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Alveolite dentale (o secca): cause, sintomi e cura

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Introduzione

L’alveolite dentale, detta anche alveolite post-estrattiva o alveolite secca, è un’infiammazione dell’alveolo, ossia la cavità in cui risiedono le radici dei denti. È una delle varie complicanze che si possono verificare dopo l’estrazione di un dente, a causa di un’alterazione della coagulazione del sangue e, di conseguenza, di un’anomalia del processo di guarigione locale.

È una patologia rara, con un’incidenza variabile dall’1-4% e con un picco massimo nel caso in cui il dente interessato risulti essere il terzo molare, ossia il dente del giudizio.

I segni e i sintomi di alveolite iniziano dai due ai quattro giorni dopo l’estrazione del dente e includono:

  • dolore locale intenso che si irradia principalmente all’orecchio e al collo,
  • arrossamento e gonfiore gengivale,
  • alitosi;

nei casi più gravi possono comparire anche

La terapia consiste nell’eliminazione da parte dell’odontoiatra di eventuali depositi in corrispondenza dell’alveolo e l’utilizzo di antisettici locali, in associazione a

  • una corretta igiene orale da parte del paziente,
  • un utilizzo di analgesici e antinfiammatori per via sistemica.
Paziente sul lettino del dentista che si tocca la guancia a causa del dolore

iStock.com/fotostorm

Cause

Le cause responsabili dell’alveolite sono in gran parte sconosciute, ma si ritiene che si verifichi quando il processo di coagulazione nel sito di estrazione del dente non si sviluppi correttamente o quando il coagulo si dissolva prima che la ferita sia guarita, forse a causa di contaminazioni batteriche o traumi.

A seguito dell’intervento di estrazione s’innesca di norma un processo di coagulazione (come per ogni ferita) con funzione di protezione delle strutture sottostanti (ossa, terminazioni nervose, …); se qualcosa in questa fase non procede correttamente i tessuti rimangono esposti all’accumulo di detriti alimentari ed altro materiale, il tessuto s’infiamma e causa la comparsa dei sintomi dell’alveolite.

 

Questa condizione è la complicazione più comune dell’estrazioni dentarie, come la rimozione dei denti del giudizio.

Sono inoltre stati individuati diversi fattori in grado di contribuire allo sviluppo della malattia:

  • Traumi e difficoltà durante l’estrazione del dente, associati ad una ridotta esperienza chirurgica da parte dell’operatore, possono aumentare la risposta infiammatoria.
  • Terzo molare mandibolare: una densità ossea maggiore insieme a una ridotta vascolarizzazione, rendono i denti del giudizio tra i più suscettibili a sviluppare questa patologia.
  • Malattie sistemiche: pazienti immunocompromessi, come i pazienti diabetici per esempio, sono maggiormente a rischio.
  • Contraccettivi orali: gli estrogeni contenuti all’interno del farmaco sembrano poter aumentare la lisi del coagulo.
  • Fumo: c’è una forte correlazione tra fumo e alveolite dentale. È stata inoltre segnalata una relazione dose-dipendente tra il fumo e l’insorgenza della malattia. Questo potrebbe essere dovuto alla presenza di sostanze contenute nella sigaretta, come la nicotina, che riducono la disponibilità di ossigeno, alterando il sito chirurgico e favorendo lo sviluppo della patologia.
  • Insufficiente igiene orale: numerosi studi sostengono tale ipotesi, sulla base del fatto che  spesso questi pazienti presentano infezioni batteriche preesistenti come una pericoronite o una malattia parodontale avanzata. Sono stati isolati e identificati alcuni microrganismi responsabili, tra cui Actinomyces viscosus, Streptococcus mutans e Treponema denticola, rallentando il processo di guarigione.
  • Età del paziente: la letteratura sostiene che più il paziente è anziano, maggiore è il rischio di sviluppare alveolite. Uno studio sostiene che la rimozione dei terzi molari mandibolari dovrebbe essere effettuata prima dei 24 anni, specialmente nelle pazienti di sesso femminile, dato che con l’età il rischio di complicanze postoperatorie aumenta notevolmente.
  • Pregresse alveoliti: c’è un rischio maggiore qualora in passato vi siano stati episodi simili.
  • La radioterapia diretta alle ossa mascellari e mandibolari provoca numerosi cambiamenti nel tessuto, con conseguente riduzione dell’afflusso di sangue e aumentato rischio di sviluppare successivamente l’alveolite dentale.

Sintomi

I sintomi dell’alveolite compaiono solitamente entro pochi giorni dall’estrazione di un dente, in seguito alla perdita parziale o totale del coagulo di sangue.

Il dolore risulta intenso e persistente, soprattutto durante le ore notturne; se inizialmente è localizzato, successivamente tende ad irradiarsi all’orecchio, alla tempia, laddove decorre il nervo trigemino, all’occhio e lungo il collo.

Talvolta la cavità alveolare risulta essere vuota e secca (da qui anche il nome di alveolite secca) con l’osso ben visibile. Le aree limitrofe risulteranno arrossate e gonfie (edematose).

Associati a questi il paziente può inoltre lamentare alitosi e una sgradevole sensazione in bocca da parte del paziente.

Seppur in un numero inferiore di casi, può svilupparsi anche

  • febbre
  • e linfoadenopatia laterocercivale, ossia un ingrossamento dei linfonodi locoregionali.

Diagnosi

La diagnosi di alveolite dentale si basa principalmente sulla clinica e di conseguenza sulla sintomatologia del paziente, seguita da un’attenta ispezione del cavo orale da parte dello specialista.

Un aspetto importante da valutare nel poter differenziare l’alveolite da altre patologie simili è il timing di inizio dei sintomi, che solitamente si presentano dai 2 ai 4 giorni dopo l’intervento, al massimo entro una settimana. All’ispezione la gengiva circostante l’alveolo appare arrossata, gonfia, solo raramente è presente secrezione purulenta.

Dopo l’aspirazione del materiale sovrastante, derivante da residui alimentari e responsabile dell’alitosi, l’incavo si presenta vuoto. Alla palpazione il dolore evocato risulta essere molto intenso.

Diagnosi differenziale

Non sempre la clinica è sufficiente per formulare una diagnosi corretta; in tal caso è necessario ricorrere ad una radiografia, essendo in grado di distinguere i diversi problemi odontoiatrici. In particolare, si può ricorrere all’utilizzo di una radiografia periapicale che permette di individuare numerose anomalie tra cui cisti, granulomi o ascessi oppure ad una radiografia panoramica (ortopantomografia) che fornisce una visione più ampia su arcate dentarie superiori e inferiori e sulle ossa mascellari e mandibolari.

L’aveolite dentale può mimare, talvolta, un quadro di osteomielite; quest’ultima è tuttavia spesso accompagnata da febbre ed essudato purulento, che raramente si riscontrano nell’alveolite e necessiterà di trattamento antibiotico. Una radiografia permetterà di sciogliere ogni dubbio. Tende, inoltre, ha svilupparsi più tardivamente.

Da escludere anche la presenza di un eventuale ascesso, sviluppatosi per la presenza di un residuo radicolare all’interno dell’alveolo.

Cura e rimedi

Non esiste un trattamento specifico, che di conseguenza risulta essere sintomatico e basato sulla gestione del dolore.

In associazione alla somministrazione orale di antinfiammatori e antidolorifici, che tuttavia sono in grado di fornire sollievo solo temporaneo; possono risultare utili medicazioni costituite da garze sterili da apporre nella zona alveolare coinvolta, contenenti eugenolo, ossido di zinco e pasta iodoformica. È stato dimostrato che seppur queste sostanze possano allungare i tempi di guarigione, essendo considerate dal nostro organismo come sostanza estranee, sono molto importanti per alleviare il dolore.

Altri autori consigliano in alternativa il ricorso a lavaggi frequenti con soluzione fisiologica, rifamicina o clorexedina in modo tale da mantenere pulita l’area infiammatoria coinvolta.

Prevenzione

Poiché l’alveolite dentale risulta essere la complicanza postoperatoria più comune dopo un’estrazione, sono state valutate diverse opzioni in modo da trovare un metodo di prevenzione efficace. Sono stati proposti e valutati numerosi metodi e tecniche, ma nonostante ciò rimane un argomento molto controverso, in quanto nessun singolo approccio ha ottenuto un’accettazione universale da parte della comunità medica.

  • Nei giorni che precedono l’intervento riveste una grande importanza mantenere un’adeguata igiene orale, attraverso risciacqui con collutori o gel a base di clorexidina. Questa procedura dev’essere continuata anche nel post-operatorio.
  • Nei soggetti che assumono farmaci anticoagulanti ne viene consigliata la sospensione nei giorni in prossimità e quelli successivi all’intervento (previo parere medico ed eventuale sostituzione con diversa terapia).
  • Nel post-operatorio si raccomanda di evitare di fumare, perché il fumo riduce l’afflusso di sangue provocando ischemia tissutale, ridotta perfusione e un maggior rischio di alveolite dentale.
  • Evitare l’assunzione di liquidi caldi nelle successive 24-48 ore, in quanto potenziale causa di aumento del flusso sanguigno locale e interferenza con l’organizzazione del coagulo; al contrario sono quindi consigliate bevande e i cibi freddi, che ne favoriscono la formazione.
  • Evitare azione energiche, come bere da una cannuccia, sputare o fare gargarismi, in quanto in grado di creare una pressione negativa nel cavo orale rendendo il coagulo più fragile.
  • Masticare dal lato opposto a quello del trattamento e cercare di utilizzare spazzolini a setola morbida.

Seppure semplici nella sostanza, si tratta di accorgimenti in grado di fare la differenza e ridurre drasticamente il rischio di sviluppo dell’alveolite dentale, una patologia rara e non grave che si può risolvere, se trattata correttamente, nel giro di alcuni giorni o di qualche settimana.

Fonti e bibliografia

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Angiografia: a cosa serve, come funziona, rischi

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Cos’è l’angiografia?

L’angiografia è un esame radiologico che permette l’acquisizione di immagini delle arterie, ossia i vasi che portano il sangue dal cuore ai tessuti, attraverso l’utilizzo di radiazioni ionizzanti, come una radiografia.

Poiché i vasi sanguigni non si vedrebbero in modo sufficientemente chiaro con una tradizionale radiografia, nel caso dell’angiografia si procede all’iniezione di uno speciale colorante (mezzo di contrasto) per evidenziarli e consentirne così lo studio al medico.

Immagine del risultato dell'angiografia cerebrale

iStock.com/utah778

A cosa serve?

L’angiografia permette di:

  • evidenziare occlusioni vasali che impediscono il normale flusso sanguigno, i casi più frequenti comprendono l’occlusione di
  • studiare la perfusione degli organi (come avviene per l’angiografia renale),
  • valutare la vascolarizzazione dei tumori,
  • cercare l’origine di un’emorragia, come nel caso dell’aneurisma cerebrale.

I vantaggi e l’angiografia interventistica

Il maggior vantaggio dell’angiografia oggi è rappresentato dalla possibilità di effettuare, dopo aver individuato il problema, interventi terapeutici endovascolari, mirati alla risoluzione della patologia, durante lo svolgimento dell’esame stesso.

Questo tipo di approccio, chiamato angiografia interventistica, rappresenta oggi l’applicazione più comune di questo esame (poiché ai fini diagnostici si preferisce in genere l’uso di angio-TAC o angio-RM) e permette interventi terapeutici di diversa natura:

  • Posizionamento di uno stent, una piccola protesi di metallo che permette la ricanalizzazione di un vaso occluso da una placca aterosclerotica.
  • Posizionamento di protesi per la terapia di aneurismi.
  • Blocco di sanguinamenti in atto tramite procedure di embolizzazione.
  • Fibrinolisi locale che permette di sciogliere eventuali trombi e/o emboli.

Quali tipi esistono?

Esistono diversi tipi di angiografia, che prendono il nome del distretto studiato:

  • angiografia coronarica o coronarografia (cuore),
  • angiografia cerebrale (cervello),
  • angiografia polmonare (polmoni),
  • angiografia renale (reni).

Preparazione all’esame

Prima di poter accedere all’esame è necessario valutare la salute renale con alcuni esami del sangue (come la creatininemia), sulla base della necessità di ricorrere all’iniezione del mezzo di contrasto.

Per sottoporsi all’esame angiografico è poi necessario:

  • Essere a digiuno da almeno 8 ore, mentre è possibile bere.
  • Informare il personale sanitario dell’eventuale assunzione di anticoagulanti.
  • Informare il personale sanitario di eventuali allergie.
  • Informare il personale sanitario di eventuali patologie renali.
  • Togliere gioielli.
  • Svuotare la vescica.

Come avviene l’esame?

Generalmente lo studio angiografico viene condotto a paziente sveglio, mentre è possibile valutare un’anestesia generale nel caso di pazienti meno collaborativi (come i bambini).

L’esame è effettuato utilizzando un mezzo di contrasto che viene iniettato nel distretto vascolare obiettivo dello studio; quando il distretto sia di semplice accesso il mezzo di contrasto viene iniettato per puntura diretta, mentre quando ciò non risulti possibile (per esempio durante una coronarografia) si ricorre al cateterismo.

La procedura per il cateterismo inizia con la tricotomia se necessaria (cioè la rimozione dei peli), viene quindi effettuata una piccola incisione, dopodiché si punge il vaso così da potervi inserire un tubicino che verrà guidato dal medico fino al distretto da esaminare, dove sarà iniettato il mezzo di contrasto.

Generalmente l’arteria utilizzata per il cateterismo è l’arteria femorale, un vaso localizzato a livello dell’inguine, o in alternativa l’arteria radiale al polso od omerale del braccio.

A questo punto vengono acquisite le immagini radiografiche e, al termine della procedura, il medico rimuoverà il catetere, qualora fosse presente, e la sede dell’incisione varrà chiusa per compressione (senza necessità di punti di sutura).

L’esame viene effettuato in anestesia locale così da renderlo indolore.

Quanto dura l’angiografia?

L’angiografia è un esame di breve durata, che può variare dai 30 minuti alle 2 ore circa.

Recupero e convalescenza

Il paziente viene poi trattenuto per qualche ora per assicurarsi che non vi siano complicanze e solo in alcuni casi è necessario passare la notte in ospedale. È consigliabile che ci sia un accompagnatore per il ritorno a casa.

Prima di riprendere le normali attività quotidiane in genere viene richiesto al paziente un riposo di 12 ore, mentre è consigliabile riprendere a bere non appena possibile per favorire l’eliminazione del mezzo di contrasto attraverso le urine.

Fa male?

L’angiografia non è un esame doloroso.

Il fastidio percepibile è correlato a:

  • lieve sensazione di calore avvertita durante l’iniezione del mezzo di contrasto,
  • lieve sensazione dolorosa a livello dell’incisione al termine dell’effetto dell’anestesia.

Potrebbe persistere una lieve sensazione di fastidio per qualche giorno.

Rischi e pericoli

L’angiografia è generalmente considerata una procedura molto sicura, sebbene esistano possibili effetti collaterali minori piuttosto comuni e ci sia un piccolo rischio di complicazioni più gravi.

La procedura verrà eseguita solo se si ritiene che i vantaggi giustifichino gli eventuali rischi.

I rischi dell’esame angiografico sono legati a

  • inserimento del catetere, che può causare:
    • sanguinamenti e infezioni,
    • trombosi,
    • lesioni dei vasi sanguigni;
  • mezzo di contrasto, che può causare:
    • danni renali (in pazienti già affetti da malattie renali o diabete),
    • reazione allergica potenzialmente grave (anafilassi).

A seguito dell’esame si raccomanda di rivolgersi al medico o al Pronto Soccorso nel caso di:

  • sanguinamento che non si ferma dopo aver applicato una leggera pressione per alcuni minuti,
  • dolore importante,
  • comparsa di segni d’infezione (rossore, calore, gonfiore),
  • insorgenza di dolore al petto e/o mancanza di fiato,
  • comparsa di segni anomali (pallore, arto freddo, …).

Chi non può sottoporsi all’angiografia?

L’angiografia espone il paziente a radiazioni ionizzanti, motivo per il quale è altamente controindicata nelle donne in gravidanza.

Qualora si rendesse necessario lo studio dei vasi sanguigni in gravidanza, è consigliata l’esecuzione di un’angio-RM.

Angio-TC e angio-RM

L’esame angiografico a scopo puramente diagnostico oggi viene più comunemente effettuato utilizzando:

  • La tomografia computerizzata (Angio-TAC) che, come l’angiografia tradizionale, sfrutta per l’acquisizione delle immagini le radiazioni ionizzanti, ma in quantità inferiori. Il mezzo di contrasto utilizzato viene iniettato per via endovenosa e non endoarteriosa (per cui la procedura risulta meno invasiva).
  • La risonanza magnetica (Angio-RM), sfrutta per l’acquisizione delle immagini la polarità di un campo magnetico e dunque non espone il paziente a radiazioni ionizzanti. Il mezzo di contrasto utilizzato presenta una tossicità inferiore rispetto a quello usato per l’angiografia tradizionale e viene iniettato per via endovenosa e non endoarteriosa (per cui la procedura risulta meno invasiva)

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Depersonalizzazione e derealizzazione: sintomi, cause e cura

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Introduzione

Il Disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione fa parte dei disturbi dissociativi, un gruppo di malattie accomunate dall’alterazione dell’esperienza soggettiva, molto spesso in seguito ad un trauma o uno stress acuto (abusi, violenze, incidenti, catastrofi naturali).

In particolare i disturbi dissociativi sono caratterizzati da una vera e propria sconnessione delle funzioni cerebrali di:

  • coscienza di sé e dell’ambiente circostante,
  • senso di identità,
  • rappresentazione corporea,
  • controllo motorio e del comportamento,
  • memoria,
  • emotività,
  • percezione.

Per quanto riguarda la depersonalizzazione/derealizzazione la disregolazione riguarda:

  • esperienza del sé o di parti del sé: depersonalizzazione,
  • esperienza dell’ambiente circostante: derealizzazione.

La persona si sente sconnessa dalle proprie sensazioni o dal mondo esterno provando un senso di irrealtà, estraneità, stranezza, profondo distacco (ad esempio osserva le proprie azioni dall’esterno, come in un sogno, si sente un automa, sente che il corpo o le emozioni non gli appartengano).

iStock.com/image_jungle

Prognosi

In molti casi i sintomi del disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione spariscono spontaneamente, ma in alcune circostanze possono divenire angoscianti o compromettere l’affettività e i rapporti interpersonali e sociali di chi ne soffre.

Nei casi severi la mancanza di connessione con sé e con gli altri, l’appiattimento dell’affettività e la sensazione generale di mancanza di risonanza con la vita provoca una profonda sofferenza fino allo sviluppo di pensieri di suicidio.

È fondamentale rifiutare l’idea di non poter chiedere aiuto, perché questo non fa altro che aumentare la sensazione di intensa solitudine.

Prevalenza e decorso

La prevalenza, ossia il numero di casi nella popolazione generale, del disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione è del 2%, distribuita in egual misura fra femmine e maschi.

In realtà quasi la metà degli adulti ha provato una volta nella vita almeno un episodio transitorio di depersonalizzazione o derealizzazione, ad esempio si è sentito un osservatore esterno mentre faceva qualcosa da solo o con altre persone.

D’altra parte la presenza dei sintomi completi che permettono di fare diagnosi è più rara rispetto a quelli passeggeri.

L’esordio del disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione può essere improvviso oppure più graduale e mediamente avviene intorno ai 16 anni, anche se esistono casi di insorgenza in infanzia.

Meno frequente è l’esordio dopo i 20 anni e molto raro oltre i 40 anni.

Per quanto riguarda il decorso del disturbo può avvenire in diversi modi, in particolare gli episodi possono essere:

  • separati gli uni dagli altri,
  • continui fin dall’esordio,
  • dapprima episodici per poi diventare continui (alcune persone non ricordano una fase della propria vita libera dai sintomi).

I tre casi sono tutti diffusi con la stessa probabilità fra i pazienti interessati dalla condizione.

Cause

Le cause del disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione sono molto spesso i traumi e gli stress acuti. Esistono poi alterazioni biochimiche nel cervello, predisposizione familiare alla malattia e fattori precipitanti.

  • Traumi e stress acuti: Esiste una chiara associazione fra traumi infantili (abusi emotivi, fisici, violenze, essere testimoni di violenze domestiche, crescere con un genitore gravemente malato di mente, morte inaspettata o suicidio di una persona cara) e sintomi dissociativi i quali spesso si manifestano in seguito. Ad esempio, nel disturbo da stress post-traumatico si hanno dei sintomi dissociativi come amnesia (perdita di memoria), flashback e depersonalizzazione/derealizzazione. I sintomi dissociativi di per sé non sono risposte “anormali”; sono infatti meccanismi di difesa e di sopravvivenza di fronte ai pericoli, che si attivano nel tentativo di adattarsi al trauma e superare l’ansia. La situazione diventa patologica quando i sintomi sono generalizzati, cioè perdurano oltre il trauma o si manifestano in assenza del pericolo.
  • Disregolazione dei circuiti cerebrali: si assiste alla modifica di alcun circuiti e attività del cervello (asse ipotalamo-ipofisi-surrene, lobo parietale inferiore, corteccia prefrontale e sistema limbico).
  • Fattori comportamentali. Possono favorire la negazione della realtà e lo sviluppo di adattamenti non adeguati:
    • tendenza all’evitamento,
    • difese del sé immaturo (meccanismi di idealizzazione, svalutazione o proiezione),
    • tendenza alla “disconnessione” (a causa dell’inibizione emotiva dovuta a trauma, abuso, trascuratezza e deprivazione in infanzia),
    • tendenza all’“iperconnessione” (dipendenza, vulnerabilità).
  • Fattori precipitanti che possono peggiorare il disturbo:
  • Droghe. Nel 15% dei casi di depersonalizzazione/derealizzazione i sintomi sono scatenati in maniera specifica da:
    • THC (tetraidrocannabinolo),
    • allucinogeni,
    • ketamina,
    • MDMA (3,4-metilenediossimetamfetamina “ectasy”),
    • salvia divinorum (pianta psicoattiva allucinogena).

Sintomi

I sintomi del disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione sono particolarmente invalidanti, poiché vissuti come delle intrusioni non volute e improvvise

  • nei pensieri,
  • nelle percezioni,
  • nel comportamento

della persona e che hanno come effetto l’interruzione della continuità dell’esperienza soggettiva.

Non ci sono prove di una distinzione netta fra chi ha sintomi predominanti di depersonalizzazione e chi di derealizzazione, si possono presentare entrambe o singolarmente.

I sintomi consistono in episodi persistenti e ricorrenti di:

  • Depersonalizzazione: esperienza distorta, di irrealtà, di estraneità e distacco dal sé o da parti del sé, dal corpo o da parte del corpo. Questa definizione comprende:
    • frammentazione del senso di identità,
    • distacco dalla propria mente, da se stessi o dal proprio corpo (“Non sono nessuno”; “So di avere delle emozioni ma non le sento”; “I miei pensieri non sembrano appartenermi”; “Il braccio non è mio”),
    • diminuita consapevolezza delle proprie azioni (sentirsi degli automi, robotici, non riuscire a controllare i movimenti e le proprie parole),
    • ottundimento emotivo o fisico,
    • ricordi alterati o difficoltà a sentirsi il protagonista degli stessi,
    • perdita della memoria (amnesia),
    • sensazione di un sé diviso fino ai casi estremi di “esperienze extracorporee” nelle quali una parte è l’osservatore della scena e l’altra parte è la protagonista.
  • Derealizzazione: esperienza distorta, di irrealtà, di estraneità e distacco dal mondo esterno, dalle persone e dagli oggetti, come se ci si sentisse dentro una bolla, dietro a un velo o un vetro che dividono la persona dal resto. L’ambiente è percepito come:
    • irreale,
    • onirico,
    • nebbioso,
    • inanimato,
    • senza colori,
    • artificiale,
    • deformato.

    Possono presentarsi distorsioni della percezione:

    • temporale (tempo o troppo veloce o troppo lento),
    • visiva (aumento o restringimento del campo visivo, bidimensionalità, dimensioni alterate e così via),
    • uditiva (udire voci, suoni silenziati o amplificati),
    • tattile.

Altri sintomi accompagnatori possono essere:

  • sintomi fisici vaghi:
    • ovattamento/pesantezza/pienezza alla testa,
    • formicolio,
    • stordimento;
  • preoccupazioni ossessive, come controllare ripetutamente le proprie percezioni per essere sicuri siano reali,
  • ansia,
  • depressione.

Negli episodi di depersonalizzazione/derealizzazione l’esame di realtà rimane integro, cioè la persona conserva le capacità di distinguere ciò che sta provando da quello che è reale (a differenza dei disturbi psicotici nei quali questa consapevolezza manca).

Nonostante questa apparente “lucidità”, può essere molto difficoltoso esprimere e descrivere i propri sintomi fino a cercare di razionalizzarli o cancellarli per timore di “stare impazzendo” o di soffrire di una malattia cerebrale grave.

L’esperienze possono essere veramente terrorizzanti e invalidanti quando si presentano nei momenti meno opportuni (ad esempio sentirsi fluttuare e osservare le proprie azioni dall’alto mentre si paga alle casse del supermercato, senza riuscire a muoversi o a parlare; paura di non riuscire mai più a ritornare nel proprio corpo).

La durata dei sintomi è variabile da poche ore o giorni fino anche a più settimane, mesi o anni.

