteine rispetto al riso bianco lavorato (caratteristica peraltro comune a tutti i risi integrali),
  • è ricco di fibre,
  • è ricco di polifenoli ad azione antiossidante e antinfiammatoria,
  • è ricco di ferro: ne contiene fino a 20 volte di più rispetto al riso lavorato ed è per questo che rappresenta un ottimo alleato in gravidanza,
  • è ricco di magnesio, minerale utile nel rilassamento muscolare e per la motilità intestinale: per questo è particolarmente indicato per chi soffre di colite e infiammazioni a livello dell’intestino.

A differenza del riso bianco, e come tutti i risi non lavorati, il riso rosso integrale mantiene intatto il contenuto di nutrienti (vitamine e oligoelementi) concentrati nel germe.

Curiosità

Il riso rosso fermentato è un prodotto alimentare ben noto in molte regioni asiatiche, tra cui Cina e Giappone in primis, dove viene utilizzato da più di mille anni (le prime testimonianze risalgono all’VIII secolo) sia come cibo, che come spezia, che come medicinale. Il noto medico farmacologo Li Shizen, vissuto all’epoca della dinastia Ming (1368-1644), riporta nei suoi scritti che l’Hongqu (nome cinese del riso rosso fermentato) promuove la digestione e la circolazione del sangue ed è in grado di sostenere l’azione di stomaco e milza [3,4].

La scoperta della Monacolina K e del suo effetto farmacologico sulla riduzione del colesterolo risalgono al 1979, ad opera di un professore giapponese, il dott. Akira Endo, studioso di funghi e lieviti. Da questa scoperta derivò tutta la classe delle statine, i farmaci ancora oggi di prima scelta nel trattamento dell’ipercolesterolemia [3,5].

Fonti e bibliografia

  1. Humanitas Research – Riso Rosso fermentato
  2. Scientific Opinion on the substantiation of health claims related to monacolin K from red yeast rice and maintenance of normal blood LDL cholesterol concentrations (ID 1648, 1700) pursuant to Article 13(1) of Regulation (EC) No 1924/2006 EFSA Panel on Dietetic Products, Nutrition and Allergies (NDA), First published: 28 July 2011
  3. Herbs and Natural Supplements-4th ed
  4. J Agric Food Chem 48.11 (2000): 5220–5. Constituents of red yeast rice, a traditional Chinese food and medicine. Ma J, Li Y, Ye Q, Li J, Hua Y, Ju D, Zhang D, Cooper R, Chang M.
  5. J Antibiot (Tokyo) 33.3 (1980): 334–6. Monacolin K, a new hypocholesterolemic agent that specifically inhibits 3-hydroxy-3-methylglutaryl coenzyme A reductase. Endo A.
  6. Am J Clin Nutr. 1999 Feb;69(2):231-6. Cholesterol-lowering effects of a proprietary Chinese red-yeast-rice dietary supplement. Heber D, Yip I, Ashley JM, Elashoff DA, Elashoff RM and Go VL.
  7. Eur J Endocrinol. 2005 Nov;153(5):679-86 Efficacy and safety of Monascus purpureus Went rice in subjects with hyperlipidemia. Lin CC, Li TC and Lai MM.
  8. Nutr Res. 2016 Oct;36(10):1162-1170. Low daily dose of 3 mg monacolin K from RYR reduces the concentration of LDL-C in a randomized, placebo-controlled intervention. Heinz T, Schuchardt JP, Möller K, Hadji P, Hahn A.
  9. British Journal of Clinical Pharmacology, Volume83, Issue4, April 2017 Adverse reactions to dietary supplements containing red yeast rice: assessment of cases from the Italian surveillance system G. Mazzanti, P. A. Moro, E. Raschi, R. Da Cas, F. Menniti‐Ippolito
  10. J Pharm Biomed Anal. 2014 Nov;100:243-253. Chemical profiling and quantification of monacolins and citrinin in red yeast rice commercial raw materials and dietary supplements using liquid chromatography-accurate QToF mass spectrometry: Chemometrics application. Avula B, Cohen PA, Wang YH, Sagi S, Feng W, Wang M, Zweigenbaum J, Shuangcheng M, Khan IA.
  11. Chin Med. 2006 Nov 23;1:4. Chinese red yeast rice (Monascus purpureus) for primary hyperlipidemia: a meta-analysis of randomized controlled trials. Liu J et al.
  12. J Am Coll Cardiol. 2005 Jul 5;46(1):184-221. Integrating complementary medicine into cardiovascular medicine: a report of the American College of Cardiology Foundation Task Force on clinical expert consensus documents (Writing Committee to develop an expert consensus document on complementary and integrative medicine). Vogel JH et al.