In alcuni casi l’intensità può aumentare o diminuire considerevolmente, mentre a volte può rimanere stabile.

Nei casi gravi i sintomi sono presenti per anni o decenni.

Diagnosi

La diagnosi del disturbo di derealizzazione/depersonalizzazione è clinica e si basa sulla raccolta dei sintomi secondo i criteri diagnostici del DSM V (Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali), ossia:

  • presenza di persistenti o ricorrenti episodi di depersonalizzazione, derealizzazione o entrambe,
  • in questi momenti l’esame di realtà è intatto (la capacità di riconoscere ciò che è reale da ciò che non lo è), a differenza delle psicosi,
  • compromissione delle attività quotidiane e dei rapporti sociali
  • esclusione che i sintomi siano causati da droghe, farmaci o altre malattie.

Importante è escludere alcune condizioni, alcune gravi, in grado di mimare i sintomi:

  • altra malattia medica (come lesioni cerebrali, epilessia o sindrome delle apnee ostruttive nel sonno): soprattutto in presenza di un esordio dopo i 40 anni o di sintomi atipici,
  • altri disturbi dissociativi,
  • disturbo depressivo maggiore,
  • disturbo ossessivo-compulsivo,
  • disturbo d’ansia,
  • disturbi psicotici,
  • abuso di sostanze/farmaci (intossicazione acuta o astinenza),
  • aspetti culturali (è importante menzionare che in alcune culture sintomi possono essere indotti volontariamente da alcune pratiche di meditazione e rituali religiosi e non devono essere diagnosticati come patologici).

Cura

La cura del disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione si rende necessaria nei casi persistenti e disabilitanti e ha l’obiettivo più ampio di affrontare gli eventi traumatici all’origine dei sintomi.

L’approccio multidisciplinare di psicoterapia e farmaci, che prenda in considerazione il contesto della storia di abuso o trauma, è quello associato ai migliori risultati nel lungo termine e a minori ricadute. Dipende ovviamente dalla persona e dalla severità del quadro.

  • Psicoterapia, di cui ne esistono diversi tipi come:
    • Terapia cognitivo-comportamentale: riconosce i comportamenti fonte di disagio e li sostituisce con quelli più funzionali.
    • EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing): tratta i sintomi della sindrome da stress post-traumatico.
    • Terapia dialettico-comportamentale: indirizzata ai disturbi del comportamento severi in seguito ad abusi, traumi o ideazione e tentativi di suicidio.
    • Terapia familiare: l’oggetto di terapia è la persona nel contesto delle dinamiche relazionali familiari.
    • Arte e musico-terapia: esplorano e facilitano l’espressione di pensieri, sentimenti e percezioni bloccati.
  • Farmaci. Non esistono farmaci specifici per la depersonalizzazione/derealizzazione, si ricorre quindi ad approcci in grado di trattare i sintomi concomitanti di ansia e disturbi dell’umore:
    • ansiolitici,
    • antidepressivi,
    • antipsicotici (nei casi di traumi complessi).
  • Tecniche di rilassamento e meditazione.

Fonti e bibliografia

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Alcalosi respiratoria: cause, sintomi, terapia

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Cos’è l’alcalosi respiratoria?

Tra le diverse caratteristiche proprie di un liquido, al pari di temperatura e colore, il pH è una scala usata dai chimici per specificare quanto questo sia acido o basico; le soluzioni acide hanno un pH più basso, mentre le soluzioni basiche (o alcaline) hanno un pH più alto.

Ma cos’è esattamente il pH?

Una molecola di acqua è composta da due atomi d’idrogeno e una di ossigeno.

Una molecola d'acqua dal punto di vista chimico

iStock.com/PeterHermesFurian

Se per la maggior parte del tempo mantiene questa struttura, in realtà può succedere che ogni tanto un atomo d’idrogeno possa decidere di staccarsi dalla molecola di partenza, formando quindi:

  • una sorta di molecola orfana dell’idrogeno e dotata di carica negativa: HO
  • un atomo d’idrogeno libero di muoversi da solo e dotato di carica positiva: H+

Queste nuove molecole sono instabili e quindi si riorganizzano rapidamente per formare nuove molecole di acqua in una sorta di rimescolamento continuo: il pH è una misura della frequenza con cui questo processo si verifica, che si basa sulla quantità disponibile in ogni momento di atomi d’idrogeno liberi (ione H+).

Più ioni idrogeno ci sono, più la soluzione si definisce acida (nel succo di limone o nell’aceto, sostanze acide di uso comune, ce ne sono molti di più rispetto all’acqua del rubinetto).

Il pH di una soluzione è sempre compreso in un intervallo (scala) di valori compresi tra:

  • 0, pH fortemente acido;
  • 14, pH fortemente alcalino (o basico).

È possibile misurare il pH di ogni liquido acquoso, compresi quindi i fluidi biologici presenti nel nostro organismo, tra cui il sangue.

Esemplificazione grafica di esempio del pH di alcuni liquidi di uso comune

iStock.com/blueringmedia

Il pH dei fluidi corporei (principalmente di sangue e urine, ma anche quello dei succhi gastrici) determina molte caratteristiche della struttura e dell’attività delle macromolecole che sono presenti nell’organismo di ogni essere vivente (come enzimi, proteine e DNA) e influenza processi fondamentali per la vita come

  • respirazione,
  • attività renale,
  • funzionalità dei globuli rossi.

Il pH del sangue, in particolar modo, è tenuto sotto strettissimo controllo da specifici meccanismi che ne garantiscono un valore compreso tra 7,35 e 7,45 (sangue arterioso); variazioni anche minime di questo intervallo possono essere causa di gravissime complicazioni.

Si definisce “alcalosi respiratoria” una condizione in cui il pH del sangue raggiunge un valore superiore alla norma, a causa, generalmente, di un basso livello di anidride carbonica nel sangue (associato o meno ad una diminuzione compensatoria del bicarbonato), indotto da una respirazione veloce e profonda.

L’alcalosi respiratoria può insorgere in maniera acuta o cronica (in questo caso la sintomatologia sarà di entità minore) e determinare:

Sono esclusi i casi di lieve alterazione del pH in senso alcalino, in cui la sintomatologia potrebbe essere assente.

La diagnosi clinica è supportata dall’esecuzione di un’emogasanalisi (un gruppo di test utili a misurare i livelli di ossigeno e di anidride carbonica presenti nel sangue arterioso) e solo una volta stabilita la causa dell’alcalosi respiratoria sarà possibile impostare una terapia che consenta la risoluzione del quadro clinico.

Cause

Se l’alcalosi è definita come un aumento del valore di pH del sangue, possiamo innanzi tutto distinguere due condizioni in base alla causa:

Per alcalosi respiratoria intendiamo quindi una condizione in cui il pH ematico supera il fisiologico valore di 7,4 in seguito a cause polmonari, tipicamente un aumento di

  • frequenza (tachipnea)
  • e/o del volume respiratorio (cioè la quantità di aria che viene mobilizzata con ogni atto respiratorio).

Se la causa più comune è l’ansia, è possibile che venga indotta anche da:

La causa più comune è l’ansia, che induce ad un’involontaria iperventilazione.

In base al grado di compenso metabolico, può essere:

  • Acuta: non è compensata dai meccanismi renali ed è quindi più sintomatica.
  • Cronica: è più spesso compensata dai meccanismi renali (aumentata escrezione di bicarbonato e mancata escrezione di ammonio e altri acidi titolabili nelle urine) e darà sintomi più lievi.

Sintomi

La comparsa dei sintomi è dovuta ad una diminuzione dell’anidride carbonica (CO2) disciolta nel sangue che comporta, di conseguenza, un aumento del pH ematico.

Normalmente l’anidride carbonica ha un’attività vasodilatatrice sul circolo cerebrale, per cui, quando si verifica una riduzione in seguito a meccanismi di iperventilazione, ne consegue una costrizione dei vasi del circolo cerebrale che è causa di una sintomatologia neurologica.

I sintomi più comuni dell’alcalosi respiratoria quindi sono:

Lo squilibrio elettrolitico dovuto all’alcalosi ematica farà poi sì che il calcio resti legato alle proteine del sangue, determinandone una riduzione dei livelli in circolo (ipocalcemia), responsabile di alterazioni nervose periferiche e disturbi muscolari:

  • parestesie (formicolii),
  • rigidità e fascicolazioni muscolari,
  • spasmi muscolari,
  • insensibilità della regione periorale (attorno alla bocca).

In l’emoglobina (la proteina di trasporto dell’ossigeno presente nei globuli rossi) tenderà a rilasciare meno ossigeno ai tessuti, causando:

Diagnosi

La diagnosi è posta attraverso l’esecuzione di alcune indagini, tra cui:

  • Emogasanalisi, un esame che consente di misurare i livelli di ossigeno e anidride carbonica presenti nel sangue arterioso e di valutare il pH del sangue. Il prelievo del sangue da un’arteria (di solito del polso, come l’arteria radiale) può risultare spesso fastidioso.
  • Il dosaggio degli elettroliti sierici viene invece eseguito attraverso un prelievo venoso e permette di valutare lo stato di idratazione\disidratazione del paziente, nonché, in presenza di alterazioni significative di calcio, magnesio e potassio, l’eventuale rischio di complicanze cardiologiche. Questi elettroliti, infatti, svolgono un ruolo importante sulla funzionalità muscolare del cuore, del battito cardiaco e nel mantenimento dei valori normali di pressione arteriosa.

Nel caso di ipossia (ridotta concentrazione di ossigeno) diventa poi indispensabile individuarne la causa, che tuttavia è spesso evidente fin dall’anamnesi e dei risultati degli esami condotti in precedenza; è in ogni caso importante evitare una frettolosa diagnosi di ansia che non abbia verificato ed escluso per esempio una possibile embolia polmonare sottostante.

Cura

In caso di alcalosi respiratoria è necessario garantire al soggetto un sufficiente apporto di ossigeno e stabilire la patologia da cui la disfunzione ha origine (infettiva, metabolica, virale).

L’alcalosi respiratoria non può di per sé avere esito fatale, per cui non sono necessari interventi volti a ridurre tempestivamente il pH.

Se l’aumento della frequenza respiratoria è attribuibile al dolore, una terapia antalgica può essere sufficiente.

Considerando che spesso il disturbo ha un’origine psicosomatica (ansia, attacchi di panico) è sempre buona norma favorire il rilassamento del paziente, fornendo un adeguato supporto emotivo e invitandolo a rallentare la respirazione, comportamento in genere sufficiente a determinare la risoluzione del disturbo.

Per ripristinare i livelli di anidride carbonica nel sangue il paziente può essere invitato a respirare all’interno di un sacchetto di carta (non di plastica), di modo che l’anidride carbonica che è stata eliminata attraverso l’espirazione precedente, possa essere nuovamente inspirata.

Uomo che respira in un sacchetto di carta per affrontare l'iperventilazione

iStock.com/vitapix

Questa pratica, tuttavia, deve essere consigliata con cautela, in quanto in alcuni pazienti con disfunzioni del sistema nervoso centrale, il pH del liquido cerebrospinale potrebbe già essere sotto la norma.

Nel lungo termine, farmaci ansiolitici, psicofarmaci, trattamenti psichiatrici e terapie naturali anti-stress che favoriscano il ripristino della corretta respirazione, possono essere indicati, sotto consiglio del medico, nei casi in cui alla base del disturbo siano stati rintracciate nevrosi, ansia o attacchi di panico.

Fonti e bibliografia

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Calendula: proprietà, effetti collaterali, utilizzi

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Introduzione

La calendula (Calendula Officinalis L.) è una pianta annuale o biennale, appartenente alla famiglia delle Asteracee e nativa delle regioni Mediterranee e dell’Asia sudorientale; in Italia è presente pressoché su tutto il territorio. Ha caratteristici fiori giallo arancio, che fioriscono tutto l’anno, anche in inverno. Il suo nome deriva proprio da questa caratteristica: calendae in latino significa “primo giorno del mese”, poiché sin dal tempo dei Romani si riteneva fiorisse all’inizio di ogni mese.

Prato fiorito di calendula

iStock.com/lubilub

Il nome inglese, Marygold è invece legato alla tradizione cristiana di offrire questi fiori alla Madonna per tenere lontano il demonio.

La calendula è conosciuta anche come “erba del sole”, perché i fiori si aprono al mattino e si chiudono alla sera. Nella tradizione popolare si dice che se i fiori non si sono dischiusi entro le 7 del mattino significa che sta arrivando la pioggia.

Nel Medioevo le persone più povere, non potendo permettersi l’acquisto dello zafferano, utilizzavano i fiori di calendula per colorare e insaporire le pietanze: per questo la pianta venne soprannominata “lo zafferano dei poveri” [1].

La pianta fu peraltro protagonista di uno dei primi casi accertati di frode alimentare: pare che venisse usata da alcuni produttori disonesti per colorare il burro prodotto in autunno o inverno, quando il latte risultava povero di vitamina A e il burro che ne derivava appariva oltremodo pallido. La pratica si era talmente diffusa che, nel 1396, il prevosto di Parigi (che era il rappresentante del re) fu costretto a emanare un’ordinanza che vietava la vendita di burro addizionato con coloranti [2]

Ancora oggi la calendula è presente in diverse ricette alimentari: i suoi petali si possono utilizzare per dare colore alle insalate estive o per decorare le portate.

Nel 2008 l’International Herb Association, un ente americano che si propone di divulgare la conoscenza delle erbe medicinali e il loro utilizzo, ha nominato la Calendula “Erba dell’anno”.

Calendula, in crema o per bocca?

Le preparazioni a base di fiori di calendula (tinture, creme, lavaggi) per le patologie della pelle sono note sin dai tempi antichi e costituiscono ancora oggi l’ambito di elezione per l’utilizzo di questa pianta [9]. In particolare, le applicazioni topiche (crema, pomata, olio, …) di preparati a base di calendula sono consigliati in caso di [1,3,4,5,6]:

Crema a base di calendula con accanto un fiore

iStock.com/hydrangea100

L’uso interno della calendula è meno conosciuto e utilizzato e riguarda essenzialmente [1,3,8,9]:

Alcuni studi preliminari ne hanno testato l’efficacia come antivirale e immunostimolante – in particolare nella terapia dell’HIV: prove in vitro hanno evidenziato che l’estratto di calendula è in grado di inibire in modo significativo il virus HIV-1 e di rallentare l’attività dell’ HIV-1 trascrittasi inversa (l’enzima responsabile della replicazione del virus) in modo tempo- e dose-dipendente [9]

L’uso topico della calendula è tuttavia quello su cui si è ottenuto il maggior riscontro a livello di ricerca scientifica, tanto che l’Agenzia Europea del farmaco (EMA) ne ha approvato l’uso per il trattamento delle infiammazioni cutanee e delle ferite di lieve entità, e per le infiammazioni lievi del cavo orale e della gola. Pur ritenendo ancora insufficienti i test clinici, l’EMA ritiene plausibile l’efficacia della calendula e ne evidenzia l’elevato grado di sicurezza sulla base dell’utilizzo consolidato nella medicina tradizionale [10].

Come spesso accade nel caso dei preparati medicinali a base di erbe, anche nel caso della calendula la maggior parte degli studi scientifici è stata condotta in vitro o in vivo su animali; gli studi sull’uomo ci sono, ma su un numero ancora troppo limitato di pazienti per poter trarre conclusioni affidabili e spesso senza confronto con placebo. Eppure il ricorso alle erbe medicinali è estremamente diffuso, perché percepito come più naturale e (erroneamente) ritenuto privo di effetti collaterali: per questa ragione è auspicabile un aumento sia quantitativo che qualitativo delle ricerche scientifiche sugli effetti delle erbe medicinali sull’uomo, per evitare che la letteratura aneddotica si sovrapponga (o sostituisca) quella scientifica generando confusione, nella migliore delle ipotesi, o danni, nella peggiore.

Ciò premesso, riportiamo alcune delle ricerche scientifiche più recenti, che hanno prodotto risultati interessanti sull’utilizzo della calendula in alcune patologie particolari, per le quali l’utilizzo della pianta è meno forse meno noto ai più.

Calendula e ulcera crurale

L’ulcera crurale (o ulcera venosa o ulcera varicosa) è una lesione della pelle dovuta a stasi e reflusso sanguigno, spesso conseguente la comparsa di vene varicose.

Il potenziale utilizzo dei preparati a base di calendula per le vene varicose e le conseguenti ulcere crurali è stato oggetto di uno studio eseguito su 34 pazienti con ulcere venose. I pazienti sono stati divisi i due gruppi:

  • uno (di 21 persone) è stato trattato con applicazioni topiche di estratto di calendula (1 g di pomata per cm2 di ulcera), 2 volte al giorno per 3 settimane;
  • l’altro (di 13 persone) è stato trattato con le stesse modalità ma utilizzando un placebo, costituito da una soluzione salina.

Dopo una settimana, nel gruppo trattato con la calendula, si è registrata una diminuzione della superficie ulcerata del 14,59%, dopo 2 settimane del 33,33% e dopo 3 settimane del 41,71%. In 7 pazienti, infine, si è avuta una completa riepitelizzazione delle ferite. Nel gruppo di controllo, al termine dello studio, la riduzione della superficie ulcerata era pari al 14,53%; in 4 pazienti si è avuta guarigione con riepitelizzazione delle ulcere.

Nessun effetto collaterale è stato osservato durante il trattamento, in entrambi i gruppi.

L’effetto è statisticamente significativo anche se il numero di persone è troppo esiguo per poter trarre conclusioni definitive [6].

Calendula e piede diabetico

Uno studio recente ha valutato l’utilizzo di un estratto idroglicerico di calendula al 4% per il trattamento delle lesioni del piede diabetico in pazienti di età compresa tra 44 e 82 anni, con diagnosi di ulcera di almeno 3 mesi, valutati per 30 settimane (o fino a guarigione accertata). I 42 pazienti sono stati trattati con l’estratto spray applicato due volte al giorno. Dopo 11 settimane di trattamento il 54% delle ferite risultava completamente guarito, dopo 20 settimane il 68% e dopo 30 settimane il 78%. Nei pazienti non guariti si è comunque potuta apprezzare una riduzione dell’area lesionata pari al 78%.

La calendula ha mostrato altresì attività antibatterica nei confronti delle ferite infette, che sono passate dal 78% al 12,1% a fine trattamento. I batteri coinvolti erano prevalentemente Staphylococcus Aureus, Pseudomonas, Klebisiella ed Escherichia coli.

Non è stato registrato alcun effetto avverso.

Come sottolineato dagli stessi ricercatori, occorrerà uno studio su un numero più ampio di pazienti, confrontato con placebo, per confermare l’efficacia della calendula per le lesioni del piede diabetico. Tuttavia i risultati preliminari sono senz’altro promettenti [7].

Calendula e radioterapia

In uno studio RTC (randomizzato controllato) condotto su 254 pazienti sottoposti a radioterapia per il cancro al seno si è evidenziato come l’applicazione topica di una preparazione a base di calendula risultasse significativamente più efficace della trolamina (un farmaco utilizzato per ridurre gli arrossamenti cutanei conseguenti la radioterapia) nel ridurre gli episodi di dermatite acuta e il dolore, con conseguenti minori interruzioni delle terapie da parte dei pazienti trattati con calendula [11].

In un altro studio randomizzato contro placebo, è stata testa l’efficacia di una preparazione di calendula sulla mucosite orofaringea (uno degli effetti collaterali più comuni delle terapie antitumorali) conseguente al trattamento con radiazioni, su 40 pazienti affetti da tumore alla testa o al collo. La calendula ha significativamente diminuito l’intensità degli episodi infiammatori dopo 2,3 e 6 settimane dall’inizio del trattamento, in concomitanza con la radioterapia [12].

Per contro, in altri studi non si è potuta apprezzare la stessa differenza significativa tra preparazioni a base di calendula e placebo [8,13]: la questione resta dunque aperta e ulteriori test si rendono necessari per chiarire le ragioni dei risultati contrastanti ottenuti sinora – che potrebbero essere semplicemente legati alla scelta del veicolo e quindi all’assorbimento del principio attivo in dosi terapeuticamente efficaci

Calendula, placca e gengiviti

In uno studio recente, allestito per valutare gli effetti della calendula su placca e infiammazione gengivale, sono stati reclutati 240 pazienti con problemi di gengivite, di età compresa tra i 20 e i 40 anni. I pazienti sono stati divisi in due gruppi uguali:

  • a uno è stata fornita una soluzione di calendula (tintura madre diluita in acqua distillata),
  • all’altro un placebo, costituito dell’acqua distillata.

A entrambi i gruppi è stato detto di fare sciacqui con le rispettive soluzioni due volte al giorno per 6 mesi. Al termine dello studio si è vista nel gruppo trattato con calendula una significativa riduzione dell’entità dei parametri legati alla gengivite (infiammazione gengivale, placca, sanguinamento) rispetto al gruppo di controllo [14, 15].

In un altro studio, condotto su 40 pazienti con problemi di gengivite, si è visto che l’utilizzo di un dentifricio a base di calendula era in grado di ridurre sia placca che infiammazione gengivale dopo 4 settimane di utilizzo giornaliero [16].

Composizione chimica della calendula

La calendula contiene diversi composti attivi, i più abbondanti dei quali sono:

  • terpeni,
  • flavonoidi (quercetina, isoquercetina, rutina),
  • cumarine,
  • chinoni,
  • oli volatili (mono- e sesquiterpeni),
  • carotenoidi,
  • amminoacidi (5% nelle foglie e 4,5% nei fiori),
  • polisaccaridi.

Il meccanismo d’azione della calendula non è ancora del tutto conosciuto, ma pare che l’attività antinfiammatoria sia principalmente dovuta ai triterpeni, mentre i polisaccaridi ad alto peso molecolare sarebbero i responsabili dell’attività antivirale e immunostimolante [9, 17].

Effetti collaterali e interazioni

L’utilizzo della calendula è in generale sicuro e privo di effetti collaterali. In alcuni casi, tuttavia, si sono registrate reazioni allergiche a livello cutaneo (dermatiti).

Si raccomanda cautela nell’utilizzo da parte di persone con allergie a erbe o alimenti della famiglia delle Asteraceae/ Composite (ambrosia, camomilla, echinacea).

Si sconsiglia l’uso interno in gravidanza

Non sono note interazioni coi farmaci

Dosaggio

Della calendula si utilizzano prevalentemente i fiori, sia per la preparazione di tisane che per preparazioni topiche, ma anche i germogli, le foglie, i semi e le radici possiedono attività terapeutica.

Si utilizza poi sotto forma di infuso, di tintura alcolica, di olio e in polvere.

Per uso interno [9]:

  • Infusione: 1-2 g di fiori essiccati in polvere in 150 mL.
  • Estratto fluido 1:1 (g/ml): 1-2 mL.
  • Tintura madre 1:5 (g/ml): 5-10 mL.

Per uso esterno [18]:

  • 2-5g di fiori essiccati in 100g di prodotto

Fonti e bibliografia

  1. Herbalpedia
  2. Dalla Cucina con furore, P.Felli, Fuoco edizioni
  3. Herbal-Monographs, M.Spiteri, Univ. Of Malta 2011
  4. Effect of Calendula officinalis flower extract on acute phase proteins, antioxidant defense mechanism and granuloma formation during thermal burns. Chandran PK, Kuttan R. J Clin Biochem Nutr 2008; 43(2): 58-64.
  5. Protective effect of Calendula officinalis extract against UVB-induced oxidative stress in skin: evaluation of reduced glutathione levels and matrix metalloproteinase secretion. Catini CD, Fonseca MJV, Fonseca YM et al. J Ethnopharmacol 2010; 127(3): 596-601.
  6. Results of the clinical examination of an ointment with marigold (Calendula officinalis)  extract in the treatment of venous leg ulcers. Boza P, Duran V, Gajinov Z, Jovanovc M, Matic M, Mimica N, et al. Int J Tissue React 2005; 27(3): 101-6.
  7. A prospective, descriptive study to assess the clinical benefits of using Calendula officinalis hydroglycolic extract for the topical treatment of diabetic foot ulcers. Buzzi, M., de Freitas, F., Winter, M. Ostomy Wound Manag. 2016 Mar; 62(3):8-24.
  8. Herbs and Natural Supplements. An evidence-based guide. 4th ed. 2015 L. Braun, M.Cohen, Elsevier
  9. American Botanical Council – Calendula
  10. European Medicinal Agency – Committee on Herbal Medicinal Products (HMPC)
  11. Phase III randomized trial of Calendula officinalis compared with trolamine for the prevention of acute dermatitis during irradiation for breast cancer. Pommier P, Gomez F, Sunyach MP et al. J Clin Oncol. 2004 Apr 15;22(8):1447-53.
  12. Antioxidant capacity of Calendula officinalis flowers extract and prevention of radiation induced oropharyngeal mucositis in patients with head and neck cancers: A randomized controlled clinical study. Babaee N, Moslemi D, Khalilpour M, Vejdani F et al. Daru 2013, 21, 18
  13. A Review of the Use of Topical Calendula in the Prevention and Treatment of Radiotherapy-Induced Skin Reactions. Kodiyan J, Amber KT. Antioxidants (Basel). 2015 Apr 23;4(2):293-303.
  14. Medicinal plants for gingivitis: a review of clinical trials H. Safiaghdam, V. Oveissi, R. Bahramsoltani et al. Iran J Basic Med Sci. 2018 Oct; 21(10): 978–991.
  15. Evaluation of calendula officinalis as an anti-plaque and anti-gingivitis agent. Khairnar MS, Pawar B, Marawar PP, Mani A. J Indian Soc Periodontol. 2013;17:741–747.
  16. The effect of calendula extract toothpaste on the plaque index and bleeding in gingivitis. Amoian B, Moghadamnia AA, Mazandarani M. et al. Res J Med Plant. 2010;4:132–140
  17. Phytochemical constituents and pharmacological activities of Calendula officinalis Linn (Asteraceae): a review. Muley, B., Khadabadi, S., Banarase, N., 2009. Trop. J. Pharm. Res. 8, 455–465.
  18. Drugs.com – Calendula

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Aglio: proprietà curative, benefici, controindicazioni

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L’aglio nella tradizione, un po’ di storia

Appartenente alla famiglia delle Liliacee, l’aglio è una pianta la cui origine si perde nella memoria del tempo [1]. Le testimonianze più antiche risalgono a 3000 anni a.C., nell’antico Egitto: l’aglio era parte integrante della dieta quotidiana – in particolare dei costruttori di piramidi, per aumentare la forza e mantenere la salute – e bulbi di aglio perfettamente conservati sono stati ritrovati nella tomba di Tutankamon. Il testo medico di riferimento dell’epoca, il Papiro di Ebers, riportava l’uso dell’aglio per ascessi, malessere generale e contro insetti e parassiti.

Anche nell’antica Grecia l’aglio era associato all’aumento della forza e della resistenza alla fatica, tant’è che costituiva parte integrante dell’alimentazione dei militari, specie in battaglia. Persino durante le Olimpiadi gli atleti mangiavano aglio prima delle competizioni… una sorta di “doping” ante litteram! Ippocrate (IV sec a.C.), padre della medicina, aveva inserito l’aglio tra i suoi rimedi terapeutici per disturbi polmonari, come purgante e per i dolori addominali.

Bulbi di aglio sono stati portati alla luce negli scavi del Palazzo di Cnosso a Creta, risalente al 1800 a.C.

Soldati e marinai facevano uso di aglio per aumentare la resistenza alla fatica anche nell’antica Roma. Dioscoride, medico greco che visse a Roma ai tempi di Nerone (I sec d.C.), nel suo trattato De materia Medica raccomandava l’aglio per mantenere pulite le arterie. Da notare che all’epoca poco o nulla si sapeva sulla circolazione del sangue: l’idea che l’aglio potesse migliorare la salute del sistema cardiocircolatorio ha dunque origini molto antiche. Dioscoride raccomandava altresì l’aglio per i disordini gastrointestinali, le punture di insetto e i dolori articolari.

Infine, Plinio il Vecchio, nel suo Historia Naturalis, elenca ben 23 possibili utilizzi terapeutici dell’aglio, tra cui protezione contro infezioni e tossine, rimedio per le punture di scorpione e persino per curare l’epilessia.

La conoscenza e l’utilizzo di questa pianta ha origini antiche anche in parti del mondo molto lontane da Europa e Vicino Oriente: nel 2000 a.C. l’aglio era ampiamente utilizzato in Cina ed era parte integrante dell’alimentazione quotidiana; era inoltre utilizzato come conservante per il cibo. Nella Medicina Tradizionale Cinese l’aglio era prescritto come tonico del sistema respiratorio e dell’apparato digerente – soprattutto in caso di diarrea o infezioni parassitarie – e come antidepressivo.

In India la medicina Ayurvedica faceva ampio uso dell’aglio già 2000 anni fa come pianta guaritrice in diverse patologie, tra cui artrite, malattie cardiache, infezioni parassitarie, problemi digestivi, debolezza e affaticamento.

Nel medioevo, Ildegarda di Bingend (XII sec) – naturalista tedesca benedettina, dichiarata dottore della Chiesa da papa Benedetto XVI – aveva attribuito all’aglio un ruolo centrale nelle erbe medicinali. E per la prima volta aveva differenziato l’aglio crudo da quello cotto, sostenendo la maggiore efficacia terapeutica del primo rispetto al secondo.

La Scuola Salernitana (X-XIII sec) – antesignana delle moderne facoltà di medicina – indicava l’aglio come “alimento caldo”, da consumarsi in inverno per prevenire disturbi respiratori e malattie polmonari.

L’aglio fu ampiamente utilizzato contro la peste nera, che imperversò in Europa a metà del 1300, uccidendo un terzo della popolazione del continente.

Nel Rinascimento l’attenzione crescente per le erbe medicinali in tutta Europa portò alla nascita degli orti botanici, dove l’aglio trovò una collocazione di prestigio. In Italia divennero famosi quelli di Padova, Pisa e Bologna. Nel XVI sec. Pietro Mattioli, medico senese che esercitò alla corte di re Ferdinando d’Asburgo a Praga e autore della traduzione del De Materia Medica di Dioscoride, era solito prescrivere l’aglio come rimedio per disturbi digestivi e renali, per infezioni parassitarie e anche per aiutare le donne in caso di parto difficile.

Una curiosità: si narra che Enrico IV di Francia (XVII sec) venne battezzato con acqua e aglio perché si credeva che in tal modo sarebbe stato protetto dagli spiriti maligni e dalle malattie.

Infine, in epoca moderna, lo storico Louis Pasteur, chimico e biologo francese del XIX sec, considerato il fondatore della moderna microbiologia, studiò le proprietà dell’aglio e ne dimostrò per la prima volta la funzione antisettica, testandone l’efficacia su colture batteriche di Salmonella ed Escherichia coli.

Aglio su sfondo bianco

iStock.com/anna1311

Aglio in cucina, nell’orto e nell’armadietto dei medicinali

Bianco, rosso o rosa, a seconda della qualità, l’aglio è un eccezionale insaporitore: in cucina o lo si ama o lo si odia, ma in ogni caso la sua presenza non passa inosservata. Ci sono piatti, poi, in cui il suo utilizzo è fondamentale: pensiamo alla pasta aglio olio e peperoncino in Italia, alla salsa tzaziki in Grecia, al gazpacho in Spagna – solo per citarne alcuni.

In agricoltura costituisce un rimedio efficace e naturale contro molti parassiti: coltivarlo in prossimità delle piante più delicate permette di tenere lontani afidi, tarli, coleotteri e lumache.

La tradizione dice anche che l’aglio tiene lontani i vampiri dall’uomo, ma su questo la scienza ancora non si è espressa…

In fitoterapia l’aglio è conosciuto e utilizzato oggi come rimedio per

È inoltre consigliato come rimedio topico per curare le ferite (in genere sotto forma di olio).

È ricco di

Lo si può usare fresco in spicchi oppure come decotto oppure ancora come estratto secco in capsule e compresse.

Alcuni studi hanno evidenziato che chi fa maggiore uso di aglio risulta protetto nei confronti di alcuni tipi di tumore, come quello al colon o al pancreas, ma è probabile che l’aglio in questo senso funzioni nel contesto di una dieta sana ed equilibrata, piuttosto che come unico responsabile di un’efficace prevenzione. Lo stesso National Cancer Institute americano riconosce che l’aglio, insieme a molti altri vegetali (pensiamo alle crucifere, tanto per citare una categoria con effetti anticancro riconosciuti), possieda potenziali proprietà preventive nei confronti dello sviluppo di tumori, ma non lo raccomanda come unico e specifico integratore alimentare [2].

Vediamo in dettaglio cosa dicono le ricerche in merito agli effetti che la tradizione attribuisce a questo vegetale.

Aglio, colesterolo e pressione sanguigna

L’aglio ha ricevuto negli anni notevole attenzione in merito ai suoi possibili effetti benefici per l’apparato cardiovascolare [3], in particolare per la riduzione della pressione sanguigna in caso d’ipertensione e dei livelli di colesterolo – entrambi considerati importanti fattori di rischio. Inoltre sembra che l’aglio agisca anche come antiaggregante piastrinico [11], riducendo il rischio di formazione di trombi.

Diversi studi analizzati in una revisione pubblicata nel 2016 [4] mostrano come l’utilizzo di aglio come integratore alimentare sia in grado di ridurre sia la pressione sistolica (di 7–16 mm Hg) che quella diastolica (di 5–9 mm Hg) e riduca il colesterolo totale fino a 29.8 mg/dL. I risultati più significativi sono stati ottenuti utilizzando un estratto di aglio invecchiato, che ha come vantaggio quello di essere inodore e maggiormente digeribile, grazie al ridotto contenuto di allicina.

In un’altra meta-analisi pubblicata sempre nel 2016 [5] sono stati riportati gli stessi risultati positivi in termini di pressione sanguigna (studi confrontati con placebo) e una riduzione dei livelli di colesterolo totale e LDL del 10% dopo un trattamento continuativo di 2 mesi, su individui con livelli di colesterolo totale superiori a 200 mg/dL.

In uno studio precedente [3] si era visto come il consumo di 3 g di aglio fresco al giorno per 4 mesi diminuisse il colesterolo del 21%. Poiché non si erano evidenziati miglioramenti prima di 4 settimane, si suppone che ci sia un tempo minimo necessario di trattamento prima che si manifesti l’effetto terapeutico.

Il limite di tutti questi studi è che si sviluppano per un arco di tempo relativamente breve, che non permette di valutare gli effetti a lungo termine [6]. In più si tratta di lavori molto spesso eterogenei per

  • tipologia di individui,
  • dosaggio,
  • durata del trattamento,
  • formulazione utilizzata (aglio fresco o estratto secco),

ma in ogni caso i risultati sono confortanti e senza dubbio promettenti.

Per completezza di informazione riportiamo la posizione del National Center for Complementary and Integrative Health (NCCIH) – agenzia governativa degli Stati Uniti – che si mantiene prudente soprattutto sugli effetti ipolipidemizzanti dell’aglio: secondo alcuni studi, infatti, pare che tale effetto si limiti al colesterolo totale e non al cosiddetto colesterolo “cattivo”, ossia l’LDL [7].

Perchè l’aglio riduce la pressione?

Nell’aglio esistono almeno un centinaio di sostanze volatili e non volatili contenenti zolfo e responsabili dell’attività biologica: tra questi i principali sono [8]

  • la S-allilcisteina,
  • l’ajoene,
  • l’allicina.

I meccanismi attraverso i quali l’aglio ridurrebbe la pressione sanguigna sono essenzialmente due:

  1. Vasodilatazione tramite aumento dei livelli di monossido di azoto (NO), e di solfuro di idrogeno (H2S), due potenti vasodilatatori endogeni [8,9].
  2. Inibizione del sistema renina-angiotensina-aldosterone [8], un meccanismo ormonale che regola la pressione sanguigna e il tono della muscolatura arteriosa.

L’ingestione di 2 g di aglio crudo (l’equivalente di 2-3 spicchi) aumenta i livelli basali di NO da 2,7 a 8,8 µM – rispettivamente dopo 2 ore e dopo 4 ore dall’ingestione. L’esperimento è stato condotto su un centinaio di volontari sani di entrambi i sessi ed età compresa tra 22 e 50 anni. Lo stesso effetto non si è verificato assumendo la stessa quantità di aglio cotto, probabilmente per inattivazione, da parte del calore, dei principi attivi responsabili dell’effetto biologico [10].

Aglio contro funghi, batteri e virus

L’aglio nella tradizione erboristica è conosciuto come antibatterico, antifungino e antivirale e ciò non stupisce, se si pensa che è stato utilizzato per secoli come conservante per i cibi.

Gli estratti di aglio hanno dimostrato in vitro di essere in grado di sopprimere la proliferazione batterica di Salmonella, Escherichia coli e Listeria [3]. Uno studio pubblicato nel 2003 [12] aveva inoltre dimostrato come l’aglio fosse efficace contro un ampio spettro di patogeni, inclusi quelli resistenti a diversi antibiotici (Stafilococcus aureo, Stafiloccus epidermidis, Pseudomonas aeruginosa). Esistono poi studi che hanno testato l’efficacia dell’aglio sull’Helicobacter pylori, un batterio considerato fattore di rischio per lo sviluppo di cancro dello stomaco, sul Mycobacterium tuberculosis, il batterio responsabile della tubercolosi, e su funghi come la Candida albicans [5].

L’azione antivirale dell’aglio è stata evidenziata in vitro su rinovirus, herpes simplex, citomegalovirus e virus dell’influenza B. L’attività antivirale si esplica tramite attivazione dei macrofagi e dei linfociti B e T. L’aglio inoltre è un prebiotico, contenente oligosaccaridi e fruttani, sostanze che stimolano la proliferazione della flora batterica intestinale “buona” – e ricordiamo che l’80% delle nostre difese immunitarie risiedono proprio nell’intestino.

Test clinici hanno dimostrato che l’aglio ha effetto positivo sia nella prevenzione che nella durata e severità dei sintomi influenzali e delle infezioni del primo tratto respiratorio.

Uno studio randomizzato controllato contro placebo condotto su 146 partecipanti ha evidenziato come nel gruppo che aveva assunto aglio per 3 mesi (180 mg di aglio in polvere al giorno) si era registrata una diminuzione del 37% del numero di episodi influenzali e un 30% di riduzione della durata dei sintomi, rispetto al gruppo trattato con placebo.

In un altro studio è stato somministrato estratto di aglio invecchiato nella dose di 2,5 g al giorno per 3 mesi su 120 partecipanti: nel gruppo trattato con aglio si è evidenziata una riduzione del 60% nella durata dell’influenza e una diminuzione del 20% dei sintomi influenzali, rispetto al gruppo trattato con placebo. Nello stesso studio, inoltre, si è potuto apprezzare un aumento significativo dei linfociti T e delle cellule natural killer dopo 45 giorni dall’inizio dell’assunzione dell’estratto [5].

Aglio, un rimedio efficace contro l’Herpes labialis

Chi ne soffre conosce bene il problema…e gli “eventi catastrofici” che seguono quell’iniziale pizzicorio al labbro che poi evolve nei classici sintomi dell’herpes labiale.

L’aglio crudo, strofinato sulla zona interessata del labbro alla comparsa dei primi sintomi può rappresentare un rimedio efficace, in virtù delle sue proprietà antivirali.

Chiaramente questo potrebbe compromettere la possibilità di un bacio passionale, ma la rimanderebbe solo di un giorno anziché di una settimana o più, in caso il virus prendesse il sopravvento…

Meglio crudo, cotto o in polvere?

Per sfruttarne al meglio le proprietà nutrizionali e i benefici per la salute, l’aglio andrebbe consumato crudo.

Tanto più che diversi studi hanno dimostrato l’assenza di attività antibatterica dell’aglio dopo la cottura [10,13]: l’allicina, infatti, una delle principali responsabili degli effetti terapeutici dell’aglio, è una molecola termosensibile e viene quindi danneggiata se sottoposta a calore prolungato.

La stessa allicina, tuttavia, deve essere attivata anche nell’aglio crudo. Per fare ciò, è necessario spremere lo spicchio o tritarlo: l’azione meccanica, infatti, attiva l’enzima allinasi presente nel bulbo, il quale trasforma l’allina in allicina.

Una volta tagliato o schiacciato, poi, lo spicchio andrebbe lasciato riposare una decina di minuti, meglio sottolio, in modo che si liberi la quantità massima di allicina e che quest’ultima – che è una molecola volatile – venga trattenuta grazie alla presenza dell’olio.

L’aglio esiste in commercio anche in polvere, nel classico barattolino delle spezie: è ottenuto tritando ed essiccando gli spicchi di aglio, quindi in teoria la composizione dovrebbe essere la stessa dell’aglio crudo. Tuttavia, la proporzione e la quantità dei singoli componenti può variare a seconda della materia prima e del tempo di esposizione al calore, col rischio di un contenuto inferiore dei componenti attivi rispetto all’aglio tal quale.

L’estratto secco invecchiato (AGE), utilizzato in molti degli studi in letteratura e presente in diversi integratori in commercio, è ottenuto conservando l’aglio crudo in una soluzione al 15-20% di etanolo per 20 mesi. Questo processo porta a modifiche nella composizione della pianta – in particolare una riduzione delle componenti irritanti e del contenuto di allicina: ecco perché l’estratto invecchiato risulta spesso più digeribile e tollerato. La diminuzione della componente attiva allicina è compensata dall’aumento di altri componenti attivi come la s-allilcisteina (SAC), la S-allilmercaptocisteina e l’allixina [14, 15].

Dosaggi, controindicazioni e interazioni coi farmaci

L’aglio è un alimento considerato sicuro nelle dosi in cui viene utilizzato in ambito culinario.

Eventuali effetti collaterali, soprattutto in caso di utilizzo di aglio crudo, riguardano l’alitosi o fastidi allo stomaco durante la digestione.

Per quanto riguarda l’utilizzo come integratore a scopo preventivo, la dose suggerita è di 1-3 spicchi d’aglio al giorno, (oppure 0,4-1,2 g di estratto secco) per periodi di 3 settimane (ricordando di spremerlo prima dell’uso per attivare l’allicina).

Per il suo effetto antiaggregante piastrinico è bene non consumarne in quantità eccessiva in caso di assunzione di farmaci anticoagulanti (es warfarin®). Stessa cosa dicasi in caso di assunzione di antipertensivi, per l’effetto dell’aglio sull’abbassamento della pressione. Con un normale utilizzo culinario, tuttavia, non dovrebbero esserci rischi di interazione.

Alcuni studi riferiscono interazioni dell’aglio col sesquinavir, un farmaco utilizzato per il trattamento dell’HIV [2].

Tuttavia, un lavoro di revisione recentemente pubblicato, sottolinea come il rischio di interazioni tra aglio e farmaci sia decisamente basso [16].

Aglio e alitosi, che fare?

Il poeta romano Orazio (I sec. a.C.) suggeriva di non mangiare l’aglio da solo, soprattutto se in occasione di un appuntamento galante, perché l’amato/a “non respinga i baci e non fugga lontano”…

Tuttavia, per non rinunciare agli innumerevoli benefici apportati dall’aglio in nome di una necessaria interazione sociale (o del suddetto appuntamento galante), si possono adottare alcune accortezze, suggerite dalla tradizione popolare:

  • masticare foglie di prezzemolo,
  • masticare un chicco di caffè,
  • masticare semi di cardamomo, coriandolo o cumino,
  • mangiare una mela cruda.

Fonti e bibliografia

  1. Historical perspective on the use of garlic. Rivlin RS. J Nutr. 2001 Mar;131(3s):951S-4S.
  2. National Center for Complementary and Integrative Health
  3. Garlic, J.A.Milner. In: Coates PM, Betz JM, Blackman MR, et al. Encyclopedia of Dietary Supplements. 2nd ed. New York, NY: Informa Healthcare; 2010:307-313.
  4. Garlic and Heart Disease. Ravi Varshney, MJ Budoff. J Nutr. 2016 Feb;146(2):416S-421S
  5. Garlic Lowers Blood Pressure in Hypertensive Individuals, Regulates Serum Cholesterol, and Stimulates Immunity: An Updated Meta-analysis and Review. Ried K. J Nutr. 2016 Feb;146(2):389S-396S
  6. An umbrella review of garlic intake and risk of cardiovascular disease. Schwingshackl L, Missbach B, Hoffmann G. Phytomedicine. 2016 Oct 15;23(11):1127-33.
  7. The impact of garlic on lipid parameters: A systematic review and metaanalysis. Reinhart KM, Talati R, White CM, et al. Nutr Res Rev 2009; 22(1):39–48.
  8. Mechanisms underlying the antihypertensive effects of garlic bioactives. Shouk R, Abdou A, Shetty K, Sarkar D, Eid AH. Nutr Res. 2014 Feb;34(2):106-15.
  9. Potential of garlic (Allium sativum) in lowering high blood pressure: mechanisms of action and clinical relevance. Karin Ried and Peter Fakler. Integr Blood Press Control. 2014; 7: 71–82.
  10. Systemic production of IFN-alpha by garlic (Allium sativum) in humans. Bhattacharyya M, Girish GV et al. J Interferon Cytokine Res. 2007 May;27(5):377-82.
  11. Effects of garlic on platelet biochemistry and physiology. Rahman K. Mol Nutr Food Res 2007; 51(11):1335–1344.
  12. Antibacterial activity of vegetables and juices. Lee YL, Cesario T, Wang Y, et al. Nutrition 2003; 19:994–996.
  13. Garlic (Allium sativum) as an anti-Candida agent: A comparison of the efficacy of fresh garlic and freeze-dried extracts. Lemar KM, Turner MP, Lloyd D. J Appl Microbiol 2002; 93(3):398–405
  14. Role of Garlic Usage in Cardiovascular Disease Prevention: An Evidence-Based Approach Waris Qidwai and Tabinda Ashfaq* Evid Based Complement Alternat Med. 2013; 2013: 125649.
  15. Antioxidant health effects of aged garlic extract. Borek C. J Nutr. 2001 Mar;131(3s):1010S-5S
  16. Pharmacokinetic herb-drug interactions (part 2): drug interactions involving popular botanical dietary supplements and their clinical relevance. Gurley BJ, Fifer EK, Gardner Z. Planta Med. 2012 Sep;78(13):1490-514.

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Coenzima Q10, a cosa serve? Benefici e rischi

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Introduzione

Il Coenzima Q10 – o ubiquinone – è una molecola lipofila (insolubile in acqua), appartenente al gruppo dei Coenzimi Q, ampiamente rappresentati in natura nelle piante, nei batteri, nei funghi e in tutti i tessuti animali. Dal punto di vista chimico, i coenzimi Q hanno struttura base analoga e si differenziano per la lunghezza della catena laterale in posizione 6 dell’anello chinonico, che nell’uomo è costituita da 10 unità isopreniche (da qui il nome di Coenzima Q10).

iStock.com/YakubovAlim (Molecola: Di Sponk (talk) – Opera propria, Pubblico dominio, Collegamento)

La scoperta dell’ubiquinone risale a tempi relativamente recenti: il primo a ipotizzarne il ruolo metabolico fu Crane nel 1957, mentre la sua struttura fu rivelata da Folkers e colleghi nel 1958; è solo dagli anni 60, tuttavia, che la sua funzione come trasportatore di elettroni nella catena respiratoria mitocondriale (i mitocondri sono le “centrali energetiche” della cellula) è stata definitivamente accertata. Successivamente, tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90, l’ubiquinone è stato oggetto di crescente interesse per la sua capacità antiossidante evidenziata da esperimenti in vitro sui fosfolipidi delle membrane cellulari e sulle lipoproteine a bassa densità (LDL).

Recentemente si è verificata la capacità protettiva dell’ubiquinone nei confronti del DNA e dei danni ossidativi che esso può subire ad opera dei radicali liberi [2].

Coenzima Q10 nel corpo umano

Il Coenzima Q10 è presente in tutti gli organi e tessuti umani, in quantità variabile a seconda del distretto corporeo e dell’età (il CoQ10 tende a diminuire con l’invecchiamento). La concentrazione più elevata si trova nel cuore e, a seguire, in rene, fegato, muscoli, pancreas, tiroide e milza (Tabella 1).

Organo/Tessuto Q10 (µg/g tessuto)
Cuore 114
Reni 67
Fegato 55
Muscoli 40
Pancreas 33
Tiroide 25
Milza 25
Cervello 13
Stomaco 12
Intestino Tenue 12
Colon 11
Testicoli 11
Polmoni 8

Tabella1. Concentrazione media di Coenzima Q10 negli organi/tessuti di un essere umano adulto

In tabella 2 sono riportate le concentrazioni di Q10 in alcuni tessuti, in rapporto con l’età [1].

Organo Q10 (µg/g tessuto)
2 giorni 2 anni 20 anni 40 anni 80 anni
Cuore 37 79 110 75 47
Reni 17 53 98 71 64
Fegato 14 45 61 58 51
Milza 21 30 33 28 13
Surrene 18 58 16 12 9
Polmoni 2 6 6 7 3

Tabella2. Variazione della concentrazione di Coenzima Q10 negli organi di un essere umano con l’avanzare dell’età

Coenzima Q10 negli alimenti

Le principali fonti alimentari di Coenzima Q10 sono

  • carne,
  • pesce (salmone, tonno, sgombri, sardine),
  • cereali integrali,
  • oli vegetali,
  • spinaci,
  • germe di grano,
  • soia,
  • frutta secca (soprattutto nelle noci).

Il meccanismo di assorbimento dell’ubiquinone dagli alimenti non è del tutto chiarito, ma è probabile che avvenga in modo analogo alla vitamina E (data la somiglianza strutturale) e quindi tramite incorporazione nei chilomicroni. L’assorbimento è molto lento e solo il 2-4% dell’ubiquinone introdotto con gli alimenti raggiunge il circolo sanguigno, ove circola legato alle lipoproteine (VLDL, LDL, HDL – le stesse che trasportano il colesterolo).

Con l’assunzione di un integratore di Q10 (tre dosi giornaliere da 100 mg al giorno, per 11 giorni) si è visto che la quantità presente nelle lipoproteine triplica, a conferma del fatto che il Q10 circolante si ridistribuisca all’interno delle lipoproteine (e che quindi le protegga dall’ossidazione).

I globuli rossi contengono quantità molto piccole di Q10, mentre nei linfociti si è osservato che, dopo una settimana di integrazione, il contenuto di ubiquinone raddoppia – con conseguente aumento dell’attività degli enzimi riparatori del DNA e della resistenza del DNA stesso all’ossidazione [1, 16].