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Empiema pleurico: cause, sintomi e cura

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Cos’è l’empiema

Empiema è un termine medico che indica una raccolta di materiale purulento (cioè contenente pus), all’interno di una cavità pre-formata. Si differenzia dall’ascesso, che si sviluppa all’interno di una cavità neo-formata, ossia di nuova formazione.

È possibile osservare la formazione di un empiema in diverse regioni anatomiche, come a livello dell’utero, appendice, meningi, articolazioni e colecisti, ma la zona in cui si riscontra più frequentemente è a livello della cavità pleurica, identificandosi come empiema pleurico (il sottile spazio compreso tra le due membrane che avvolgono i polmoni).

Si tratta tipicamente della conseguenza di un’infezione batterica non curata o che non risponde adeguatamente alla terapia al trattamento. L’empiema è una condizione grave, che richiede un tempestivo intervento medico;  a livello pleurico può causare

L’empiema, è una patologia rara, che si sviluppa soprattutto in ospedale in seguito a una polmonite o a un intervento chirurgico. Poiché è una malattia che può comportare delle conseguente irreversibili, è importante che venga gestita da un team multidisciplinare. La chiave è il trattamento precoce. Tuttavia, la risoluzione completa può richiedere diversi mesi e, in alcuni casi, è necessario l’intervento chirurgico.

Occasionalmente può diventare pericoloso per la vita, ma fortunatamente non è una condizione comune perché la maggior parte delle infezioni viene efficacemente trattata con antibiotici prima di evolvere a questo stadio.

Cause

I polmoni e l’interno della cavità toracica sono rivestiti da uno strato liscio denominato pleura, una membrana formata da due foglietti adesi rispettivamente a polmone e gabbia toracica; questi strati sono separati da uno spazio sottile, lo spazio pleurico, riempito di una piccola quantità di liquido lubrificante che permette il movimento dei polmoni durante l’ispirazione e l’espirazione, ossia il liquido pleurico.

Rappresentazione grafica dello spazio pleurico

iStock.com/medicalstocks

È proprio quest’ultimo che, in specifiche condizioni, può infettarsi e formare delle vere e proprie raccolte di pus (empiema), che alla lunga possono aumentare di volume impedendo ai polmoni di espandersi completamente.

Tra le cause più comuni c’è la polmonite, secondaria il più delle volte a un’infezione batterica; i patogeni più frequentemente coinvolti sono Streptococcus pneumoniae e Staphylococcus aureus. L’empiema fungino è raro ma è associato ad alta mortalità e il fungo maggiormente coinvolto è la specie Candida.

L’empiema è in ogni caso una complicanza poco frequente, che si verifica solo nel caso in cui il trattamento medico non risulti essere efficace.

Tra le altre possibili cause ricordiamo:

  • bronchiectasie (dilatazioni irreversibili delle vie aeree che alla lunga portano ad un accumulo di muco in grado di rendere i polmoni maggiormente vulnerabili alle infezioni),
  • chirurgica toracica (rara complicanza in seguito a intervento chirurgico),
  • propagazione per via ematica (sangue) o linfatica (sistema linfatico),
  • perforazione dell’esofago (il canale che permette il passaggio del cibo dalla gola allo stomaco),
  • tubercolosi.

Tra i fattori di rischio più importanti ricordiamo:

L’empiema può svilupparsi sia negli adulti che nei bambini.

Sintomi

La presentazione clinica dell’empiema può essere molto simile a quella della polmonite e possono quindi essere presenti

  • tosse con muco abbondante,
  • febbre e brividi,
  • sudorazione notturna,
  • dispnea,
  • senso di affaticamento generale,
  • dolore toracico di tipo pleuritico (dolore molto intenso accentuato con i colpi di tosse).

Spesso però questi sintomi hanno durata più prolungata rispetto alla polmonite.