La biodisponibilità del Coenzima Q10 nei tessuti resta però argomento controverso. Sembra che in condizioni di salute normali la biodisponibilità sia molto bassa e questo potrebbe essere spiegato in termini di mera utilità: in condizioni normali di salute la quantità di Q10 è sufficiente al fabbisogno dell’organismo, che quindi non ne assorbe più del necessario. In condizioni patologiche, invece, laddove c’è carenza di Q10, l’integrazione alimentare allevia enormemente i sintomi della patologia in atto, ristabilendo in primis la funzione mitocondriale – come si è potuto appurare in bambini con deficienza di Q10 determinata da cause genetiche [17].

Funzionalità cardiaca

Studi pubblicati già negli anni ’70 evidenziarono come nel 70-75% degli individui che avevano subito uno o più episodi di infarto il livello di Coenzima Q10 circolante fosse significativamente più basso rispetto al livello di controllo.

Secondo quanto riportato da recenti lavori di revisione sulla ricerca scientifica pubblicata sinora, nei pazienti con insufficienza cardiaca l’assunzione di Q10 ha portato a un miglioramento della funzionalità cardiaca e un aumentato senso di benessere; stessi effetti positivi in caso di infarto e aritmia.

Secondo una ricerca del 2011, randomizzata su 117 pazienti, assumere Q10 diminuisce i tempi di recupero dopo l’intervento di bypass o di sostituzione delle valvole cardiache [3,4]

Per quanto riguarda l’ipertensione (pressione alta), i risultati sono ancora discordanti: secondo alcune ricerche il Q10 sarebbe efficace nella riduzione dei valori di pressione (e permetterebbe di diminuire il dosaggio di farmaci antipertensivi), ma secondo altri l’effetto sarebbe irrilevante [3].

L’azione antipertensiva potrebbe essere dovuta ad un effetto diretto del Q10 sulla funzionalità endoteliale, misurata in termini di dilatazione dell’arteria brachiale: l’effetto si è visto su 40 pazienti con diabete di tipo 2 e dislipidemia, trattati per 12 settimane con 200 mg al giorno di CoQ10, confrontato con placebo [5].

Aterosclerosi

Considerato il potere antiossidante del coenzima Q10 nei confronti delle lipoproteine LDL, è ragionevole pensare che esso possa avere effetto preventivo sulla formazione delle placche aterosclerotiche, nella cui formazione le LDL ossidate giocano un ruolo rilevante. In vitro si è visto che il potere antiossidante del Q10 nei confronti delle lipoproteine LDL supera quello della vitamina E (un altro potente antiossidante endogeno). Alcune ricerche hanno effettivamente confermato l’azione antiaterogenica sulle lipoproteine di topi deficitari di vitamina E, a livello dell’aorta. L’integrazione di Q10 sembrerebbe altresì in grado di ridurre la concentrazione di LDL ossidate all’interno delle placche aterosclerotiche e di diminuire il numero di queste ultime in tutta la regione aortica [6].

Funzionalità muscolare

Secondo alcune ricerche l’integrazione con Coenzima Q10 può migliorare la situazione di pazienti che, in seguito all’assunzione protratta di statine (farmaci d’elezione per abbassare il livello di colesterolo nel sangue), hanno sviluppato miopatie – un effetto collaterale correlato all’uso dei suddetti farmaci, che comporta debolezza muscolare e che, in casi rari ma gravi, può portare a rabdomiolisi, con una vera e propria rottura delle cellule muscolari.

Secondo una revisione pubblicata nel 2014 esiste una forte correlazione tra l’assunzione di statine e la diminuzione dei livelli di CoQ10 nel sangue e diversi studi hanno evidenziato come l’integrazione del coenzima abbia effetto positivo sulla regressione dei sintomi della miopatia [7].

Le ricerche tuttavia non sono conclusive, perché accanto a risultati positivi sull’assunzione di CoQ10 ve ne sono altri con risultato meno evidente o nullo [3].

Coenzima Q10 e cancro

I risultati delle ricerche sull’eventuale effetto protettivo del CoQ10 nello sviluppo di forme tumorali sono ancora contrastanti, ma in due studi estesi del 2010 e del 2011 si è visto che le donne con tumore al seno presentavano livelli abnormi di Q10, sia in difetto che in eccesso: è quindi probabile che una correlazione esista, anche se si tratta di studi ancora preliminari [3].

Diversi studi hanno inoltre evidenziato l’attività antiangiogenica e ipolipidemizzante dell’integrazione di CoQ10 in donne con cancro al seno in terapia con tamoxifene, uno dei chemioterapici più utilizzati nel trattamento post chirurgico [8,9].

Malattie neurologiche

Sulla base delle conoscenze finora acquisite, si sa che molti disturbi neurologici sono correlati ad alti livelli di stress ossidativo: in particolare, è sempre più evidente il ruolo dello stress ossidativo in malattie degenerative quali Alzheimer, Parkinson, malattia di Huntington. Esiste quindi una forte base scientifica per testare eventuali molecole antiossidanti come potenziale terapia neuroprotettiva.

Un esperimento condotto su 80 pazienti con esordio di Parkinson, a cui è stato somministrato Q10 per 16 mesi alla dose massima giornaliera di 1200 mg, ha mostrato un rallentamento della progressione della malattia in confronto col gruppo trattato con placebo, in modo dose-dipendente. In stadi più avanzati della malattia, invece, non si è visto lo stesso effetto potenzialmente benefico dell’integrazione con Q10 – a suggerire che il coenzima Q10 possa avere effetto protettivo, ma non sintomatico, allorché la malattia sia conclamata.

Esperimenti analoghi sono stati condotti per testare l’efficacia preventiva o terapeutica del Coenzima Q10 su pazienti affetti da morbo di Huntington e Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), ma i risultati sono ad oggi contrastanti e non permettono dunque di trarre conclusioni attendibili [10].

Potenziali ulteriori indicazioni terapeutiche

Secondo una ricerca giapponese, il Coenzima Q10 sarebbe in grado di ridurre le rughe causate da esposizione ai raggi UV-B, sia in vitro che in vivo. Il Q10 sarebbe in grado di inibire la produzione di interleuchina 6 e di metalloproteinasi (collagenasi in primis), col risultato di un effetto ringiovanente a livello cutaneo [11].

Il Coenzima Q10 è stato somministrato a bambini affetti da sindrome di Down, con l’intento di migliorare la condizione di stress ossidativo caratteristica di questa condizione: i risultati, sebbene ancora preliminari, sono incoraggianti [12,13].

Un altro ambito dove l’effetto antiossidante del Q10 potrebbe portare benefici è il trattamento di alcuni tipi di cefalea, laddove la componente infiammatoria può portare alla formazione di specie ossidanti, responsabili del consumo delle riserve endogene do CoQ10. In uno studio controllato, randomizzato versus placebo, si è ottenuta una riduzione significativamente maggiore nei pazienti trattati con Q10 (3x100mg/giorno per 3 mesi), rispetto a quelli con placebo, degli episodi di mal di testa e della loro durata e intensità [8,14].

Uno studio del 2007 ha evidenziato lo stesso potenziale positivo anche su pazienti di età pediatrica e su adolescenti [15].

Dosaggio, controindicazioni e interazione con farmaci

Il Coenzima Q10 è disponibile sul mercato come integratore in diverse forme:

  • polvere,
  • sospensioni,
  • soluzioni oleose,
  • gel,
  • creme,
  • compresse,
  • capsule.

Ha dimostrato di essere ben tollerato fino alla dose di 3 g al giorno. La dose consigliata tuttavia è molto più bassa, tra i 30 e i 200 mg al giorno (dose massima suggerita dal Ministero della Salute [18]).

Gli effetti collaterali più comuni riguardano lievi problemi gastrointestinali o mal di testa, con alcuni episodi di insonnia temporanea. Al momento non esistono controindicazioni all’utilizzo del coenzima Q10 alle dosi terapeutiche consigliate [3, 10].

Secondo quanto riportato dal Centro Nazionale per la Medicina Complementare e Integrativa americano (NCCIH), il Coenzima Q10 potrebbe interferire con i farmaci anticoagulanti (warfarin) e con l’insulina; potrebbe altresì non essere compatibile con alcune terapie anticancro [3].

Fonti e bibliografia

  1. Coenzime Q10, G. Dallner and R. Stocker. Encyclopedia of Dietary Supplements, 2nd ed – P. Coates, et al., New York, NY: Informa Healthcare; 2010
  2. Biochemical, physiological and medical aspects of ubiquinone function. Ernster L, Dallner G. Biochim Biophys Acta. 1995 May 24;1271(1):195-204.
  3. National Center for Complementary and Integrative Health
  4. Role of coenzyme Q10 (CoQ10) in cardiac disease, hypertension and Meniere-like syndrome. Kumar A, Kaur H, Devi P, Mohan V. 1. Pharmacol Ther. 2009 Dec;124(3):259-68.
  5. Coenzyme Q10 improves endothelial dysfunction of the brachial artery in type II diabetes mellitus. Watts GF, Playford DA, Croft KD, et al. Diabetologia 2002; 45:420–426.
  6. Anti-atherogenic effect of coenzyme Q10 in apolipoprotein E gene knockout mice. Witting K, Pettersson K, Letters J, et al. Free Radic Biol Med 2000; 29:295–305.
  7. Statins’ effect on plasma levels of Coenzyme Q10 and improvement in myopathy with supplementation. Littlefield N, Beckstrand RL, Luthy KE. J Am Assoc Nurse Pract. 2014 Feb;26(2):85-90
  8. Clinical aspects of coenzyme Q10: an update. Littarru GP, Tiano L. Nutrition. 2010 Mar;26(3):250-4.
  9. Antiangiogenic and hypolipidemic activity of coenzyme Q10 supplementation to breast cancer patients undergoing Tamoxifen therapy. Sachdanandam P. Biofactors. 2008;32(1-4):151-9.
  10. Coenzyme Q10 effects in neurodegenerative disease. Spindler M, Beal MF, Henchcliffe C. Neuropsychiatr Dis Treat 2009;5:597–610.
  11. Mechanisms of inhibitory effects of CoQ10 on UVB-induced wrinkle formation in vitro and in vivo. Inui M1, Ooe M, Fujii K, Matsunaka H, Yoshida M, Ichihashi M. Biofactors. 2008;32(1-4):237-43.
  12. Coenzyme Q10 and oxidative imbalance in Down syndrome: biochemical and clinical aspects. Tiano L1, Padella L, Carnevali P, Gabrielli O, Bruge F, Principi F, Littarru GP. Biofactors. 2008;32(1-4):161-7.
  13. Coenzyme Q10 and pro-inflammatory markers in children with Down syndrome: clinical and biochemical aspects Moushira E. Zakia et al. J. Pediatr. (Rio J.) vol.93 no.1 Porto Alegre Jan./Feb. 2017
  14. Efficacy of coenzyme Q10 in migraine prophylaxis: a randomized controlled trial. Sándor PS, Di Clemente L, Coppola G, Saenger U, Fumal A et al. J. Neurology. 2005 Feb 22;64(4):713-5.
  15. Coenzyme Q10 deficiency and response to supplementation in pediatric and adolescent migraine. Hershey AD1, Powers SW, Vockell AL, Lecates SL, Ellinor PL et al. Headache. 2007 Jan;47(1):73-80.
  16. Coenzyme Q10 enrichment decreases oxidative DNA damage in human lymphocytes. Tomasetti M, Littarru GP, Stocker R, et al. Free Radic Biol Med 1999; 27:1027–1032
  17. Mitochondrial respiratory chain dysfunction caused by coenzyme Q deficiency. Rustin P, Munnich A, R¨otig A. Meth Enzymol 2004; 382:81–86.
  18. Ministero della Salute – Nutrienti e sostanze ad effetto nutritivo o fisiologico (Revisione aprile 2019)

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Vista offuscata ed annebbiata: cause e rimedi

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Introduzione

Quando si parla di “visione offuscata” si fa riferimento ad una riduzione dell’acuità visiva e della chiarezza delle immagini che in genere insorge gradualmente (ed è quindi distinguibile dalla perdita totale di visione di uno o entrambi gli occhi).

Chi lamenta un problema di questo tipo riferisce:

  • perdita di nitidezza nelle immagini osservate,
  • incapacità di distinguerne chiaramente i dettagli più sottili.

Questo sintomo è molto comune e può riguardare:

  • uno o entrambi gli occhi,
  • la visione di oggetti vicini o lontani.

Nella maggior parte dei casi la percezione di un’immagine offuscata o annebbiata è attribuibile a:

  • difetti di rifrazione:
    • miopia,
    • ipermetropia,
    • astigmatismo;
  • patologie oculari, come ad esempio
    • cataratta,
    • retinopatia diabetica,
    • degenerazione maculare,
    • cheratocono;
  • occlusione di vasi sanguigni retinici,
  • emorragie del vitreo,
  • infezioni oculari,
  • infiammazioni oculari,
  • traumi oculari.

In caso di visione offuscata è sempre opportuno rivolgersi ad un medico o al proprio oculista il quale, in base alla causa, sarà in grado di indicare la strategia terapeutica da adottare.

Nel caso in cui alla visione offuscata si associassero sintomi come:

  • perdita della vista,
  • visione doppia,
  • sensazione di pressione oculare,
  • comparsa di macchie scure nel campo visivo,
  • arrossamento e dolore improvviso,

si raccomanda di rivolgersi immediatamente al pronto soccorso più vicino, perché potrebbe trattarsi di una condizione più grave.

Esempio di vista offuscata

iStock.com/Wiyada Arunwaikit

Cenni di funzionamento oculare

Tre componenti principali garantiscono il funzionamento dell’occhio:

  • Cornea e cristallino: sono posizionati nella porzione frontale del bulbo oculare e hanno il compito di concentrare la luce proveniente dall’esterno, consentendo la proiezione delle immagini sulla retina.
  • Retina: è costituita da un tessuto fotosensibile a luce e colore e si trova nel fondo dell’occhio; svolge la funzione di convertire gli impulsi visivi in segnali elettrici, permettendone la trasmissione nervosa.
  • Nervo ottico: trasmette i segnali elettrici dalla retina al cervello, il quale li interpreterà e consentirà la comprensione delle informazioni su luci e colori, ricevute dall’occhio.
Semplificazione dell'anatomia dell'occhio e della visione

iStock.com/normaals

Cause

Alla base della percezione di un’immagine poco nitida e offuscata, si rintracciano principalmente quattro meccanismi, talvolta sovrapposti:

  • Patologie e disturbi riguardanti la retina, la struttura fotosensibile situata nel fondo oculare.
  • Opacizzazione di cornea, cristallino e umor vitreo (la sostanza gelatinosa che riempie il bulbo oculare): queste strutture normalmente sono trasparenti e vengono attraversate dai raggi luminosi nel loro percorso per raggiungere la retina.
  • Disturbi che interessano il nervo ottico, responsabile della trasmissione dei segnali visivi all’occhio.
  • Vizi di rifrazione come ipermetropia, miopia, astigmatismo, che determinano un’imperfetta messa a fuoco delle immagini sulla retina.

Nel soggetto giovane, ed escludendo difetti della vista (come la miopia) sono causa di visione annebbiata principalmente:

  • Uveiti, infiammazioni che coinvolgono l’uvea, uno degli strati costituenti il globo oculare; possono causare arrossamenti dell’occhio, sensazione di dolore con il cambiamento dello sguardo e visione appannata o offuscata.
  • Cheratite, ossia un’infiammazione della cornea, che può essere determinata da
    • agenti infettivi (virus, batteri, protozoi, funghi),
    • agenti fisici (raggi ultravioletti)
    • e malattie sistemiche (come artrite reumatoide e vasculiti).
  • Congiuntiviti: infiammazioni della congiuntiva che, specialmente se accompagnate ad alterazioni quantitative o qualitative del film lacrimale, possono essere responsabili di offuscamento visivo.
  • Traumi oculari.

Con l’avanzare dell’età, invece, l’offuscamento visivo può più frequentemente essere legato all’opacizzazione del cristallino, ossia alla cataratta.

Altre patologie oculari, responsabili di visione offuscata, sono:

  • Glaucoma: specialmente durante l’attacco acuto, come conseguenza dell’edema corneale, possono verificarsi alterazioni visive e dolori oculari.
  • Neurite ottica: l’infiammazione del nervo ottico, principalmente nella fase iniziale, potrebbe manifestarsi con la percezione di immagini da contorni poco nitidi.
  • Maculopatie: esordiscono generalmente con una difficoltà nella lettura ravvicinata, accompagnata da un offuscamento della porzione centrale dell’immagine, che può risultare distorta, appannata e talora molto scura.
  • Retinopatie: soprattutto nei soggetti affetti da diabete mellito.
  • Ridotta produzione di fluidi lacrimali: può essere dovuta a patologie autoimmuni, come la Sindrome di Sjogren o ascrivibile all’avanzare dell’età o a variazioni ormonali, come quelle che si verificano nelle donne in menopausa.

Anche nei pazienti che fanno uso frequente di schermi, climatizzatori o in condizioni di particolare inquinamento atmosferico, può verificarsi un aumento dell’evaporazione del film lacrimale, con conseguente sensazione di secchezza oculare e visione offuscata.

La percezione di immagini poco nitide (che in alcuni casi può arrivare anche alla temporanea perdita della visione) può infine essere determinata anche da disturbi non propriamente oculari, come:

  • Ipotensione sistemica: la bassa pressione arteriosa può causare un offuscamento visivo, soprattutto in soggetti con problemi cardiocircolatori, disidratati o che si alzano bruscamente in piedi.
  • Ipoglicemia: la bassa concentrazione di zuccheri nel sangue può manifestarsi con alterazioni visive che talvolta precedono occasionali svenimenti.
  • Intossicazioni, avvelenamenti, uso\abuso di farmaci: possono determinare, per vari motivi, tra gli altri sintomi, anche un abbassamento dell’acuità visiva.

Diagnosi

In presenza di un’alterazione della visione, che diventa offuscata, è bene mantenere la calma e rivolgersi ad un medico.

Rappresentano invece sintomi d’allarme, per cui è necessario recarsi tempestivamente nel più vicino pronto soccorso:

  • improvvisa perdita della vista,
  • dolore oculare (con o senza movimento degli occhi),
  • visione doppia,
  • sensazione di pressione oculare,
  • comparsa di macchie scure nel campo visivo,
  • concomitante infezione da HIV o AIDS, nonché altre condizioni a carico del sistema immunitario (chemioterapia o utilizzo di farmaci immunosoppressori).

Nel corso della propria valutazione, il medico (meglio se oculista), rivolgerà al paziente domande specifiche sui sintomi, volte ad identificare la causa della visione offuscata.

L’esame dell’acuità visiva, cioè della nitidezza con cui vengono percepite le immagini è il primo passo nella valutazione specialistica; viene condotto esaminando separatamente gli occhi e chiedendo al paziente di indicare quali lettere o numeri compaiono su una tabella che è proiettata o appesa sul muro, ad una distanza di circa 6 metri.

In alcuni casi potrebbe essere richiesto al paziente di guardare attraverso un dispositivo dotato di foro, in grado di correggere parzialmente un eventuale vizio di rifrazione.

L’esame oculare è condotto esaminando gli occhi attraverso un oftalmoscopio (una luce illumina il fondo oculare che viene osservato attraverso una lente d’ingrandimento) oppure una lampada a fessura (in questo caso, l’occhio è osservato con un ingrandimento maggiore), talvolta applicando precedentemente un collirio per dilatare l’occhio.

Analisi del sangue, possono essere condotte in pazienti in cui la causa non sia stata accertata dopo valutazione oculistica o in coloro che presentino disturbi sistemici. Potranno essere richiesti esami ematochimici per escludere alcune patologie, come

Cura e rimedi

Il trattamento dipende dalla causa e mira alla correzione del disturbo di base.

  • Lenti correttive o chirurgia laser: le lenti possono essere utili per migliorare l’acuità visiva in caso di vizio di rifrazione (sono raccomandate anche nelle persone molto anziane, per ridurre il rischio di caduta), la chirurgia laser può essere consigliata anche nelle cataratte individuate precocemente.
  • Lacrime artificiali: possono essere utilizzate per lubrificare e migliorare il comfort della superficie oculare.
  • Colliri antibiotici e cortisonici: possono essere adottati, sotto consiglio del proprio medico, in caso di infezioni.

Nel caso di vista offuscata secondaria a patologie sistemiche, obiettivo principale della terapia sarà ovviamente la cura della causa di base.

Fonti e bibliografia

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Medicazione di una ferita chirurgica: come si fa?

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Introduzione

Parlando di ferita chirurgica si fa riferimento alla soluzione di continuo creata intenzionalmente attraverso l’incisione della cute con strumento da taglio per garantire l’accesso al sito chirurgico durante un intervento.

Tale ferita viene successivamente chiusa tramite l’utilizzo di punti di sutura, graffette o colla chirurgica al termine dell’intervento.

Ferita chirurgica su una gamba

iStock.com/Videowok_art

Le strutture coinvolte possono essere cute e sottocute ma anche i tessuti molli più profondi, come i muscoli e gli organi viscerali. La localizzazione del sito di incisione e la modalità di accesso all’organo sono scelte dal chirurgo sulla base della patologia per la quale si sceglie di operare il paziente e sulla base delle caratteristiche del paziente stesso. La tipologia di ferita, la localizzazione e la sua estensione possono determinare la durata della guarigione, il grado di dolore, i rischi di complicanze e il tipo di cicatrice.

Il processo di guarigione

La guarigione di una ferita chirurgica si articola in un processo trifasico che il nostro organismo scatena ogniqualvolta si subisce una lesione. Le tre fasi del processo possono essere descritte come segue:

  1. Fase infiammatoria: nota anche come fase difensiva, è una reazione che il nostro organismo mette in atto subito dopo la lesione e dura circa 3-4 giorni. È caratterizzata da due processi in particolare, ovvero l’emostasi (che consiste nella cessazione del sanguinamento) e l’infiammazione. In questa fase la ferita si presenta arrossata, edematosa, spesso calda al tatto e presenta variabili quantità di essudato.
  2. Fase ricostruttiva: inizia dopo circa 4 giorni dalla lesione e ha una durata di 2-3 settimane. Questa fase è caratterizzata dalla rivascolarizzazione del tessuto e dalla deposizione di fibre di collagene. Al termine di questa fase, ha luogo il processo di contrazione della ferita, determinato dall’azione di cellule specializzate (miofibroblasti) che costituiscono dei ponti tra i lembi della ferita e si contraggono poi con lo scopo di richiuderla.
  3. Fase maturativa: è la fase finale del processo di guarigione ed ha inizio intorno al ventunesimo giorno. SI tratta di un processo particolarmente lungo che può durate mesi o anni ed è caratterizzato dal continuo rimodellamento del tessuto cicatriziale.

Il tessuto leso può guarire successivamente secondo tre modalità, determinate dal grado di perdita del tessuto.

  1. La guarigione può avvenire per prima intenzione quando i margini della ferita sono posti a stretto contatto tra loro e la perdita tissutale è limitata, tanto da richiedere fenomeni di proliferazione cellulare di entità modesta. Il risultato di questo processo di guarigione consiste nella formazione di una piccola cicatrice.
  2. Parliamo invece di guarigione per seconda intenzione quando la ferita è di ampie dimensioni e presenta margini distanti, separati da un’importante perdita di tessuto che necessita un intenso processo di proliferazione cellulare. Il risultato è, in questo caso, caratterizzato dalla comparsa di una cicatrice di notevoli dimensioni, spesso retratta.
  3. La guarigione per terza intenzione, nota anche come chiusura secondaria ritardata, è caratterizzata invece da un lungo processo di cicatrizzazione dovuto alla controindicazione alla sutura immediata della ferita; ciò avviene in caso di ferite scarsamente vascolarizzate o in caso di infezione.

Le ferite chirurgiche guariscono generalmente attraverso un processo di cicatrizzazione per prima intenzione, fatta eccezione per quei casi in cui insorgano complicanze infettive, necrotiche o di deiscenza.

Classificazione

Il Centers for Disease Control and Prevention classifica le ferite chirurgiche in quattro diverse tipologie sulla base del grado di contaminazione della ferita:

  1. Pulite, quando si tratta di ferite conseguenti a interventi chirurgici eseguiti su ferita non infetta, senza interessamento del tratto respiratorio, gastrointestinale o genito-urinario.
  2. Pulite – contaminate, quando l’intervento chirurgico interessa il tratto respiratorio, gastrointestinale o genitourinario, in condizioni controllate e senza contaminazione significativa della ferita.
  3. Contaminate, quando si tratta di interventi eseguiti su trauma recente e aperto. Si fa in questo caso riferimento a interventi che comportino il non rispetto dell’asepsi o spandimenti significativi di contenuto gastrointestinale o interventi che interessino un processo infiammatorio acuto non purulento (ad esempio, una gangrena secca).
  4. Sporche o infette, quando si tratta di interventi su traumi di vecchia data con ritenzione di tessuti e interventi che interessano processi infettivi acuti purulenti o in presenza di perforazione dei visceri. Durante questi interventi, i microorganismi che causano l’infezione postoperatoria sono presenti sul campo operatorio prima dell’intervento.

Quando sostituire la medicazione?

La procedura di medicazione di una ferita chirurgica necessita di particolare attenzione perché, trattandosi di una ferita profonda in via di guarigione, il rischio di infezione è particolarmente elevato. L’infezione del sito chirurgico è infatti una delle principali complicanze che possono determinare un prolungamento del periodo di cicatrizzazione. Proprio per questo motivo, nelle prime 48 ore post – operatorie la medicazione del sito chirurgico non dovrebbe essere sostituita. Al momento della dimissione, sarà il medico a dare indicazioni circa le tempistiche di revisione della medicazione sulla base della tipologia di incisione effettuata e sulla base del presidio utilizzato per la sutura dei lembi; i punti di sutura riassorbibili, ad esempio, non necessitano di rimozione meccanica ma vengono autonomamente riassorbiti dalla cute. In caso di presidi diversi per la sutura (punti non riassorbibili o graffette), ferite complesse o soggette a complicanze, il medico potrebbe dare indicazioni circa la necessità di recarsi presso un ambulatorio per la rivalutazione della ferita e la successiva medicazione.

Nel caso di ferite pulite – contaminate, contaminate, sporche o infette, la revisione della medicazione richiede necessariamente l’intervento di un professionista, il quale provvederà ad eseguire la medicazione della ferita con adeguati presidi e mantenendo una rigorosa asepsi.

La medicazione delle ferite pulite, invece, salvo complicanze impreviste e salvo diverse indicazioni mediche, deve essere sostituita, dopo la dimissione al domicilio, una volta ogni 7 giorni o prima se visibilmente sporca, bagnata o non adeguatamente adesa alla cute. Questa procedura, con le adeguate precauzioni, può essere eseguita a casa nel caso in cui non venga indicata dal chirurgo la necessità di revisionare la ferita a distanza, come avviene, ad esempio, nel caso di ferite suturate con punti riassorbibili.

Come si sostituisce la medicazione?

La procedura per la sostituzione di una medicazione a piatto di una ferita pulita prevede i seguenti passaggi:

  1. Lavare le mani con acqua e sapone per almeno 40 secondi. Questa azione riduce il rischio di contaminazione della ferita.
  2. Scollare i lembi della medicazione in sede e sollevarla delicatamente, prestando attenzione a non esercitare troppa forza se questa risultasse fortemente adesa ai lembi della ferita. Il rischio, in questo caso, consiste nell’asportare il tessuto di riparazione della ferita fino ad ora formatosi o punti di sutura.
  3. Osservare la ferita: se sono presenti arrossamenti, gonfiore o secrezioni abbondanti, contattare il medico.
  4. Lavare nuovamente le mani con acqua e sapone per 40 secondi. Questa azione permette di limitare la diffusione dei microorganismi presenti sulla porzione di medicazione considerata sporca alla ferita.
  5. Se sporca, detergere la ferita con garze sterili imbevute di soluzione fisiologica prestando attenzione a non toccare la porzione di garza che entra a contatto con la ferita (afferrare la garza per i due angoli opposti)
  6. Disinfettare la ferita con garze sterili imbevute di disinfettante per cute lesa (come iodopovidone 10% (Betadine®), clorexidina gluconato 0,05% o acqua ossigenata 3%). Detergere la ferita dall’alto verso il basso, iniziando dal centro e proseguendo con altri passaggi verticali verso l’esterno; utilizzare una nuova garza ad ogni passaggio. Nel caso di ferite puntiformi con un solo punto di sutura, come per gli interventi in laparoscopia, disinfettare con movimenti circolari dal centro verso l’esterno; utilizzare una nuova garza ad ogni passaggio circolare.
  7. Lasciar asciugare il disinfettante per almeno 5 secondi.
  8. Applicare la nuova medicazione prestando attenzione a non toccare mai la ferita con le mani e mantenendo la medicazione per i lembi, senza mai toccare la porzione centrale che entrerà a diretto contatto con la ferita.

Medicazioni avanzate

Non vi sono evidenze che l’utilizzo di medicazioni avanzate per medicare la ferita chirurgica riduca il rischio di infezione o favorisca la guarigione della ferita; l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a tal proposito, suggerisce di non utilizzare alcun tipo di medicazione avanzata in sostituzione della medicazione standard a piatto nelle ferite chirurgiche chiuse per prima intenzione al fine di prevenire le infezioni del sito chirurgico.

È inoltre opportuno evitare medicazioni che prevedano l’uso di garze a diretto contatto con la ferita in quanto la loro successiva rimozione potrebbe causare dolore; inoltre, la garza così posizionata aderisce al tessuto di riparazione della ferita che viene, in questo modo, asportato durante la rimozione della medicazione prolungando così il processo di guarigione.

A cosa serve la medicazione della ferita?

La ferita chirurgica necessita di protezione con idonee medicazioni che devono essere posizionate al termine dell’intervento chirurgico in sala operatoria e devono essere lasciate in sede per le successive 48 ore, a meno che non si presentino visibilmente sporche di sangue, siero o altro materiale. I principali obiettivi della medicazione sono infatti quelli di

  • controllare il sanguinamento post-operatorio,
  • assorbire l’essudato se presente,
  • alleviare il dolore,
  • proteggere i nuovi tessuti in via di ricostituzione.

Fonti e bibliografia

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Piodermite in bambini e adulti: sintomi, cause e cura

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Introduzione

Le piodermiti sono infezioni cutanee causate da batteri piogeni, solitamente Gram positivi come stafilococchi e streptococchi, capaci di provocare reazioni infiammatorie con fuoriuscita di pus.

Si distinguono per il livello di profondità della cute in cui si verifica il processo infettivo e la loro gravità è variabile.

Le piodermiti che interessano l’epidermide (strato più superficiale della cute) sono

quelle che interessano il derma (lo strato di cute subito sotto l’epidermide) sono

le piodermiti profonde (che interessano l’ipoderma) sono

  • il flemmone
  • e la fascite necrotizzante.

Verranno discusse nel seguente articolo l’impetigine, la follicolite ed il patereccio. Per l’erisipela e l’idrosadenite suppurativa si rimanda ai rispettivi articoli, così come le piodermiti profonde che meritano, infine, un trattamento a parte.

Ulcerazione da piodermite

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Causa e fattori di rischio

Le piodermiti sono causate da batteri (chiamati “cocchi” poiché hanno una forma sferica) Gram positivi:

In particolare S. aureus è un normale componente della flora intestinale umana e può essere isolato dal rinofaringe e dalla cute, specialmente nella regione perineale e nelle narici nasali, nel 30-50% dei soggetti.

Fattori favorenti lo sviluppo d’infezione sono

  • gli interventi chirurgici,
  • i traumi anche superficiali (ad esempio la depilazione a strappo o con il rasoio è un fattore favorente le follicoliti),
  • il contatto con la terra o la sabbia del mare,
  • il clima caldo-umido,
  • la presenza di lesioni essudanti, in particolare l’eczema della dermatite atopica.

La contagiosità, specialmente per l’impetigine, è notevole, ma si manifesta soprattutto in famiglia, nelle comunità scolastiche ed in altre condizioni di promiscuità.

Sintomi

Impetigine

Si distinguono una forma bollosa, causata prevalentemente da stafilococchi, ed una non bollosa, causata da streptococchi ed altri germi.

La forma bollosa è caratterizzata da lesioni rilevate cutanee di dimensioni superiori a 0.5 cm di diametro a contenuto liquido limpido (bolle); la forma non bollosa, che rappresenta il 70% di tutte le impetigini, si caratterizza per delle piccole lesioni cutanee rilevate di dimensioni inferiori a 0.5 cm di diametro a contenuto liquido limpido (vescicole).

Sia le bolle che le vescicole sono circondate da un alone arrossato (eritematoso) ed alla loro rottura fa seguito un’essudazione (fuoriuscita di materiale purulento) che poi si indurisce formando delle croste giallastre.

Le aree corporee maggiormente colpite sono

  • il volto, gli arti,
  • il tronco,
  • le zone attorno agli orifizi (cavo orale, narici, regione anale).

Nella forma bollosa possono essere interessati anche i palmi delle mani e le piante dei piedi, che sono invece risparmiati nella forma non bollosa. Inoltre le zone di cute infestate dall’acaro della scabbia o affette da dermatite atopica sono facilmente impetiginizzate.

Patereccio

Il patereccio è un’infezione stafilococcica della piega ungueale (unghia), solitamente secondaria a piccoli traumi locali.

La cute intorno all’unghia diventa eritematosa (arrossata), gonfia (edematosa) e dolente e dalla sacca di pus che si viene a formare può fuoriuscire materiale purulento.

Follicolite

La follicolite si manifesta con lesioni rilevate cutanee a contenuto liquido purulento (pustole), in assenza di vescicole-bolle, localizzate attorno allo sbocco di un follicolo pilifero e quindi centrate da un pelo.

Le aree cutanee interessate sono

  • la barba,
  • il cuoio capelluto,
  • gli arti.

Nelle donne che praticano la depilazione a strappo o con il rasoio si possono verificare, di solito in estate, follicoliti estese a tutto l’arto inferiore.

Diagnosi

La diagnosi si basa sull’esame clinico.

L’impetigine deve essere distinta dalle malattie bollose autoimmuni, che tuttavia sono rare nell’infanzia, e dalle pustolosi amicrobiche come la psoriasi, condizioni in cui il liquido contenuto nelle bolle è limpido e sterile.

Prognosi e complicazioni

Una complicazione frequente delle piodermiti è la disseminazione dei germi attraverso le mani, con conseguente autoinoculazione di S. aureus in altre aree corporee.

Complicazioni temibili sono

  • la sindrome da shock tossico da stafilococchi,
  • la necrolisi epidermica stafilococcica
  • e la sindrome shock tossico simile da streptococchi.

Si tratta di sindromi rare ma importanti, perché potenzialmente fatali, dovute alla liberazione di tossine batteriche che inducono manifestazioni di carattere generale (febbre elevata, vomito, diarrea, dolori muscolari e articolari), con danno a carico di organi interni (gli shock tossici) ed eruzioni cutanee con macule e papule eritematose e bolle.

La prognosi per le infezioni non complicate dall’interessamento degli organi interni è buona, specialmente se la diagnosi ed il trattamento sono tempestivi.

Le sindromi dovute alla liberazione di tossine batteriche hanno invece una prognosi peggiore con decorso rapido e talvolta fatale: l’exitus si verifica per la diffusione dell’infezione a tutto l’organismo – sepsi – e per i disturbi elettrolitici dovuti alla perdita di liquidi e sali minerali dalla cute, nel 30-40% dei casi.

Cura e rimedi

Nelle piodermiti superficiali è solitamente sufficiente un trattamento locale che preveda detersione e disinfezione delle lesioni con soluzioni antisettiche (ad esempio a base di clorexidina); gli antibiotici locali verranno prescritti per periodi di 7-10 giorni: acido fusidico, mupirocina, clindamicina ed eritromicina sono le principali molecole impiegate.

Una medicazione con garza, indumenti di cotone o panni sterili nelle forme estese è utile a isolare le lesioni. È da evitare invece qualsiasi medicazione che induca macerazione così come l’applicazione di cerotti direttamente sulla cute, gesti che favoriscono l’insorgenza di nuove lesioni.

La terapia antibiotica per via orale è necessaria quando le lesioni sono particolarmente diffuse, nei pazienti immunodepressi ed in caso di mancata o parziale risposta alla terapia topica. È ovviamente indispensabile e deve impostata quanto prima in caso di shock. Si utilizzano antibiotici

  • della classe dei beta-lattamici come la penicillina,
  • le cefalosporine di 1°, 2° e 3° generazione,
  • i macrolidi,
  • i fluorochinolonici,
  • gli aminoglicosidi.

La terapia antibiotica per via sistemica ha il vantaggio di eradicare anche i possibili focolai infettivi extracutanei e di prevenire così le complicanze settiche a distanza.

Prevenzione

La prevenzione delle infezioni cutanee da S. aureus si può effettuare nei soggetti a rischio, ad esempio chi ha in programma un intervento chirurgico o il personale sanitario, mediante l’applicazione intranasale di gel o unguenti antibiotici a base di mupirocina: il farmaco consente di ottenere la bonifica dei portatori del germe per circa 3 mesi.

Fonti e bibliografia

  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.

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Prurigo nodulare: cause, sintomi e cura

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Introduzione

La prurigo nodulare, anche definita prurigo nodulare di Hyde, è una condizione cronica intensamente pruriginosa che si verifica come risultato del cosiddetto circolo vizioso prurito-grattamento-prurito.

Circa il 50% delle persone affette (specialmente anziani, ma tutte le fasce di età possono essere interessate) ha una predisposizione per le allergie (atopia).

Oltre a diverse malattie cutanee, anche numerose malattie sistemiche (psichiatriche, neurologiche, infettive) possono scatenare il circolo vizioso prurito-grattamento-prurito e quindi la prurigo nodulare.

Il trattamento è sintomatico e consiste nell’applicazione di creme

  • emollienti,
  • cortisoniche,
  • immunosoppressive

o nella fototerapia UVB a banda stretta.

Causa e fattori di rischio

Le malattie infiammatorie cutanee che sono considerate dei fattori di rischio e/o fattori scatenanti la prurigo nodulare sono diverse, prima tra tutte è la dermatite atopica.

Anche se meno frequentemente, anche

hanno il potenziale di causare la prurigo nodulare.

Sebbene i meccanismi molecolari alla base della malattia non siano ancora completamente conosciuti, sembrerebbero esistere delle interazioni complesse tra le strutture nervose (nervi e loro guaine) e le cellule infiammatorie e vascolari della cute.

L’esame istologico di lesioni cutanee di prurigo nodulare evidenzia infatti un infiltrato infiammatorio nel derma costituito da cellule T, mastociti, eosinofili ed alterazione delle strutture nervose con ipertrofia (ispessimento). Le cellule cutanee possono stimolare l’infiammazione ed il prurito rilasciando sostanze quali:

  • istamina,
  • interleuchine,
  • triptasi,
  • prostaglandine
  • e vari neuropeptidi come il fattore di crescita neuronale e la sostanza P.

Quest’ultima in particolare è prodotta dai neuroni, ma si lega ad un recettore presente sulle cellule cutanee determinando un’infiammazione definita appunto “neurogenica”, caratterizzata da

  • vasodilatazione,
  • fuoriuscita di plasma dai vasi
  • e degranulazione dei mastociti con rilascio di ulteriori molecole infiammatorie.

Tra le malattie sistemiche che possono portare alla prurigo nodulare ci sono:

  • l’insufficienza renale cronica, in cui il prurito si verifica come conseguenza delle anomalie del metabolismo di fosforo e calcio, dell’ipervitaminosi A a livello epidermico, della neuropatia periferica;
  • la stasi biliare (associata o meno a ittero) ovvero l’accumulo di sali biliari nelle vie biliari o nel fegato;
  • malattie ematologiche come i linfomi o la micosi fungoide;
  • l’infezione da virus dell’immunodeficienza umana (HIV);
  • le parassitosi.

Sintomi

La prurigo nodulare si manifesta con un prurito intenso che si accompagna alla (o induce la) comparsa di lesioni cutanee rilevate (noduli) e arrossate (eritematose), del diametro di 1-3 cm.

I noduli sono convessi, hanno una superficie liscia o verrucosa e sono spesso centrati da un’escoriazione crostosa o da un’ulcerazione per via del grattamento.

Prurigo nodulare sulle mani

By MasryyyOwn work, CC BY 4.0, Link

Sono localizzati tipicamente sulle superfici posteriori degli avambracci, sui glutei e gli arti inferiori. La parte centrale del dorso è difficile da raggiungere con le mani dal paziente che pertanto, non potendosi grattare, non può indurre la comparsa di lesioni in tale sede. Questa area cutanea libera da lesioni assomiglia al corpo di una farfalla: la presenza di lesioni sulle scapole e l’assenza di esse al centro della schiena costituisce quindi il “segno della farfalla”.

Le lesioni recenti sono eritematose mentre quelle di lunga durata sono marroni. La cute tra i noduli è normale.

La prurigo nodulare è stata classificata come

  • lieve in presenza di meno di 20 noduli sulla superficie cutanea,
  • moderata in presenza di 20-100 lesioni,
  • grave con più di 100 lesioni.

Oltre al prurito, alcuni pazienti riferiscono sintomi quali sensazione di calore o freddo pungente, formicolio, bruciore.

Diagnosi

Di fronte ad un’eruzione cutanea escoriata cronica si richiede l’impostazione di un iter diagnostico che permetta di individuare o escludere la/le malattia/malattie dermatologica/dermatologiche e non che possono essere alla base della prurigo, a partire da:

  • dermatite atopica,
  • malattie bollose,
  • insufficienza renale,
  • stasi biliare,
  • malattie
    • ematologiche,
    • endocrinologiche,
    • infettive,
    • neurologiche/psichiatriche,
  • tumori solidi ed ematologici (del sangue)

e si valuterà l’eventuale assunzione recente di nuovi farmaci.

La valutazione clinica e soprattutto l’esame istologico di un campione di cute lesionale prelevato mediante biopsia permettono di escludere

  • un lichen planus,
  • una dermatite erpetiforme,
  • un pemfigoide bolloso,
  • una vasculite,
  • una follicolite da lieviti
  • o altre patologie infiammatorie cutanee.

Gravidanza

Durante la gravidanza possono verificarsi varie eruzioni pruriginose del tipo di una prurigo, raggruppate nel gruppo delle “eruzioni polimorfe gravidiche”, senza possibili complicazioni.

È tuttavia necessario escludere:

  • il pemfigoide gravidico (o herpes gestationis), malattia bollosa autoimmune che si manifesta con intenso prurito, papule e vescico-bolle specialmente nella regione periombelicale; si potrà eseguire un esame del sangue specifico per la ricerca degli anticorpi anti-membrana basale; questa malattia può causare un rischio prematurità del feto;
  • il prurito gravidico dovuto ad una colestasi (accumulo di bile nelle vie biliari).

Prognosi e complicazioni

La prognosi è variabile in base alla malattia che sottende la prurigo.

La prurigo nodulare può avere impatto negativo sulla qualità di vita provocando

Possibili complicazioni sono infine rappresentate dalle infezioni o sovrainfezioni cutanee indotte dal grattamento cronico.

Rimedi e cura

Il trattamento della prurigo nodulare, specialmente quando non si può intervenire in maniera efficace sulla causa scatenante (ad esempio nei casi di insufficienza renale), ha lo scopo di interrompere il circolo vizioso prurito-grattamento-prurito.

Per ogni paziente affetto dovrebbe essere preparato un programma di trattamento individuale che tenga conto di fattori quali

  • età,
  • comorbidità (altre patologie presenti),
  • gravità della prurigo,
  • qualità di vita,
  • possibili effetti collaterali delle medicine.

La terapia di solito si estende per un periodo di tempo prolungato.

Le creme o lozioni emollienti sono considerate la base del trattamento, poiché una cute secca (xerotica) può essere già di per sé pruriginosa.

Oltre agli emollienti, i cortisonici topici (come idrocortisone o betametasone 0.1% in crema) rappresentano il primo step terapeutico; per ridurne gli effetti collaterali (come l’atrofia cutanea) si possono introdurre al loro posto le creme con effetto immunosoppressivo (pimecrolimus, tacrolimus); nei casi gravi con un numero elevato di lesioni si utilizza con successo la fototerapia ad UVB o UVA.

Gli antiistaminici per via orale risultano anch’essi efficaci sul sintomo del prurito, riducendo il grattamento e la comparsa di nuove lesioni.

Nei casi che non rispondono ai trattamenti sopracitati, si utilizzano per via orale i derivati della vitamina A come l’acitretina, che agirebbero mediante la neurotossicità sull’ipertrofia delle fibre nervose e gli immunosoppressori come gli steroidi, l’azatioprina o la ciclosporina.

Prevenzione

Mantenere la cute adeguatamente idratata utilizzando costantemente le creme emollienti può rappresentare una valida strategia di prevenzione.

Fonti e biblliografia

  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.
  • Wolff K., Johnson R., Saavedra A. Fitzpatrick Manuale ed Atlante di Dermatologia clinica. Edizione italiana sulla settima di lingua inglese a cura di Mauro Alaibac. Piccin 2015.
  • Zeidler C, Yosipovitch G, Ständer S. Prurigo Nodularis and Its Management. Dermatol Clin. 2018 Jul;36(3):189-197. doi: 10.1016/j.det.2018.02.003.

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Ectropion oculare: cause, sintomi e cura

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Introduzione

Con il termine “ectropion” si intende una variazione della posizione della palpebra inferiore, caratterizzata da una sua rotazione verso l’esterno; la palpebra, quindi, sembrerà allontanarsi dal bulbo oculare.

Questa condizione patologica è indotta da molteplici fattori e può riguardare una sola porzione, oppure l’intera parte centrale della palpebra inferiore.

Poiché in presenza di questa anomalia viene meno la funzione di protezione fornita dalla palpebra alla superficie oculare, l’occhio sarà maggiormente esposto all’aria, causando la comparsa di sintomi come:

  • arrossamento oculare,
  • bruciore,
  • fastidio nella zona dell’occhio e del bordo palpebrale,
  • aumento della secrezione oculare,
  • lacrimazione (frequentemente riflessa e dovuta allo stato irritativo).

La rotazione del bordo della palpebra spesso coinvolge anche i puntini lacrimali (le aperture ovali da cui avranno origine i dotti lacrimali) causandone un’eccessiva esposizione verso l’esterno; tale esposizione ambientale è in grado di determinare un aumento della deposizione di cheratina e un restringimento del calibro duttale con successivo stravaso di lacrime al di fuori della superficie oculare, che apparirà quindi molto meno lubrificata.

È importante non sottovalutare questa condizione clinica, poiché la congiuntiva (la membrana che ricopre il bulbo oculare e la parte interna delle palpebre) e la cornea, perdendo la normale lubrificazione e la protezione offerta dalle palpebre, possono andare incontro ad un’infiammazione secondaria che, se protratta, è in grado di determinare l’ispessimento della porzione interna della palpebra con conseguente cheratopatia e rischi di ulcerazioni e perforazioni a carico della cornea.

Paragone occhio sano ed ectropion

iStock.com/Scio21

Cenni di funzionamento oculare

Tre componenti principali garantiscono il funzionamento dell’occhio:

  • Cornea e cristallino: sono posizionati nella porzione frontale del bulbo oculare e hanno il compito di concentrare la luce proveniente dall’esterno, consentendo la proiezione delle immagini sulla retina.
  • Retina: è costituita da un tessuto fotosensibile a luce e colore e si trova nel fondo dell’occhio; svolge la funzione di convertire gli impulsi visivi in segnali elettrici, permettendone la trasmissione nervosa.
  • Nervo ottico: trasmette i segnali elettrici dalla retina al cervello, il quale li interpreterà e consentirà la comprensione delle informazioni su luci e colori, ricevute dall’occhio.

La cornea ha una funzione protettiva verso possibili insulti esterni (come abrasioni e virus/batteri) e i suoi nervi sono responsabili dei riflessi dell’ammiccamento e della lacrimazione; in caso di ectropion le lacrime tendono a cadere all’esterno dell’occhio, perdendo la capacità di lubrificare l’occhio. Questo determina un’infiammazione in grado di peggiorare l’ectropion stesso e favorire lesioni alla superficie corneale.

Semplificazione dell'anatomia dell'occhio e della visione

iStock.com/normaals

Cause

Tra le principali cause di ectropion si riconoscono:

  • Invecchiamento: con l’avanzare dell’età aumenta la debolezza muscolare e si assiste ad un rilassamento dei tessuti che induce iperlassità palpebrale.
  • Condizioni congenite: anche se raramente, l’ectropion può essere presente fin dalla nascita e riconducibile ad anomalie oculari, che si verificano nel corso della gestazione e che determinano un inadeguato sviluppo dei muscoli palpebrali (può essere associato alla sindrome di Down o ad una rara disfunzione congenita della pelle, detta “ittiosi Arlecchino”).

Cause meno frequenti sono:

  • traumi o ustioni alle palpebre,
  • intervento chirurgico precedente o radioterapia delle palpebre,
  • rapida perdita di peso,
  • paralisi del nervo faciale (causata da ictus o da altre condizioni cliniche),
  • lesioni nodulari o cistiche sul margine palpebrale,
  • tessuto cicatriziale (come conseguenza di pregresse lesioni o interventi chirurgici),
  • complicanza di patologie cutanee (come dermatiti da contatto).

Sintomi

Benché si possa manifestare su entrambe le palpebre, spesso si evidenzia soltanto in quella inferiore; il paziente affetto da ectropion lamenterà principalmente:

  • arrossamento e irritazione,
  • eccessiva lacrimazione,
  • sensazione di bruciore oculare,
  • infezioni frequenti degli occhi,
  • secchezza oculare,
  • dolore oculare lieve,
  • comparsa di secrezioni oculari.

Si raccomanda di consultare immediatamente uno specialista in caso di

  • riduzione della vista,
  • rapido aumento del dolore,
  • alterata sensibilità agli stimoli luminosi.

Complicazioni

Se trattato precocemente, in genere l’ectropion non è in grado di determinare gravi complicazioni e l’intervento chirurgico è di solito risolutivo.

Se i sintomi sono trascurati, tuttavia, la congiuntiva (la membrana che ricopre il bulbo oculare e la parte interna delle palpebre) e la cornea possono perdere la normale lubrificazione e la protezione offerta dalle palpebre e andare così incontro ad un’infiammazione secondaria che, se protratta, è in grado di determinare cheratopatia e rischi di ulcerazioni e perforazioni a carico della cornea.

Queste conseguenze, molto gravi, potrebbero compromettere la vista; si raccomanda, quindi, di rivolgersi ad un medico già alle prime avvisaglie di malattia.

Diagnosi

La diagnosi dell’ectropion è basata esclusivamente sull’esame obiettivo da parte dell’oculista che, attraverso l’ispezione del viso e prove di forza muscolare, è in grado di escludere o accertare un’eventuale presenza di una paralisi del nervo faciale.