Complicanze

Le complicanze sono rare e associate tipicamente alla fase cronica della malattia:

  • Fibrotorace: formazione di fasci di fibrina che impediscono al polmone di espandersi. Ne conseguente una difficoltà respiratoria da parte del paziente.
  • Fistola bronco-pleurica: il materiale purulento può raggiungere i bronchi nel caso in cui si formi un canale di comunicazione patologico (fistola); dev’essere trattata tempestivamente.
  • Empiema necessitatis: coinvolge la parete toracica e può portarsi a livello della cute.
  • Disseminazione sistemica: può coinvolgere le strutture adiacenti e diffondersi nel sangue con sviluppo di pericardite o ascessi a livello del mediastino.

Diagnosi

A causa della mancanza di specificità della presentazione clinica, sono necessari ulteriori test per stabilire una corretta diagnosi dell’empiema.

Il primo esame che viene effettuato è una radiografia del torace. È un test ampiamente disponibile e semplice da effettuare, ma purtroppo non sensibile al 100%. La quantità di liquido presente dev’essere abbondante per poter essere apprezzato visivamente con questa tecnica, che comunque non è in grado di distinguere l’empiema da un versamento pleurico non infetto.

Il passaggio successivo è l’utilizzo dell’ecografia, un esame semplice da utilizzare e non invasivo che può avere un uso anche terapeutico nel caso in cui fosse necessaria una toracocentesi (tecnica che permette di evacuare liquido dalla cavità pleurica).

Il passo successivo è una TC del torace, che ha una sensibilità e una specificità tali da poter far diagnosi in quasi tutti i pazienti. Spesso viene utilizzata con mezzo di contrasto per poter localizzare meglio la lesione.

Dopo la toracocentesi, che permette di prelevare il liquido pleurico mediante l’inserimento di un ago tra la VI e VII costa, il fluido ottenuto dev’essere inviato in laboratorio per poter essere analizzato.

Stadiazione

L’empiema pleurico, se non trattato precocemente, ha una mortalità elevata. L’ATS (American Thoracic Society) ha descritto 3 fasi nel decorso naturale dell’empiema:

  1. Stadio I (fase essudativa): fase acuta, dura circa 1 settimana. Il liquido pleurico è a bassa viscosità. L’espansione del polmone non è compromessa.
  2. Stadio II (fase fibrino-purulenta): fase intermedia, dura circa 1 settimana. Il liquido pleurico diventa torbido e viscoso. Formazione di fibrina che compromette parzialmente l’espansibilità polmonare.
  3. Stadio III (fase organizzativa): fase cronica, dopo la terza settimana. Abbondante materiale purulento con espansibilità polmonare fortemente compromessa.

Cura

La terapia dipende dalla causa e dallo stadio della malattia: essendoci un’importante infezione in corso il trattamento antibiotico dev’essere iniziato il prima possibile, inizialmente con farmaci ad ampio spettro (che possano coprire un maggior numero di microrganismi patogeni) come meticillina o clindamicina, poi mirati,sotto la guida dei risultati ottenuti attraverso gli esami microbiologici.

Gli antibiotici devono esser somministrati per un periodo di 2-6 settimane, in base alla clinica del paziente.

Il passo successivo è l’utilizzo di un drenaggio toracico, che permetta la fuoriuscita del liquido purulento. La posizione del drenaggio dev’essere confermata mediante ecografia o TC.

Dato che la progressione dell’empiema porta alla formazione di fasci di fibrina che riducono l’espansione polmonare, sono stati somministrati, per via intrapleurica, farmaci fibrinolitici come urochinasi, streptochinasi e l’attivatore tissutale del plasminogeno, con scarsi risultati dato che i rischi si sono rivelati più alti dei benefici: alcuni pazienti hanno sviluppato reazioni avverse tra cui allergie, emorragie e shock.

Solitamente, l’intervento chirurgico viene eseguito quando il drenaggio toracico non risulta efficace. L’intervento è la cosiddetta VATS, ossia una toracoscopia video assistita. È una procedura poco invasiva, che riduce la degenza ospedaliera e la mortalità a 30 giorni.

Dopo il trattamento della fase acuta alcuni pazienti sviluppano sintomi quali dispnea e intolleranza all’esercizio fisico, secondari alla fibrosi e alla restrizione polmonare. In questi casi è necessario una decorticazione pleurica con rimozione delle pleura viscerale, che permette al polmone di espandersi nuovamente.

Fonti e bibliografia

L'articolo Empiema pleurico: cause, sintomi e cura proviene da Farmaco e Cura.

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