Possono essere poi condotte altre indagini, come:

  • Esame della cornea: permette di individuare eventuali cambiamenti epiteliali, secondari alla mancanza di protezione oculare da parte del margine palpebrale, che espone la congiuntiva e la cornea alla continua esposizione ambientale.
  • Test per la lassità orizzontale della palpebra: consente di stabilire se i tessuti interessati dalla patologia sono indeboliti o seriamente danneggiati; il medico posiziona il pollice sul margine palpebrale esterno e lo spinge lateralmente e verso l’alto. Se al termine della manovra il margine della palpebra non torna in posizione è verosimile sospettare un danno di natura cicatriziale.

Cura e rimedi

Il trattamento è stabilito in base alla causa, alla gravità dell’ectropion e soprattutto in base allo stato della cornea al momento della diagnosi; se la causa è minore e temporanea non è richiesto alcun intervento.

Colliri, pomate antibiotiche, riepitelizzanti o lubrificanti, possono essere applicate, sotto consiglio del medico, per

  • mantenere umidificata la regione oculare,
  • alleviare i sintomi
  • e offrire protezione alle strutture oculari, riducendo l’infiammazione.

Se è improbabile che il paziente possa recuperare spontaneamente o mediante il trattamento farmacologico, può essere indicato un intervento chirurgico; svolta solitamente in anestesia locale, l’operazione ha una durata di circa 40 minuti e mira a correggere la posizione della palpebra, inserendo una sezione del legamento palpebrale, per dare sostegno al tessuto.

Nel caso in cui l’ectropion sia dovuto ad esiti cicatriziali di ferite o pregressi interventi chirurgici può essere indicata un’operazione differente, mediante utilizzo di un innesto cutaneo (si ricava, generalmente, una sezione di pelle dalla palpebra superiore o dalla porzione posteriore dell’orecchio e si trasferisce sulla palpebra inferiore).

Fonti e bibliografia

  • Humanitas
  • Marco Peduzzi, Manuale d’oculistica terza edizione, Milano, McGraw-Hill, 2004, ISBN 978-88-386-2389-9.
  • Semin Ophthalmol. 2010 May;25(3):59-65. doi: 10.3109/08820538.2010.488570. Ectropion. Bedran EG, Pereira MV, Bernardes TF.
  • Dermatol Surg. 2019 Sep 10. doi: 10.1097/DSS.0000000000002150. [Epub ahead of print] Cicatricial Ectropion Repair for Dermatologic Surgeons. Kooistra LJ1, Scott JF2, Bordeaux JS1,2.

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Entropion oculare: cause, sintomi e cura

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Introduzione

Con il termine “entropion” s’intende una variazione della posizione palpebrale, caratterizzata da una rotazione verso l’interno del bordo della palpebra.

Questa condizione patologica è indotta da molteplici fattori e può riguardare indifferentemente sia la palpebra superiore che, più frequentemente, quella inferiore; nel tempo è in grado di causare, in seguito al continuo sfregamento esercitato dalle ciglia e dalle palpebre sulla superficie della cornea, un danno di entità variabile, che spazia da una cheratite puntata superficiale, fino alla vera e propria ulcerazione corneale.

Chi è interessato da questa malattia oculistica lamenta principalmente:

È molto importante non sottovalutare questa condizione clinica e sottoporsi agli accertamenti specialistici e alle cure del caso perché, se trascurata, può progressivamente causare cecità in chi ne è affetto.

Entropion della palpebra inferiore

iStock.com/Scio21

Cenni di funzionamento oculare

Tre sono le componenti principali in grado di garantire il corretto funzionamento della vista:

  • Cornea e cristallino: sono posizionati nella porzione frontale del bulbo oculare e hanno il compito di concentrare la luce proveniente dall’esterno, consentendo la proiezione delle immagini sulla retina.
  • Retina: è costituita da un tessuto fotosensibile a luce e colore e si trova nel fondo dell’occhio; svolge la funzione convertire gli impulsi visivi, in segnali elettrici, permettendone la trasmissione nervosa.
  • Nervo ottico: trasmette i segnali elettrici dalla retina al cervello, il quale li interpreterà e consentirà la comprensione delle informazioni su luci e colori ricevute dall’occhio.
Semplificazione dell'anatomia dell'occhio e della visione

iStock.com/normaals

L’entropion può determinare danni a carico della cornea (ferite e cicatrici) che possono determinare un serio peggioramento visivo.

Cause

Tra le principali cause di entropion si riconoscono:

  • Invecchiamento: l’età anziana è il principale fattore in grado di determinare questa malattia oculistica, in quanto associata ad un progressivo aumento della lassità dei tessuti palpebrali, ipertonia del muscolo orbicolare ( cioè l’eccessiva contrazione del muscolo che contribuisce al sostegno della palpebra) e disinserzione dei retrattori della palpebra inferiore (ossia i legamenti che servono a tenere la palpebra tesa sulla superficie oculare), che possono favorire una rotazione interna del margine palpebrale, con conseguente comparsa di entropion.
  • Cicatrici: la comparsa di un’area cicatriziale nella regione oculare può essere il risultato di lesioni, traumi, pregressi interventi chirurgici, radioterapia o ustioni; in presenza di una cicatrice, la normale curvatura palpebrale può alterarsi in maniera definitiva, determinando entropion.
  • Spasmi muscolari e blefarospasmo: infiammazioni e infezioni possono causare entropion spastico, per il coinvolgimento delle terminazioni nervose dei muscoli oculari.
  • Tracoma: è una malattia tipica dei Paesi in via di sviluppo e la principale causa mondiale di cecità infettiva; si trasmette facilmente mediante condivisione di oggetti personali, come asciugamani o indumenti, ma anche per contatto diretto con gli occhi o il naso di una persona che ne è affetta.
  • Condizioni congenite: anche se raramente, l’entropion può essere presente fin dalla nascita e dovuto ad anomalie oculari che si verificano nel corso dello sviluppo.

Sintomi

In caso di entropion la palpebra e le ciglia appaiono ruotate verso l’interno del bulbo oculare, entrano in contatto continuo con la superficie della cornea e possono determinare la comparsa di diversi sintomi, tra cui:

  • arrossamento oculare,
  • dolore nella zona colpita dalla patologia,
  • incrostazioni oculari (solo in alcuni casi),
  • eccessiva sensibilità agli stimoli luminosi e agli agenti atmosferici,
  • lacrimazione (con stravaso sul visto, piuttosto che attraverso il sistema nasolacrimale),
  • sensazione di corpo estraneo nell’occhio,
  • chiusura persistente ed involontaria delle palpebre,
  • diminuzione dell’acuità visiva (specialmente negli stadi più avanzati, quando la cornea è seriamente danneggiata).

Complicazioni

Lo sfregamento reiterato della cornea da parte della palpebra e delle ciglia può determinare, se perpetuato, la comparsa di complicanze, quali:

  • abrasioni
  • ulcere corneali.

In questo stadio di malattia la cornea viene danneggiata in modo irreversibile e la perdita di integrità delle strutture oculari che ne deriva può essere responsabile della comparsa di cecità.

Diagnosi

La diagnosi dell’entropion è basata esclusivamente sull’esame obiettivo da parte dell’oculista.

Se al momento della visita il margine palpebrale dovesse risultare estroflesso, il medico potrà suggerire di chiudere ed aprire dolcemente gli occhi, per diverse volte, in modo che torni a ruotare verso l’interno.

Possono essere poi condotte altre indagini, come:

  • Esame con lampada a fessura: permette di osservare nettamente le ciglia che vengono in contatto con la congiuntiva (che appare arrossata) e la cornea.
  • Test del pizzicotto (pinch test): con il pollice e l’indice l’esaminatore allontana la palpebra dal bulbo e misura la distanza che intercorre tra queste due strutture. Normalmente, la palpebra inferiore dovrebbe distaccarsi dal bulbo per non più di 4-5 mm e, lasciando la presa, tornare immediatamente in contatto con il bulbo. Il distacco della palpebra, conferma la diagnosi visiva, evidenziando perdita di tonicità o di collagene dalle aree dell’occhio e può essere classificato in:
    • moderato: fino a 7 mm;
    • grave: fino a 9 mm;
    • marcato: oltre 11 mm.

Cura e rimedi

Il trattamento virnr stabilito in base

  • alla causa,
  • alla gravità dell’entropion
  • e soprattutto in base allo stato della cornea al momento della diagnosi.

Se la causa è minore e temporanea può essere effettuata una nastratura della palpebra (procedura che prevede l’applicazione di cerotti in grado di creare una tensione che permette di riportare il margine palpebrale verso l’esterno).

Se l’entropion è dovuto a spasmi muscolari, possono essere effettuate delle iniezioni di tossina botulinica (in grado di diminuire la tensione dei muscoli spastici).

Colliri, pomate antibiotiche, riepitelizzanti o lubrificanti, possono essere applicate, sotto consiglio del medico, per mantenere umidificata la regione oculare, alleviare i sintomi e offrire protezione alla cornea.

Lenti a contatto terapeutiche, possono essere altresì impiegate per fornire protezione alla superficie corneale.

Se è improbabile che il paziente possa recuperare spontaneamente o mediante il trattamento farmacologico, può essere indicato un intervento chirurgico; l’operazione, svolta solitamente in anestesia locale, ha una durata di circa 40 minuti e mira a correggere la lassità palpebrale, accorciando e reinserendo saldamente la palpebra alle strutture ossee e tendinee, ruotata nella sua naturale posizione.

Se la chirurgia viene eseguita prima che la cornea sia danneggiata in maniera irreversibile, la prognosi è eccellente.

Nel corso del tempo, tuttavia, se dovesse presentarsi un’ulteriore lassità palpebrale, potrebbe rendersi necessario un nuovo intervento chirurgico.

Fonti e bibliografia

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Malattia di Hirschprung: cause, sintomi e cura

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Introduzione

La malattia o morbo di Hirschprung (o megacolon congenito) è una malattia congenita (ovvero presente sin dalla nascita) che interessa l’ultimo tratto intestinale in cui si rileva l’assenza della normale innervazione, con la mancanza del plesso mioenterico di Auerbach e del plesso sottomucoso di Meissner.

Questi due plessi nervosi sono normalmente presenti lungo tutto l’intestino e assolvono alla funzione di coordinare i movimenti di peristalsi (movimento intestinale), permettendo al contenuto di proseguire correttamente lungo la direzione aborale (ovvero dalla bocca verso l’ano).

Il morbo di Hirschprung viene anche detto “megacolon congenito agangliare”, una denominazione che riassume il quadro anatomo-patologico di tale patologia:

  • Megacolon: presenza di un tratto dell’intestino crasso (o colon) che viene a dilatarsi enormemente.
  • Congenito: che è presente sin dalla nascita.
  • Agangliare: dovuto alla mancanza di gangli (gruppi di cellule nervose).

Si riconoscono 3 forme di megacolon congenito:

  • Forma classica: il tratto agangliare è limitato al retto-sigma.
  • Forma a segmento lungo: estensione del tratto patologico sino al colon discendente.
  • Forma con aganglionosi totale: viene ad essere interessato tutto il colon; si tratta della forma più rara e grave.

La malattia di Hirschprung è causata da anomalie congenite con mutazione a carico di alcuni geni che portano a questa neurocristopatia, ovvero all’arresto nello sviluppo e nella migrazione di cellule nervose gangliari (di Cajal) nell’ultimo tratto di intestino.

Il quadro clinico della malattia è dominato da sintomi quali:

  • mancata evacuazione spontanea delle prime feci del neonato (meconio),
  • addome che si distende progressivamente (pancia che diventa sempre più gonfia),
  • rifiuto del cibo,
  • nausea e vomito,
  • diarrea paradossa,
  • malessere generale,
  • aumentata suscettibilità alle infezioni.

La diagnosi si avvale del quadro clinico, con il primo segnale di allarme che è rappresentato dalla mancata emissione di meconio nelle prime 48 ore di vita. Dal punto di vista strumentale viene eseguito un clisma opaco e la biopsia, con la quale si giungerà ad una diagnosi di certezza.

Il trattamento di questa patologia è di tipo chirurgico: con l’intervento, che di solito viene eseguito in una fase precoce della malattia, si va a rimuovere la parte agangliare intestinale e si ricostruisce la continuità anatomica mediante anastomosi fatta in un unico tempo o in due tempi dopo un’iniziale derivazione intestinale temporanea (colostomia).

La prognosi è essenzialmente positiva con l’exitus (esito fatale) che sopraggiunge solo nel 3% dei casi.

Cause

La malattia di Hirschprung si presenta con un’incidenza di circa 1 caso ogni 4500 individui, con una predilezione per il sesso maschile rispetto a quello femminile (rapporto di 4 a 1).
Essendo una malattia presente sin dalla nascita, trova la sua causa in un disordine genetico; negli ultimi tempi sono stati riscontrate diverse anomalie genetiche a carico di alcuni geni, tra cui:

  • Gene RET nel 70% dei casi,
  • Gene EDNRB,
  • Gene ZFHX1B.

Queste anomalie genetiche si traducono nell’alterazione di sviluppo dei gangli nervosi intestinali, nello specifico dei plessi presenti a livello mioenterico e a livello sottomucoso.

In alcuni pazienti la malattia di Hirschprung può essere inoltre associata ad alcune sindromi genetiche come:

  • sindrome di Down,
  • sindrome di Ondine,
  • sindrome di Waardenburg,
  • sindrome di Movat-Wilson.
Semplificazione dell'anatomia dell'apparato digerente

iStock.com/Pikovit44

Ad essere interessato è il tratto di intestino crasso o colon soprattutto nella sua parte terminale chiamata sigma (per via della sua forma anatomica che ricorda quella della lettera greca), e la prima parte dell’intestino retto. A tale livello vi è una completa mancanza dei plessi nervosi, il cui risultato sarà l’incapacità dell’intestino di coordinarsi nei movimenti peristaltici.

Anatomia dell'intestino crasso

iStock.com/ttsz

Non essendo capace di muoversi regolarmente il sigma tende a non riuscire a far progredire verso l’ano il suo contenuto; di conseguenza si assiste ad un ristagno di materiale che progressivamente sfianca le pareti intestinali e le dilata; nell’ultima fase della patogenesi, la malattia porta alla formazione di un megacolon molto disteso e a rischio perforazione.

Sintomi

La malattia di Hirschprung può presentare un quadro clinico piuttosto eterogeneo e variegato, ma nella maggior parte dei casi si presenta tuttavia nei primi giorni o mesi di vita del neonato con:

  • Ritardata emissione di meconio: è una sostanza bruno verdastra di consistenza vischiosa che rappresenta il materiale intestinale del feto presente al momento della nascita; qualora esso non venga regolarmente eliminato dal feto nei primi giorni di vita (prime 48 h), si parla di “ileo da meconio” un’occlusione intestinale che è tipica dei neonati che nascono con la malattia di Hirschprung o con la fibrosi cistica.
  • Occlusione intestinale protratta: i gas e le feci si accumulano a livello del sigma-retto e non riescono ad essere eliminate. A questo punto il colon tende ad ingrossarsi e a dilatarsi.
    Tale condizione si presenta clinicamente con sintomi quali:

In questo caso il quadro clinico diventa ingravescente e piuttosto pericoloso per la vita del neonato, ed è perciò richiesto un intervento chirurgico d’urgenza per risolvere la problematica acuta.

Possono inoltre manifestarsi:

  • Subocclusione intestinale paradossa: in alcuni casi si ha l’emissione di meconio, ma solo parzialmente; persiste un quadro con emissione di gas e diarrea cronica, poiché l’intestino riesce a funzionare correttamente in maniera parziale. Tale situazione può rispondere bene a piccoli clisteri e a lassativi; è quindi una condizione a limite che permette un intervento chirurgico programmato non appena viene fatta diagnosi.
  • Subocclusione intestinale di lieve entità: è una situazione ancora più sfumata con il neonato che riesce a canalizzarsi ma solo per alcuni periodi, seguiti da fasi di occlusione. La mucosa intestinale è sofferente per via della dilatazione e vi è il rischio di sovra-crescita batterica. In queste situazioni vi sarà un ritardato accrescimento del neonato con sintomi tipici dell’anoressia, anemia e frequenti infezioni non solo intestinali.

Diagnosi

La diagnosi è basata sul riconoscimento dei sintomi e del quadro clinico coadiuvato da alcuni esami strumentali.

La ritardata emissione di meconio è quasi sempre la prima spia di una possibile patologia a livello della funzionalità intestinale e in tal caso va subito valutata la possibile presenza di una malattia di Hirschprung.

Con l’esame obiettivo si evidenzia l’addome molto disteso di questi neonati e si procede all’esplorazione digito-rettale: nella malattia di Hirschprung avremo un ipertono sfinteriale, ovvero la costrizione muscolare dello sfintere anale durante l’esplorazione è patologicamente aumentata. Inoltre l’ampolla rettale risulterà vuota e priva di feci, ad indicare la presenza di un blocco a monte, ovvero a livello del sigma.

Dal punto di vista strumentale si effettua un clisma opaco, un esame radiologico che prevede l’iniziale somministrazione di mezzo di contrasto radio-opaco attraverso un clistere. Successivamente si esegue una radiografia del basso addome e si potrà in questo modo visionare gran parte del colon con le pareti “verniciate” dal mezzo di contrasto radio-opaco. In caso di malattia di Hirschprung si renderà evidente un’ostruzione a livello del sigma-retto con il mezzo di contrasto che a questo livello avrà un disegno filiforme: tale immagine viene descritta come disegno “a coda di topo”.

Il gold-standard che ci dà la certezza di malattia di Hirschprung è la biopsia a livello rettale: con gli studi anatomo-patologici ed istologici eseguiti sulla biopsia si dimostra l’assenza parziale o completa dei gangli nervosi mioenterico e sottomucoso, e l’iper-espressione della acetilcolinesterasi.

La malattia di Hirschprung entra in diagnosi differenziale con altre patologie con quadro clinico piuttosto simile:

  • atresia ano-rettale,
  • pseudo-ostruzione intestinale cronica,
  • tumori a livello pelvico,
  • ileo da meconio da altre cause, come la fibrosi cistica.

Cura

Il trattamento della malattia di Hirschprung è prettamente chirurgico e consiste nell’asportazione del tratto intestinale agangliare patologico e confezionamento di colostomia di scarico. Per colostomia si intende l’abboccamento del tratto di colon normale a monte della stenosi alla cute, dove i gas e le feci potranno fuoriuscire normalmente ed essere raccolti in buste di raccolte predefinite. Spesso quest’intervento è salva-vita e deve essere eseguito il più rapidamente possibile.

Dopo un certo periodo di tempo si potrà eseguire la ricanalizzazione intestinale con il confezionamento di un’anastomosi che ripristina la continuità intestinale.

Fonti e bibliografia

  • Patologia chirurgica: Patel-Leger e coll. Ed. Masson
  • Chirurgia. Basi teoriche e chirurgia generale – Chirurgia specialistica vol.1-2 di Renzo Dionigi. Ed. Elsevier

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Dissezione aortica: cause, sintomi, pericoli e cura

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Cos’è la dissezione aortica?

Per dissecazione o dissezione aortica s’intende una grave condizione medica di tipo vascolare in cui l’aorta, il più grande vaso arterioso dell’organismo, viene a subire una sorta di lacerazione della sua parete con gravi squilibri emodinamici ed elevato rischio di morte.

Nello specifico nella dissecazione si viene a creare una fessura dello strato più interno della parete del vaso (intima) con il sangue che prende questa falsa via creando un falso lume; in poco tempo questo falso lume può arrivare alla rottura con stravaso di ingenti quantità di sangue fuori dal vaso con gravissime emorragie interne ed esito fatale nella stragrande maggioranza dei casi.

Esemplificazione della dissezione aortica

iStock.com/nmfotograf

Le principali cause sono:

I sintomi principali della dissecazione aortica sono:

La diagnosi richiede una batteria standard di esami che vengono eseguiti in urgenza non appena si giunge in pronto soccorso:

  • ECG,
  • esami di laboratorio
  • e TC total body con mezzo di contrasto;

proprio grazie a quest’ultima si giunge ad una diagnosi precisa e ci si orienta sulla gravità della condizione.

Il trattamento è basato su una gestione rianimatoria in terapia intensiva e sull’utilizzo di farmaci antipertensivi che cercano di arrestare la progressione del disturbo.

L’intervento chirurgico è fattibile sono il alcuni casi e si basa sulla rimozione della sezione di aorta patologica e sua ricostruzione mediante una protesi sintetica. In alternativa è possibile l’inserimento di uno stent endovascolare che bypassa (cioè aggira) il falso lume creatosi, consentendo il ripristino della perfusione degli organi viscerali.

Purtroppo la dissecazione aortica è un’emergenza medica a prognosi quasi sempre infausta con un tasso di mortalità che raggiunge il 90% dei casi; nel 20% dei casi, il soggetto muore prima di poter raggiungere l’ospedale più vicino.

Cause

L’aorta è la più grande arteria dell’organismo; riceve sangue ricco di ossigeno dal cuore e lo distribuisce a tutto l’organismo attraverso le sue diramazioni.

Andamento dell'aorta nell'organismo

Immagine originale di Edoarado – Own work based on: Arterial System en.svg, Coronary arteries.svg., CC BY-SA 3.0, Link

È costituita da una parete a 3 strati:

  • intima: la più interna a contatto con il sangue, formata da endotelio;
  • intermedia: formata da tessuto connettivo e muscolare;
  • avventizia; strato più esterno che forma una guaina connettivale intorno al vaso.

In caso di dissecazione si viene a creare una piccola iniziale lacerazione nel contesto della parete intimale, attraverso cui il sangue ad alta pressione comincia ad insinuarsi arrivando a formare un falso lume.

Particolare della dissezione

iStock.com/nmfotograf

Lo step patogenetico successivo è rappresentato poi dall’estensione del falso lume con il sangue che ad alta pressione porta ad uno slaminamento della tonaca intima dall’intermedia che si fa strada sino a obliterare gli sbocchi dei vasi arteriosi che originano dall’aorta.

Già a questo punto si vengono a creare importanti squilibri emodinamici, poiché gran parte del flusso del sangue non arriva agli organi principali che iniziano ad andare incontro a sofferenza ischemica (ovvero da riduzione dell’apporto di ossigeno).

Infine la lacerazione anche del falso lume porta il sangue a riversarsi fuori dal vaso con gravissime emorragie interne che risultano quasi sempre inarrestabili e fatali.

La dissecazione aortica è più frequente negli uomini rispetto alle donne, con un picco di incidenza che si registra dopo i 60 anni.

I più importanti fattori predisponenti che possono portare alla dissecazione sono:

  • Ipertensione arteriosa: la pressione alta tende a danneggiare le pareti vascolari delle arterie e rappresenta perciò una delle cause più importanti di dissecazione, soprattutto quando non è adeguatamente controllata da una terapia farmacologica.
  • Aneurisma dell’aorta: si intende la dilatazione della parete e la formazione di un piccolo “sacco” che origina in un punto di minor resistenza dell’aorta; col tempo le pareti di questo “sacco” possono dilatarsi sempre più ed arrivare alla rottura.
  • Arteriosclerosi: patologia che prevede una calcificazione con conseguente indebolimento, della parete delle arterie.
  • Valvole aortiche patologiche, come difetti congeniti o acquisiti.
  • Coartazione aortica: restringimento patologico del lume dell’aorta.
  • Traumatismi: in caso di incidenti stradali, colluttazioni, traumi da arma da fuoco o da arma bianca.
  • Patologie congenite del connettivo: come la sindrome di Marfan o la sindrome di Ehlers-Danlos, che portano ad una produzione di collagene difettoso che quindi indebolisce la resistenza e l’integrità delle pareti vascolari come quelle dell’aorta.
  • Complicanze di interventi chirurgici eseguiti a livello cardiaco, o durante alcune procedure vascolari come l’angiografia o l’aortografia.

Classificazione

In base all’anatomia le dissezioni vengono classificate in:

Classificazione di De Bakey:

  • Tipo I: (50% dei casi): la dissecazione origina dall’aorta ascendente e si estende sino all’arco aortico.
  • Tipo II: la dissecazione si limita all’aorta ascendente.
  • Tipo III: la dissecazione origina dall’aorta discendente e si può estendere per tutta la lunghezza del vaso (tipo III a non supera il diaframma, tipo III b supera il diaframma raggiungendo l’aorta addominale).

Classificazione di Stanford:

  • Tipo A (prossimale): la dissecazione coinvolge l’aorta ascendente e arco aortico.
  • Tipo B (distale): la dissecazione origina e si estende per tutta l’aorta discendente.

Sintomi

Il sintomo principale di questa grave patologia è senz’altro rappresentato dal dolore lancinante, improvviso, che origina in completo stato di benessere e che viene descritto come una “morsa o taglio” a livello toracico in primis, e che poi si estende dal collo verso la schiena e tra le scapole sino alla zona lombare (ricalcando quello che è il decorso anatomico dell’aorta).

Il dolore è poi accompagnato da tanti altri sintomi meno specifici:

  • nausea e vomito,
  • perdita di coscienza e caduta al suolo,
  • dolore addominale o diffuso in tutto il tronco sia anteriormente che posteriormente con possibilità di infarto intestinale,
  • grave dispnea (sensazione di difficoltà respiratoria e di mancanza d’aria),
  • sudorazione algida (freddo),
  • tachicardia e tachipnea (rispettivamente aumento della frequenza cardiaca e respiratoria),
  • dolore cardiaco di tipo ischemico, in caso di coinvolgimento delle coronarie,
  • sensazione di gambe fredde e pesanti,
  • deficit neurologici gravi da ictus, in caso di coinvolgimento della carotide, con mancato apporto di sangue al cervello e stato comatoso,
  • insufficienza multiorgano,
  • emorragia massiva con conseguente exitus (morte).

Diagnosi

La diagnosi di dissecazione aortica non è semplice, ma dev’essere sospettata quanto prima vista la gravità del quadro clinico che si instaura in breve tempo.

Dal punto di vista clinico può essere dirimente la descrizione del dolore lancinante e la sua irradiazione posteriormente tra le scapole e verso il basso, ma purtroppo spesso i pazienti colpiti da tale patologia arrivano al pronto soccorso in condizioni critiche e in stato comatoso.

Gli esami ematochimici di laboratorio possono mostrare una grave anemizzazione con drastica riduzione

Il controllo dei parametri vitali mette in evidenza

  • una grave ipotensione (abbassamento della pressione),
  • tachicardia e tachipnea marcate,
  • una riduzione della saturazione di ossigeno.

L’elettrocardiogramma può mostrare una grave sofferenza cardiaca di tipo ischemico, nel caso siano state coinvolte ed occluse le arterie coronarie.

La radiografia del torace mostra un allargamento del mediastino (zona anatomica in cui sono presenti il cuore e la prima parte dell’aorta).

La TC con mezzo di contrasto eseguita in regime di massima urgenza è il gold-standard per la diagnosi di questa patologia: riesce a descrivere accuratamente la presenza del falso lume, l’occlusione dei rami arteriosi che originano a vari livelli dall’aorta e la conseguente sofferenza degli organi viscerali, e l’eventuale emorragia da lacerazione completa dell’aorta stessa (con emotorace, emopericardio ed emoperitoneo).

Cura

La dissecazione aortica rappresenta un’emergenza medica e chirurgica che solo raramente riesce ad avere una prognosi positiva.

Non appena viene formulata la diagnosi il paziente dev’essere quanto prima trattato in terapia intensiva con gestione rianimatoria, per il monitoraggio dei parametri vitali.

Dal punto di vista farmacologico si può soltanto cercare di ridurre la gravità del quadro clinico ed evitare ulteriori peggioramenti. Ad oggi si utilizzano farmaci per far ridurre la pressione (come beta-bloccanti e nitroprussiato di sodio) che diminuiscono la pressione esercitata dal sangue sulla parete aortica, arrestando la progressione del disturbo.

La chirurgia può essere risolutiva solo in casi particolari e quando il rischio legato all’intervento chirurgico non sia troppo elevato.

Il chirurgo vascolare e/o il cardiochirurgo intervengono per riparare la lesione ed essenzialmente vanno a rimuovere la parte dell’aorta danneggiata col falso lume e ricostruiscono la continuità del vaso con una protesi sintetica. Altro approccio può essere l’inserimento di uno stent mediante cateterismo vascolare che va a creare un “nuovo lume” artificiale all’interno dell’aorta bloccando l’afflusso di sangue verso il falso lume.

Purtroppo per questa condizione medica la prognosi risulta essenzialmente infausta, con l’exitus che raggiunge il 90% nel corso delle due settimane successive all’evento.

Fonti e bibliografia

  • Chirurgia. Basi teoriche e chirurgia generale – Chirurgia specialistica vol.1-2 di Renzo Dionigi. Ed. Elsevier

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Piede diabetico: sintomi, foto, pericoli, cura

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Introduzione

Il piede diabetico è una delle più serie e invalidanti complicanze a lungo termine del diabete mellito; tra le principali conseguenze della patologia troviamo:

  • la neuropatia diabetica, ossia una cattiva sensibilità prevalentemente a carico degli arti inferiori che si manifesta con formicolii, crampi, disordini dell’andatura e alterazioni percettive (incapacità di percepire il dolore, il caldo, il freddo);
  • l’arteriopatia diabetica, cioè una condizione patologica attribuibile a disordini nella circolazione ematica delle arterie (una cattiva circolazione sanguigna);

il danno neurologico (ovvero la neuropatia diabetica) è responsabile quindi di un’alterazione nelle capacità sensitive del paziente, il quale potrebbe non accorgersi, ad esempio, della presenza di ferite, ustioni, congelamento, … in quanto viene meno la capacità di percepire gli stimoli che giungono a livello del piede e di rispondere adeguatamente al dolore.

Inoltre, poiché spesso alla neuropatia diabetica si accompagna anche un’alterazione della circolazione a carico degli arti inferiori (arteriopatia o lesioni vascolari), anche una piccola ferita potrebbe complicarsi causando danni molto seri, come la formazione di ulcere sanguinanti in grado, nel tempo, di evolvere in cancrena (putrefazione massiva e necrosi del tessuto che dovrà essere sottoposto, nella maggior parte dei casi, ad amputazione).

È dunque molto importante tenere sotto controllo il diabete mellito, attenendosi alle visite e alle terapie prescritte, con uno scrupoloso controllo della glicemia, perché se sottovalutato e non opportunamente trattato e compensato potrebbe compromettere la salute e la vita stessa del paziente.

Schematizzazione del piede diabetico

iStock.com/VectorMine

Cause

Alla base del piede diabetico c’è il diabete, una patologia cronica metabolica, causata da fattori ereditari e ambientali e caratterizzata da elevati livelli di glucosio nel sangue per un’alterata quantità o funzione dell’insulina (l’ormone ipoglicemizzante prodotto dal pancreas, che consente l’ingresso di glucosio nelle cellule e il suo utilizzo come fonte di energia).

Sebbene le complicanze di questa malattia possano interessare tutto l’organismo (il diabete infatti può determinare patologie cardiologiche, insufficienza renale, cecità, alterazioni del sistema nervoso e circolatorio), le lesioni ulcerative che si manifestano nel piede diabetico sono tra le più temute, perché in grado di esporre al rischio di amputazione dell’arto e talvolta ad esito fatale.

Il 40-70% di tutte le amputazioni delle estremità inferiori (in primis del piede) sono correlate al diabete mellito e il piede diabetico rappresenta spesso il sintomo più evidente di una malattia cardiovascolare diffusa, che può riguardare non solo la circolazione dell’arto inferiore, ma anche le coronarie (i vasi che irrorano il cuore), causando un rischio maggiore di cardiopatia ischemica.

Il diabete è infatti responsabile di una riduzione della quantità di sangue in grado di raggiungere i piedi, permettendo il rifornimento di ossigeno e altre sostanze nutritive; non disporre di una sufficiente quantità di sangue che scorre negli arti inferiori e nei piedi può rendere difficile la guarigione di una ferita o di un’infezione. Nel peggiore dei casi la ferita non guarisce e, anzi, può evolvere fino alla gangrena (morte e decomposizione dei tessuti).

Il diabete può inoltre causare danni ai nervi (una condizione chiamata neuropatia diabetica) ed indurre la comparsa di formicolio e dolore, ma soprattutto riduce la sensibilità ai piedi, perdendo la capacità di avvertire la comparsa di una vescica, un’escoriazione, un’ustione, …

Neuropatia diabetico e peggioramento della circolazione diventano l’innesco di una pericolosa spirale in cui ferite e ulcerazioni diventano sempre più difficili, talvolta impossibili da curare.

Foto e immagini

Ulcera sulla piante di un piede di un paziente diabetico

iStock.com/Cathy_Britcliffe

Ferita che non si chiude sulla pianta di un piede diabetico

iStock.com/Cathy_Britcliffe

Deformità del piede causata dai danni neurologici indotti dal diabete

By MedicalpalOwn work, CC BY-SA 4.0, Link

SI segnala infine questa immagine, che tuttavia potrebbe impressionare soggetti sensibili a causa del profondo danno presente (immagine di Intermedichbo – https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Diabetic_foot_syndrome.JPG, CC BY-SA 4.0, Link).

Sintomi

I sintomi iniziali di un piede diabetico possono essere:

  • aumento della temperatura del piede,
  • alterazione della sensibilità (con perdita di risposta agli stimoli termici, tattili e dolorifici degli arti inferiori),
  • presenza di bolle, tagli, graffi o ulcere,
  • formicolii (possono insorgere di notte e compromettere il sonno),
  • pelle fredda al tatto e pallida (può essere un importante campanello di allarme),
  • sensazione di “punture di spillo “a livello dei piedi e delle gambe.

Nel tempo questi sintomi possono evolvere e, nel caso in cui si associ un serio danneggiamento dei nervi del piede, si potrò manifestare:

  • comparsa di ulcere,
  • deambulazione scorretta,
  • infezioni (che possono progredire fino a raggiungere i piani profondi della pelle e arrivare alle ossa).

Sebbene non comune, i danni neurologici indotti al piede dal diabete possono causare la comparsa di deformazioni come il piede di Charcot, una patologia che potrebbe esordire con

  • arrossamenti,
  • calore
  • e gonfiore.

Successivamente le ossa del piede possono spostarsi o addirittura rompersi, causando la comparsa di deformazioni.

Qualora si osservi anche solo uno di questi sintomi, è opportuno fare ricorso ad un medico, in modo da agevolare un’individuazione precoce di questa condizione clinica.

Diagnosi

Essendo il piede diabetico una complicanza neuropatica del diabete mellito, la gestione e il monitoraggio del paziente diabetico risultano fondamentali per prevenirne l’insorgenza; verranno quindi effettuati controlli che includono alcuni esami, come:

  • Anamnesi ed esame fisico: il medico dopo aver raccolto la storia clinica del paziente, valuterà attentamente i suoi segni vitali (temperatura corporea, battito cardiaco, pressione arteriosa e frequenza respiratoria) ed effettuerà test per appurare la soglia di sensibilità di mani e piedi e la circolazione degli arti inferiori.
  • Analisi del sangue: consentono di valutare l’eventuale presenza di un’infezione e di altre patologie del sangue, oltre ovviamente ai parametri classici del diabete come la glicemia e l’emoglobina glicata.
  • Radiografia: può essere presa in considerazione qualora si vogliano escludere danni a carico delle ossa o corpi estranei nei tessuti molli (ad esempio  gas in ulcera nel caso di cancrena gassosa in atto).
  • Ecografia: il medico può richiedere, se necessario, l’eco doppler per la valutazione dello stato dei vasi sanguigni.
  • Angiogramma: è eseguito mediante l’infusione di mezzo di contrasto e consente di ottenere la rappresentazione dei vasi sanguigni dell’organismo.

Cura

Grazie al supporto di un team multidisciplinare negli ultimi anni si è osservata una riduzione del tasso d’amputazione compresa tra 49-85%.

La cura del piede diabetico consiste in:

  • medicazioni personalizzate e piano terapeutico atto a garantire la rivascolarizzazione dell’arto interessato,
  • rimozione dei tessuti non vitali e loro medicazione con bende e garze sterili,
  • adozione di tutori e superfici di appoggio a scopo preventivo,
  • antibiotici specifici contro il patogeno in caso di infezione,
  • terapia del dolore (previo consulto medico) con analgesici e antidolorifici,
  • ossigenoterapia iperbarica: efficace nell’inibire la proliferazione di batteri anaerobi e nel favorire la cicatrizzazione delle ferite,
  • trattamenti rimodellanti, rigenerativi e ricostruttivi.

Prevenzione

Sottoponendosi a visite e controlli frequenti è possibile verificare il rischio che una persona affetta da diabete possa presentare questa complicanza, evitando, inoltre, che la patologia degeneri o si aggravi.

Il programma di prevenzione, prevede:

  • identificazione del piede a rischio: è fondamentale la valutazione da parte di un diabetologo che, a seconda dei casi, potrà programmare controlli mensili, trimestrali oppure annuali.
  • Ispezione periodica ed esame del piede a rischio: consiste nel verificare lo stato di igiene e l’uso di calzature adeguate, nonché l’eventuale presenza di deformità, ferite, lesioni ulcerative (anche pregresse).
  • Educazione dei pazienti, dei familiari e del personale sanitario: è molto importante che il paziente sia istruito sulle potenziali ripercussioni della malattia sulla salute del piede e che si sottoponga giornalmente ad un auto-esame per verificare la presenza di lesioni e di ulcere; qualora si notassero dolori, formicolii o alterazioni della sensibilità del piede, è opportuno recarsi in un centro diabetologico specializzato.
  • Utilizzo di calzature adeguate: le calzature non dovrebbero essere né troppo larghe, né troppo strette e non dovrebbero presentare bordi o cuciture irregolari; sono da preferire scarpe che si adattino alla biomeccanica e alla deformità del piede del paziente.
  • Trattamento di eventuali lesioni pre-ulcerative: comprende la rimozione dei calli, la protezione di eventuali vesciche (o il loro drenaggio), il trattamento di unghie incarnite o ispessite (bisogna fare molta attenzione quando si tagliano le unghie, in quanto il deficit di sensibilità del piede, soprattutto se associato ad alterazioni nella microcircolazione, potrebbe far si che il paziente si provochi delle piccole lesioni sanguinanti che possono diventare molto pericolose se trascurate), trattamento delle infezione fungine.

Fonti e bibliografia

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Episiotomia, tutto quello che devi sapere

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Che cos’è l’episiotomia?

L’episiotomia (anche detta perineotomia) è una procedura chirurgica molto diffusa in ambito ostetrico, adottata per agevolare il passaggio del feto attraverso il canale del parto, alla fine del periodo espulsivo, ovvero quando il bambino sta per nascere.

Questa operazione chirurgica, di solito praticata in anestesia locale, prevede l’esecuzione di un’incisione del perineo (lo spazio compreso tra la vulva e l’ano) e della parete posteriore della vagina, per ampliarne l’apertura, quando la testa del bambino comincia ad affacciarsi verso l’esterno.

Durante alcuni parti esiste il rischio che il perineo si laceri durante la nascita del bambino, procedere ad un taglio di tipo chirurgico consente di prevenire che questo accada, permettendo una miglior guarigione dei tessuti (la letteratura disponibile indica che, soprattutto in caso di primo parto, il rischio di andare incontro a lesioni gravi del retto e dei muscoli presenti sia superiore in caso di lacerazione traumatica).

Quando è indicata l’episiotomia?

Nonostante sia stata utilizzata in diversi Paesi come pratica medica “di routine” nel corso di un parto spontaneo, per moltissimi anni, oggi il suo utilizzo è meno diffuso e le indicazioni terapeutiche sono ristrette ad alcuni casi specifici:

  • Il bambino si trova nel canale del parto (la testa del bebè comincia a scendere verso lo stretto pelvico) e sono presenti segni di sofferenza fetale.
  • La vagina non si dilata spontaneamente, perché il parto avviene troppo rapidamente.
  • Se il bambino presenta una distocia (ovvero una posizione non ottimale), in particolar modo di spalla.
  • La testa del bambino è troppo grande rispetto all’apertura vaginale.
  • In alcuni casi di parto operativo (ovvero che preveda l’utilizzo di ventosa ostetrica e in rarissimi casi, del forcipe).

Presunti vantaggi, ancora oggi discussi, deriverebbero altresì dalla possibilità di ridurre:

  • Nella madre, il rischio di lacerazione del perineo e la possibilità di incontinenza fecale o urinaria dovuta al parto;
  • Nel feto, il rischio di alcune complicanze, tra le quali la distocia di spalla o l’ipossia (in travagli particolarmente complicati).

L’incisione viene praticata in anestesia?

Nel caso in cui l’episiotomia venga praticata nel momento più opportuno, e cioè poco prima della nascita, quando i tessuti materni sono molto distesi per cui il taglio risulterebbe molto superficiale, potrebbe non essere eseguita alcuna anestesia.

Nel caso in cui l’incisione venga praticata prima che la testolina del bambino sia scesa in vagina, potrebbe essere necessario eseguire un’anestesia locale, perché il taglio potrebbe coinvolgere più strati muscolari.

L’anestesia locale è invece sempre effettuata dopo la procedura, quando è necessario applicare dei punti per suturare la ferita chirurgica (di solito sono utilizzati punti riassorbibili che non richiedono una rimozione ospedaliera).

Come si esegue?

L’incisione viene eseguita con delle specifiche forbici quando i tessuti femminili sono già particolarmente distesi, ovvero quando la testa del bambino si affaccia attraverso l’apertura vaginale, generalmente in anestesia locale.

Vengono recisi

  • cute,
  • sottocute
  • e muscolo,

attraverso un’incisione a tutto spessore e, a seconda della tipologia di episiotomia eseguita, saranno diversi i muscoli interessati.

Possiamo distinguere:

  • episiotomia laterale, che prevede l’esecuzione di un’incisione piuttosto estesa, eseguita tagliando per 3 cm il muscolo del bulbo cavernoso (a livello delle grandi labbra vaginali), ma anche altri muscoli, come il muscolo profondo del perineo e fibre muscolari dell’elevatore dell’ano;
  • episiotomia mediana, che non recide vere e proprie fibre muscolari, è praticata dalla parte inferiore dell’introito vaginale, in direzione dell’ano, incidendo fibre del nucleo fibroso del perineo; in questo caso viene praticato un taglio di pochi millimetri tra vagina e ano.
  • episiotomia mediolaterale, un’opzione di compromesso tra le due precedenti e la più praticata in assoluto, in quanto associata ad un ridotto trauma chirurgico (coinvolge il solo muscolo bulbo-cavernoso).
Rappresentazione della direzione in cui viene effettuato il taglio durante l'episiotomia

By CFCFOwn work, CC BY-SA 4.0, Link

La scelta del tipo di incisione è stabilita dal ginecologo sulla base delle caratteristiche della paziente e del feto al momento del parto; in linea di massima, si preferisce l’adozione dell’incisione mediana, in quanto risulta meno demolitiva e con tempi di guarigione più rapidi.

Trattamento post-operatorio

Subito dopo la nascita del bambino l’incisione viene richiusa attraverso dei punti di sutura (di norma riassorbibili), sempre in anestesia locale.

Successivamente la ferita viene controllata quotidianamente durante il ricovero e dopo circa 40 giorni dal parto, durante il controllo di routine.

A seguito dell’episiotomia rimarrà una piccola cicatrice che, se la sutura è stata ben eseguita (questo è fondamentale non solo da un punto di vista estetico, ma anche per il recupero della funzionalità e della sensibilità dell’area genitale), sarà visibile solo ad un occhio esperto.

Tempi di guarigione e come favorirla

I tempi di guarigione sono soggettivi ed è difficile delineare tempistiche precise; nei primi giorni dopo il parto è possibile accusare fastidi e la cicatrizzazione dell’episiotomia potrebbe risultare piuttosto dolorosa, con difficoltà posturali in particolar modo quando si sta sedute (per questo può essere utile l’utilizzo di una “ciambella” per sedersi evitando pressioni dirette sulla cicatrice e l’applicazione di impacchi freddi).

Risulta importante, in questa prima settimana e fino a completa guarigione, disinfettare con cura la ferita, anche più volte al giorno (e sempre dopo la minzione e la defecazione), prestando attenzione che risulti ben asciutta, dopo ogni lavaggio.

Occasionalmente il proprio ginecologo potrebbe consigliare l’utilizzo di creme o spray anestetizzanti, per attutire il dolore, che è comunque generalmente sopportabile.

Episiotomia e rapporti sessuali

Nelle settimane successive al parto molte donne si sentono doloranti e stanche, indipendentemente dal fatto che abbiano subito o meno un’episiotomia; anche per questo è buona norma aspettare almeno un mese dal parto, prima di riprendere l’attività sessuale, ma le tempistiche sono variabili ed è bene ascoltare il proprio corpo, rispettare i propri tempi e chiedere consiglio al medico nel caso sopraggiungano dubbi o non ci si senta ancora in forma.

In caso di episiotomia è molto comune avvertire dolore durante i primi mesi, ma questo in genere migliora con il tempo; è importante essere sinceri con sé stesse e con il partner, per evitare che l’intimità diventi un fastidio piuttosto che un piacere, cercando eventualmente alternative alla penetrazione.

Il dolore in alcuni casi è legato anche alla secchezza vaginale, in questo caso si può porre rimedio ricorrendo ad un lubrificante acquistabile in farmacia (verificandone la compatibilità con il preservativo, in quanto è possibile rimanere incinta già tre settimane dopo il parto).

Rischi e complicanze

Negli ultimi anni, valutazioni statistiche e studi scientifici condotti in diversi Paesi hanno scoraggiato l’utilizzo routinario dell’episiotomia, sottolineando alcuni svantaggi legati alla procedura, tra cui:

  • Aumento delle emorragie post-parto (per l’inibizione della produzione di ossitocina, ormone che aumenta le contrazioni uterine, favorendo l’arresto dell’emorragia, dopo il distacco della placenta).
  • Dolore locale, che può persistere per settimane o mesi dopo il parto, e ostacolare la ripresa dei rapporti sessuali.
  • Infezioni, legate alla ferita, che possono evolversi in fistole retto-vaginali.
  • Lacerazione dei muscoli del pavimento pelvico, con conseguenti problemi di incontinenza.

Per tutte queste ragioni, l’utilizzo della procedura è da limitare a casi selezionati e sopracitati.

Si può prevenire la necessità di praticarla?

Alcuni accorgimenti, adottati nel corso della gravidanza, potrebbero favorire l’elasticità dei tessuti e ridurre il rischio di episiotomie, fermo restando che la procedura dovrebbe essere riservata a casi selezionati.

  • È importante bere e tenere idratata pelle e tessuti, per impedire che il tessuto vaginale sia rigido e poco estensibile.
  • Può aiutare eseguire un massaggio perineale (sia interno che esterno), con olio idratante, per rilassare i muscoli e i tessuti posti tra vulva e ano, favorendone l’elasticità.

Va comunque sottolineato che se l’episiotomia si rende necessaria, perché il parto si sta complicando ed è necessario salvaguardare il benessere della madre e del bambino, la procedura va eseguita a prescindere, nonostante nel corso della gravidanza siano state adottate queste semplici raccomandazioni.

Fonti e bibliografia

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Papaya in frutto, semi e fermentata: le proprietà

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Introduzione

La papaya (Carica papaya, della famiglia delle cariacee) è una pianta originaria delle isole Molucche, in Indonesia, diffusasi poi nelle aree tropicali e sub-tropicali del centro America, Filippine, India e Africa. Il frutto maturo, di colore giallo-arancio, ha una caratteristica forma ovoidale, che ricorda quella della zucca, e può raggiungere fino ai 5Kg di peso.

Le prime testimonianze sull’utilizzo della pianta risalgono al conquistatore spagnolo Hernan Cortes: gli Aztechi, al termine di un lauto banchetto, gli offrirono “un frutto simile a un melone”, per aiutarlo a digerire le eccessive libagioni. Quando chiese loro il nome della pianta, gli fu risposto con quello che lui intese “Ababai”: pare che il nome spagnolo papaya derivi da una “traduzione” spagnola di questo suono.

Le popolazioni dei Caraibi chiamavano la papaya “frutto degli angeli” – e con questo nome lo conobbe Cristoforo Colombo quando approdò nel Nuovo Mondo. Vasco de Gama lo definì “albero d’oro dell’eterna giovinezza” [2].

I frutti, le foglie, i semi e il lattice della pianta sono stati usati nella medicina popolare a scopo curativo per i più svariati scopi, dalle infezioni fungine al mal di testa ai problemi di stomaco. Nonostante le prove scientifiche sull’efficacia della pianta restino sotto molti aspetti ancora lacunose, ne è indubbio il valore nutraceutico e i potenziali benefici per la salute – soprattutto in ragione dell’elevata presenza di vitamine antiossidanti e di enzimi proteolitici, con dimostrata attività

  • antibatterica,
  • antivirale,
  • antifungina [5].

La polpa del frutto contiene preziosi nutrienti antiossidanti:

Le foglie e i semi di carica papaya contengono

  • enzimi proteolitici (papaina, chimopapaina), utili per la digestione delle proteine,
  • alcaloidi (caroaina, caropasemina),
  • composti polifenolici (benzil isotiocianati, tocoferoli, β-carotene e carotenoidi, flavonoidi),
  • triterpeni.

L’olio estratto dai semi contiene

  • composti fenolici,
  • acido vanillico,
  • vitamina C,
  • acido oleico, palmitico, stearico e linoleico [3, 4].

Curiosità: rispetto a frutti di uso comune quali mele, banane, arance, angurie, la papaya è quello maggior contenuto di vitamina C (61,8 mg/100 g di frutto) e di beta carotene (888 IU/100 g) [4].

Frutto della papaya

iStock.com/design56

Proprietà terapeutiche della papaya

Nella tradizione ayurvedica le proprietà attribuite alle diverse parti della pianta di papaya sono molteplici [5]:

  • Frutto maturo: carminativo, diuretico, antidiarroico, stomachico, sedativo e tonico, espettorante, vermifugo.
  • Frutto acerbo: diuretico, lassativo, antibatterico, abortigeno; utile in caso di morso di serpente per eliminare il veleno.
  • Semi: carminativi, antifertilità nel maschio, usati come pasta per il trattamento della psoriasi.
  • Radici: antifungine, diuretiche, regolarizzanti del flusso mestruale.
  • Foglie: antiasmatiche, febbrifughe, antibatteriche, vermifughe; indicate per ittero, gonorrea, disturbi del tratto urinario.
  • Fiori: indicati in caso di febbre e ittero.
  • Corteccia: attività antifungina, antiemolitica, utile per il mal di denti.

Negli ultimi anni la papaya e i suoi estratti alcolici sono stati oggetto di numerosi studi, volti a determinarne le potenzialità terapeutiche. Dagli esperimenti condotti in vitro e/o in vivo su animali sono emersi alcuni risultati interessanti in merito all’attività

  • antiossidante [5],
  • antinfiammatoria [5],
  • antipertensiva e protettiva per il sistema cardiovascolare [5,6],
  • antimicrobica, antifungina, antielmintica, antimalarica [4,7,8],
  • cicatrizzante [10,11],
  • epatoprotettiva [5],
  • ipoglicemizzante [5,12],
  • diuretica [5],
  • immunomodulante [5],
  • antitumorale [9],
  • coadiuvante nel trattamento della Sindrome Metabolica [4].

Si tratta di risultati preliminari che andranno confermati con adeguati studi clinici, ma le premesse sono molto promettenti.

Papaya fermentata

Da ormai diversi anni si trovano in commercio preparati a base di papaya fermentata (FPP- Fermented papaya preparation), ottenuta tramite un processo di fermentazione messo a punto da una ditta giapponese, la Osato (in Italia distribuita dalla Named).

I riflettori sulla papaya fermentata si accesero ai tempi in cui il noto immunologo francese Montagnier, premio Nobel nel 2008 per gli studi sull’HIV, riferì di aver consegnato a Papa Giovanni Paolo II, già sofferente per i sintomi del Parkinson, un preparato antiossidante a base di papaya fermentata – già utilizzato con buoni risultati su altri pazienti con la stessa patologia e sui malati di AIDS, in combinazione con la terapia convenzionale. Tuttavia, non ci fu mai conferma ufficiale sul fatto che il Papa avesse assunto o meno quegli integratori.

La papaya fermentata (FPP), prodotta tramite fermentazione enzimatica del frutto acerbo, ha dimostrato di possedere una potente attività di scavenger [13,14] – letteralmente di “spazzino” dei radicali liberi dell’ossigeno, specie reattive dannose per le cellule quando in eccesso.

In uno studio condotto su 54 pazienti anziani (non affetti da malattie invalidanti e di età compresa tra 72 e 84 anni) è stata somministrata una preparazione a base di FPP (alla dose di 9 g/die) oppure un placebo, per un periodo di 3 mesi: al termine della sperimentazione l’effetto antiossidante della FPP si è dimostrato significativamente superiore al placebo. Il meccanismo d’azione attraverso cui si esplichi questa attività antiossidante è ancora materia di studio e sono sicuramente necessari ulteriori studi su un numero maggiore di individui, ma i risultati ottenuti fanno ben sperare [15].

Risultati incoraggianti sono stati ottenuti anche su modelli cellulari del morbo di Alzheimer: la papaya fermentata si è dimostrata in grado di diminuire la produzione e l’accumulo delle specie ossidanti responsabili dello sviluppo della malattia [16].

Risultati interessanti sono stati ottenuti anche negli studi sul diabete di tipo 2: secondo una ricerca dell’Università la Sapienza di Roma, pubblicata nel 2006, l’integrazione orale di papaya fermentata è in grado di produrre una significativa riduzione dei livelli ematici di glucosio sia nei soggetti sani che in quelli diabetici – col vantaggio, in questi ultimi, di ridurre la terapia farmacologica [17].

Questi risultati sono stati confermati in uno studio successivo, in cui è stata altresì evidenziata la capacità della papaya fermentata di migliorare il quadro lipidico (livelli di colesterolo nel sangue) dopo 8 settimane di utilizzo continuativo. In più, la FPP si è dimostrata in grado di ridurre il tempo di cicatrizzazione delle ferite – rallentato in caso di diabete e possibile fonte di infezioni [18,22].

Un altro interessante ambito in cui si sta sperimentando la papaya fermentata è quello della malattia di Parkinson: nella casa di cura Villa Margherita Santo Stefano di Vicenza, ove opera – unico in Italia – il Centro per lo studio e la cura dello stress ossidativo (CSOx), è in corso uno studio su 80 pazienti per valutare se i già evidenziati benefici dell’FPP siano dovuti all’azione diretta sul microbioma intestinale, possibile coimputato nello sviluppo della malattia [19, 20]. È lo stesso direttore, il dott. Gianpietro Nordera, a riportare i benefici osservati nel corso della sperimentazione clinica con l’estratto di papaya fermentata somministrato ai pazienti affetti da Parkinson: i primi risultati della sperimentazione si sono dimostrati positivi in termini di miglioramento dei sintomi motori e nella riduzione di un marker di degenerazione del DNA cellulare (8-OHdG), particolarmente espresso nella malattia di Parkinson [21].

Sicurezza e interazioni coi farmaci

La papaya è considerata sicura quando consumata come frutto – salvo intolleranze individuali.

Come integratore è stata utilizzata fino alla dose di 9 g/die per le malattie degenerative e non sono stati osservati effetti collaterali significativi, nemmeno su popolazione anziana [23].

È tuttavia opportuno segnalare che secondo uno studio in vivo su animali, l’estratto di papaya fermentata potrebbe interagire, se preso in modo continuativo, con l’Amiodarone, un farmaco antiaritmico [24].

MedLine Plus segnala altresì una possibile interazione della papaya fermentata con la Levotiroxina, farmaco per la funzionalità tiroidea (ipotiroidismo in particolare) e suggerisce cautela in caso di utilizzo concomitante con ipoglicemizzanti orali per la terapia del diabete e anticoagulanti, poiché l’effetto del farmaco potrebbe risultare amplificato [1].

Fonti e bibliografia

  1. MedlinePlus – Papaya
  2. Papaya
  3. ECronicon Phytochemical Analysis of Papaya Leaf Extract: Screening Test Snigdha Shubham, Ravish Mishra, Narayan Gautam ET AL.
  4. Nutrients. 2019 Jul; 11(7): 1608. Nutraceutical Potential of Carica papaya in Metabolic Syndrome Lidiani F. Santana, Aline C. Inada et al.
  5. Elsevier, Asian Pacific Journal of Tropical Disease, Volume 5, Issue 1, January 2015, Pages 1-6 A review on medicinal properties of Carica papaya Linn. TarunVij, Yash Prashar
  6. Life Sci. 2002 Jun 21;71(5):497-507. Effects of papaya seed extract and benzyl isothiocyanate on vascular contraction. Wilson RK, Kwan TK, Kwan CY, Sorger GJ.
  7. Ethnobot. Leafl. 2009, 2009, 4. Antimicrobial activity of Carica papaya (pawpaw leaf) on some pathogenic organisms of clinical origin from South-Western Nigeria. Anibijuwon, I.; Udeze, A.
  8. Am. J. Trop. Med. Hyg. 2001, 65, 304–308. In vitro antimalarial activity of extracts of three plants used in the traditional medicine of India. Bhat, G.P.; Surolia, N.
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Raucedine nei bambini: cause, sintomi, rimedi

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Introduzione

Con il termine “raucedine” si intende un’alterazione della voce contraddistinta da variazioni nel tono e nel timbro vocale (la voce è più bassa ed i suoni emessi appaiono poco chiari) che può comportare, nei casi più gravi, una completa afonia (perdita totale della voce).

Abbiamo già trattato la raucedine nell’adulto in un diverso articolo, cui si rimanda, ma nei bambini questa condizione è particolarmente frequente e riconosce alla base, nella maggior parte dei casi, un rigonfiamento o un’irritazione delle corde vocali dovuto all’uso protratto della voce (gridando, per esempio, prolungatamente).

Se la raucedine, poi, si presenta spesso, può determinare la comparsa di rigonfiamenti (detti noduli o polipi) sulle corde vocali che aggravano questa condizione, innescando un pericoloso circolo vizioso in grado di autoalimentarsi (in presenza di riduzione della voce il bambino si sforza di più per parlare, peggiorando la condizione).

Altre cause comuni di raucedine in età infantile sono:

  • laringiti,
  • inalazioni di corpi estranei,
  • traumi alla laringe.

In alcuni casi una tonalità rauca del pianto può comparire fin dalla nascita ed essere indicativa di possibili anomalie morfologiche della laringe; per questo è importante considerare, fin dalle primissime fasi dello sviluppo:

  • se il neonato o il bambino piangono con una tonalità roca,
  • se il bambino sussurra per farsi capire o presenta un tono di voce particolarmente basso.

Per diagnosticare la causa alla base della raucedine è inoltre fondamentale considerare l’eventuale presenza di altri sintomi, come:

Se in molti casi, infatti, in assenza di altri sintomi o segni, è sufficiente attuare qualche rimedio (come inalazioni di vapori ed educazione del bambino all’utilizzo della voce), in presenza di questo corteo sintomatologico è necessario impostare una terapia specifica dopo aver individuato la malattia che è alla base del disturbo.

Cause

Per un corretto inquadramento del sintomo è innanzi tutto necessario distinguere due casi:

  • raucedine acuta (esordio rapido, durata più o meno breve),
  • raucedine cronica (durata prolungata nel tempo).

Un improvviso abbassamento della voce può comparire dopo aver sforzato le corde vocali, per esempio gridando durante il gioco, ma con un po’ di riposo vocale si tratta in genere di un disturbo destinato a risolversi rapidamente.

Bambina che sta urlando

iStock.com/fizkes

Tra le altre condizioni che più comunemente conducono alla comparsa di raucedine nei bambini ricordiamo:

  • Infezioni delle vie respiratorie (, …) o un’infezione sinusale, urlare o parlare troppo forte, essere esposti al fumo o respirare aria secca può causare una voce rauca. Anche il tuo bambino può avere problemi di voce da inquinamento e allergie. A volte l’acido dallo stomaco può risalire in gola – chiamato reflusso acido – e cambiare la voce di tuo figlio. In alcuni casi, un problema con la casella vocale o la laringe provoca raucedine.

Altre condizioni frequentemente implicate nella comparsa di raucedine, sono:

  • Laringiti: affezioni della laringe diffuse nei bambini al di sotto dei tre anni che, generalmente, si risolvono senza particolari sequele; i sintomi, di solito prevalentemente notturni, sono:
    • tosse tipica “abbaiante”,
    • improvvisa difficoltà respiratoria,
    • sensazione di soffocamento,
    • talora febbre modesta,
    • mancanza di voce.

    Qualora si sospetti questa malattia è sempre buona norma rivolgersi immediatamente ad un medico perché possa istruire i genitori sul comportamento e l’eventuale terapia più opportuna da adottare. In questa categoria rientrano anche altre infiammazioni/infezioni delle vie respiratorie, come il raffreddore o l’influenza.

  • Inalazioni di corpi estranei: l’inalazione di corpi estranei si verifica quando oggetti (introdotti accidentalmente dal bambino in bocca) o bocconi di cibo, anziché decorrere lungo le vie digerenti raggiungono le vie respiratorie, determinando un’ostruzione (parziale o totale) che rende difficoltoso il passaggio dell’aria. In presenza di questa evenienza l’organismo attua un meccanismo di difesa mediante espulsione attraverso colpi di tosse; la vittima appare quindi vigile, tossisce, respira, ma il tono della voce è molto basso o non riesce a parlare. In caso di ostruzione completa delle vie aeree, invece, il bambino diventa cianotico (la pelle e le mucose appaiono bluastre) e non riesce né a tossire né a respirare.
    • Se l’ostruzione è parziale e il bambino tossisce, respira o è presente raucedine, è importante incoraggiarlo a tossire, mantenendo la calma e attendendo che la situazione si risolva.
    • Se invece l’ostruzione è totale e la vittima non respira, ma anzi sta diventando cianotica, è opportuno allertare immediatamente i soccorsi ed intervenire attuando manovre di disostruzione.
  • Traumi sulla laringe: di questa categoria fanno parte un insieme eterogeneo di quadri clinici scatenati da cause differenti che si manifestano con diversi livelli di gravità.
    • Le contusioni laringee sono lesioni (senza lacerazioni della cute) che si manifestano con alterazioni della voce o difficoltà respiratorie a seconda della sede o dell’estensione di fenomeni edematosi o emorragici prodotti dopo un trauma.
    • Le lussazioni sono causate da traumi esterni che possono coinvolgere legamenti o muscoli che fissano la laringe all’osso ioide; si manifestano con deglutizione dolorosa, accompagnata da raucedine e difficoltà nella respirazione.
    • Fratture dello scheletro della laringe, possono essere frequenti in caso di incidenti stradali o infortuni domestici. In questo caso il bambino presenterà tosse, difficoltà respiratorie, dolore all’orecchio, disordini della voce, emissione di espettorato rossastro.
    • Traumi interni, infine, possono essere la complicanza di un’intubazione endotracheale nel corso di un intervento chirurgico. In questo caso, l’alterazione del tono della voce compare da qualche giorno a qualche mese dopo l’esecuzione dell’intervento.

Raucedine cronica

Un’infiammazione prolungata, per esempio continuando ad urlare e sforzare la voce in presenza di una voce già sofferente, può in alcuni casi determinare la comparsa di noduli o polipi delle corde vocali che potrebbero dover essere asportati chirurgicamente.

Altre cause meno comuni di raucedine cronica nei bambini sono:

  • Reflusso acido: La risalita cronica degli acidi gastrici può causare infiammazione delle corde vocali, manifestandosi così in forma di sintomi atipici come raucedine e tosse secca.
  • Paralisi delle corde vocali.
  • Sinusite cronica o allergie (graminacee, polvere, …).
  • Ipotiroidismo.
  • Presenza di papilloma da HPV sulle corde vocali.
  • Radioterapia (in caso di tumore alla gola).

Fattori di rischio

Tra gli altri fattori di rischio in grado di innescare disturbi della voce ricordiamo l’esposizione al fumo e all’aria inquinata, il soggiorno in ambienti con aria molto secca e la tosse cronica.

Quando preoccuparsi

Qualora il disturbo si presenti nel bambino in maniera persistente (raucedine cronica), è importante considerare la presenza di alcuni segni:

  • Timbro della voce rauco: il bambino presenta un tono di voce rauco o graffiante, anche quando non ha alcuna patologia respiratoria, come un semplice raffreddore.
  • Tensione muscolare: durante il dialogo il bambino presenta una tensione muscolare che determina difficoltà nell’eloquio.
  • Dilatazione di vene: nel corso delle conversazioni, può essere evidente una dilatazione eccessiva delle sue vene giugulari esterne.
  • Mancanza di fiato: il bambino resta senza fiato, prima che il discorso o la frase sia stata completata.
  • Affaticamento vocale: si evidenzia un forte affaticamento vocale che si conclude, generalmente, con un abbassamento di voce.
  • Sbalzi di intensità vocale: il tono della voce non è uniforme.

In questo caso è importante confrontarsi con il pediatra per avere indicazioni su come intervenire.

Diagnosi

Il primo approccio diagnostico consiste nell’esecuzione di un’accurata indagine anamnestica, condotta in prima istanza da un pediatra, per rilevare i dettagli relativi al disturbo vocale e alla storia clinica del bambino, come:

  • durata e gravità del problema,
  • sintomi attuali e associati,
  • abitudini di vita.

Il medico procederà poi all’ispezione della gola, laringoscopia (esame che consente di visualizzare le corde vocali e il loro movimento durante la respirazione) e all’eventuale esecuzione di analisi del sangue.

Cura

A seconda della causa riscontrata sarà poi possibile intervenire mediante:

  • Trattamento logopedico: dopo opportuna diagnosi formulata attraverso visita foniatrica, è possibile avvalersi di un logopedista che aiuterà il bambino a sfruttare le potenzialità della sua voce senza sforzarla eccessivamente e favorisce l’acquisizione delle norme d’igiene vocale (evitare luoghi affollati o confusionari, ridurre la comunicazione nei luoghi molto grandi dove per esprimersi è necessario urlare, diminuire la distanza con l’interlocutore, prendere aria mentre si parla, non parlare sotto sforzo fisico, evitare di rischiarire la gola). Parallelamente, anche i genitori ricevono consigli comportamentali.
  • Trattamento medico: consiste nell’impostazione di una terapia specifica (di solito a base di antibiotici o antinfiammatori), sotto consiglio medico, per il trattamento di infezioni e di infiammazioni della laringe.
  • Trattamento chirurgico: riservato a casi eccezionali (traumi, alcuni polipi), prevede l’attuazione di procedure chirurgiche specifiche a cui segue, generalmente, una riabilitazione logopedica.

Rimedi

  1. Insegna a tuo figlio a parlare, non sussurrare, quando deve parlare. Sussurrare può essere faticoso per la voce.
  2. Evitare di frequentare luoghi affollati che richiedano di sforzare la voce per parlare.
  3. Usare un umidificatore nella camera da letto del bambino e nelle camere in cui soggiorna più spesso; si raccomanda di attenersi scrupolosamente alle indicazioni per la corretta pulizia e manutenzione del dispositivo.
  4. Invitare il bambino a bere molta acqua.
  5. Evitargli l’esposizione al fumo passivo e all’aria inquinata.
  6. Invitarlo ad evitare di raschiare la gola.
  7. Prendere sufficientemente fiato mentre si parla (evitare cioè di andare in apnea).
  8. Far riposare la voce.

Fonti e bibliografia

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Corea di Huntington: cause, sintomi, prognosi

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Introduzione

La corea di Huntington (anche nota come “morbo o malattia di Huntington”) è una rara patologia genetica neurodegenerativa a carico del sistema nervoso centrale che interessa ugualmente entrambi i sessi e colpisce meno di 1 persona ogni 100000.

L’esordio avviene solitamente tra i 30 e i 50 anni (tuttavia esistono forme giovanili di malattia) e il decorso è di solito fatale, con la morte che sopraggiunge dopo circa 15-20 anni dalla comparsa dei primi sintomi.

È caratterizzata clinicamente da:

  • presenza di movimenti involontari patologici,
  • gravi alterazioni del comportamento,
  • progressivo deterioramento cognitivo.

La malattia di Huntington è ereditaria e trasmessa con modalità autosomica dominante, questo significa che un genitore affetto ha una probabilità del 50% di trasmettere la malattia ai suoi figli, a prescindere dal sesso.

La diagnosi è posta dopo l’esecuzione di test genetici e approfondimenti strumentali (come immagini del cervello ottenute attraverso TAC e risonanza magnetica nucleare); attualmente, purtroppo, non esiste un trattamento risolutivo e la prognosi risulta dunque sfavorevole.

Cause e trasmissione

La malattia di Huntington è una patologia ereditaria che provoca la degenerazione di alcuni neuroni localizzati in specifiche aree del cervello, a livello di strutture poste in profondità chiamate gangli della base (in particolar modo caudato e putamen), ma anche in corrispondenza della parte esterna del cervello (la corteccia cerebrale).

Il caratteristico quadro clinico deriva dalla degenerazione progressiva delle cellule del cervello (i neuroni) situate in queste strutture e comprende

  • le alterazioni motorie,
  • la riduzione delle capacità cognitive (pensieri, percezione, memoria),
  • nonché le alterazioni del tono dell’umore, tipiche della malattia.

Un genitore affetto ha una probabilità pari al 50% di trasmettere la malattia, a prescindere dal sesso di ciascun figlio e dall’ordine di genitura (primogenito, secondogenito, …), poiché la mutazione responsabile della malattia è trasmessa con modalità autosomica dominante.

Nel 1983 il gene collegato alla malattia fu localizzato sul braccio corto del cromosoma 4, ma solo nel 1993, grazie al suo isolamento, fu possibile chiarire esattamente quale fosse il meccanismo genetico responsabile della comparsa di questa malattia.

Questo gene, denominato IT-15, è responsabile della produzione di una proteina, detta huntingtina, che svolge importanti funzioni nell’organismo, molte delle quali ancora ignote; quando non è colpito dalla mutazione, il gene IT-15 presenta al suo interno una specifica sequenza amminoacidica CAG che si ripete circa 10-30 volte mentre, se è presente la mutazione, tale sequenza amminoacidica si ripete per un numero eccessivo (da 39 a oltre 100 volte), causando la degenerazione neuronale che è alla base della malattia.

Sintomi

I sintomi della corea di Huntington sono ampiamente variabili da persona a persona, anche all’interno di uno stesso nucleo familiare (per esempio la malattia può esordire con comparsa di movimenti involontari in un soggetto e manifestarsi in altri prettamente con sintomi emotivi e comportamentali); un’altra caratteristica importante è il fenomeno dell’anticipazione, per cui il disturbo tende ad insorgere sempre più precocemente (riguarda quindi soggetti più giovani) quando si trasmette di generazione in generazione all’interno di una stessa famiglia.

I sintomi, che compaiono tra i 30 e i 50 anni e tendono a peggiorare con il progredire della malattia, possono essere suddivisi principalmente in 3 gruppi:

  • Sintomi emotivo-comportamentali, che comprendono quadri caratteristici di:
    • depressione (talvolta può precedere di anni o di mesi la comparsa dei sintomi motori),
    • irritabilità,
    • ansia,
    • apatia,
    • cambiamenti comportamentali (aggressività, cambiamenti di personalità, comparsa di isolamento sociale),
    • accentuazione di tratti della personalità preesistenti (una persona irritabile, per esempio, può divenire improvvisamente aggressiva),
    • altri disturbi (più rari, includono problemi psichiatrici e alterazioni di tipo schizofrenico).
  • Sintomi cognitivi\ intellettivi, che includono:
    • cambiamenti intellettivi (ridotta capacità di organizzare la routine o riduzione della capacità di affrontare nuove situazioni),
    • riduzione della memoria (è intaccata di solito la memoria a breve termine, mentre quella a lungo termine resta intatta),
    • incapacità di sostenere sforzi lavorativi.
  • Sintomi motori, molto variabili, ma facilmente riconoscibili e che tendono ad aumentare durante gli sforzi volontari, stress o eccitamento e a diminuire a riposo e durante il sonno. Tra questi:
    • impaccio motorio generico,
    • comparsa di tic,
    • alterazioni nella scrittura,
    • smorfie facciali involontarie,
    • difficoltà nella guida e nella coordinazione,
    • movimenti involontari di testa, tronco, arti (si ha difficoltà nel camminare e nello svolgimento di azioni volontarie),
    • problemi nell’articolazione del linguaggio,
    • difficoltà nella deglutizione.

Come evolve la malattia?

Il decorso della malattia è suddivisibile in alcune fasi:

  • Prima fase (stadio 1 e 2): comprende manifestazioni lievi come cambiamenti della coordinazione, comparsa di movimenti involontari, depressione o irritabilità. In questa fase i farmaci possono essere utilizzati per alleviare lo stato depressivo e i cambiamenti umorali.
  • Fase intermedia (stadio 2 e 3): si ha un peggioramento dei movimenti involontari che possono diventare molto pronunciati. Il paziente assume un’andatura barcollante che può essere confusa come la manifestazione di un abuso di alcool o droghe. Esordiscono disturbi nel linguaggio e nella deglutizione. L’autonomia funzionale del paziente si riduce (ha difficoltà anche nello svolgimento delle faccende domestiche). Anche in questi casi, possono essere adottate strategie farmacologiche per ridurre il senso di frustrazione.
  • Fase avanzata (stadio 4 e 5): i movimenti involontari aumentano di frequenza e di ampiezza (corea grave) ed evolvono in distonia (contratture muscolari persistenti) e rigidità. Il paziente perde peso perché ha difficoltà ad alimentarsi; non riesce ad esprimersi verbalmente ed è totalmente dipendente da altri per lo svolgimento delle attività quotidiane. Nonostante sia colpita la sfera cognitiva, è comunque in grado di comprendere il linguaggio e di esternare i propri sentimenti.

Le cause più frequenti di morte sono costituite da:

  • complicazioni cardiache,
  • polmonite ab ingestis,
  • ematomi da traumi cranici (per via dei movimenti involontari che possono causare una perdita dell’equilibrio);
  • suicidio (può rappresentare un grave rischio di morte, soprattutto nelle fasi precoci di malattia).

Come viene diagnosticata la malattia?

Nella sua fase iniziale la corea di Huntington può essere difficile da diagnosticare, in quanto i sintomi sono impercettibili.

Viene sospettata in base all’anamnesi familiare e al quadro clinico, ponendo attenzione all’eventuale presenza di parenti a cui sia stata fatta diagnosi di disturbi neurologici o psichiatrici, perché potrebbero aver avuto una malattia di Huntington non diagnosticata.

Test genetici possono essere eseguiti, dopo attenta consulenza genetica, per confermare la diagnosi (per il test viene prelevato e analizzato un campione di sangue).

Esami strumentali, come TAC o risonanza magnetica per immagini, possono essere svolti per controllare la degenerazione dei gangli basali e delle altre aree del cervello colpite dalla malattia, ma anche per escludere altri disturbi cerebrali.

Qual è il trattamento?

Purtroppo ancora oggi non è possibile trattare in maniera risolutiva la corea di Huntington e la prognosi è infausta, con morte che sopraggiunge dopo circa 15-20 anni dalla comparsa dei primi sintomi.

Dopo la diagnosi le persone affette dovrebbero redigere delle direttive anticipate, dando disposizione sul tipo di cura medica a cui vogliono essere sottoposti nella fase terminale.

Possono essere utilizzati antidepressivi per trattare la depressione.

Farmaci antipsicotici (come clorpromazina, aloperidolo, risperidone, olanzapina ) e farmaci che riducono la quantità di dopamina (come tetrabenazina e l’antipertensivo reserpina), possono essere impiegati, sotto controllo medico, per ridurre sintomi quali movimenti anomali e agitazione.

Fonti e bibliografia

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