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Disfonia: cause, pericoli e rimedi

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Introduzione

La disfonia è un disturbo della voce che ha come sintomo principale la raucedine. Si stima che circa il 30% della popolazione sviluppi almeno una volta nella propria vita un episodio di disfonia.

Le possibili cause sono numerose, ma più frequentemente è secondaria ad un’infiammazione della laringe; altre cause comprendono una disfonia funzionale (conseguente cioè ad un cattivo utilizzo), tumori benigni o maligni, fattori neurogeni come la paralisi delle corde vocali, l’invecchiamento fisiologico legato all’età e meno frequentemente fattori psicogeni.

Il sospetto di una grave malattia di base o la persistenza di raucedine per più di 3 mesi, dovrebbero richiedere un’indagine più approfondita mediante esami strumentali.

Il trattamento dipende dalla causa sottostante.

Cause

La disfonia è generalmente causata da un’irritazione o una lesione delle corde vocali, strutture contenute all’interno della laringe, il principale organo responsabile della produzione della voce (fonazione).

Anatomia semplificata della laringe

iStock.com/solar22

I disturbi della voce possono essere raggruppati in 2 principali categorie:

  • organici,quando secondari ad un’alterazione dei sistemi coinvolti nella fonazione,
  • funzionali, se derivano dall’utilizzo scorretto (malmenage) o inappropriato (surmenage) della voce.

Cause organiche

Tra le più comuni ricordiamo:

  • Laringite acuta (virale o batterica) e cronica (fumo, malattia da reflusso gastroesofageo o malattia da reflusso faringo-laringeo):
    • Laringite acuta: è la causa più comune di disfonia ed è quasi sempre di origine virale. Si verifica nelle infezioni del tratto respiratorio superiore e nella maggior parte dei casi è autolimitante, attenuandosi dopo 1 o 2 settimane.
    • Laringite cronica: quando una laringite acuta persiste per più settimane può sfociare in una malattia cronica che si manifesta con disfonia, tosse secca insistente e un costante bisogno di schiarirsi la gola. Le cause responsabili possono essere: fumo di sigaretta, reflusso gastroesofageo/faringo-laringeo, infiammazione cronica delle vie aeree, laringiti acute recidivanti oppure abuso di alcolici. Questa patologia dev’essere riconosciuta e trattata precocemente, visto il rischio elevato nel corso degli anni, di sviluppare un cancro alla laringe.
  • Tumori benigni o maligni alla laringe,
    • Papillomatosi ricorrente: è un’infezione causata dal papilloma virus. Tipicamente porta alla formazione di tumori benigni (papillomi) a livello della laringe. Si distinguono una forma giovanile e una negli adulti. In quest’ultimi spesso la malattia è lieve con disfonia e una riduzione del timbro vocale, mentre nei bambini spesso il sintomo principale è la dispnea (difficoltà respiratoria), accompagnata da raucedine e tosse persistente.
    • Neoplasie delle corde vocali: circa 2/3 dei tumori della laringe si localizzano a livello delle corde vocali. Il carcinoma epiteliale squamoso è il sottotipo più frequente.
  • Lesioni non cancerose (noduli o cisti alle corde vocali):
    • I polipi e le cisti delle corde vocali sono proliferazioni unilaterali che si formano sul margine libero della corda vocale e quindi ne ostacolano la funzione. Gli uomini sono maggiormente colpiti rispetto alle donne. I fattori che ne promuovono la formazione sono il fumo, una laringite cronica e traumi a livello della laringe.
    • Edema di Reinke: è un ispessimento delle corde vocali secondario soprattutto al fumo di sigaretta o al reflusso gastroesofageo. Colpisce soprattutto le donne di età compresa tra i 40 e i 60 anni. Clinicamente i pazienti presentano una voce rauca, dato che le corde vocali sono ispessite.
  • Patologie neuromuscolari che coinvolgono componenti del sistema nervoso che controllano la funzione laringea (sclerosi multipla, miastenia gravis, morbo di Parkinson, disfonia spasmodica),
    • La disfonia spasmodica è una patologia rara che si presenta quasi esclusivamente nell’età adulta e nelle donne ed è caratterizzata da spasmi involontari della muscolatura laringea. Il risultato è una voce rauca e spezzata, a volte un timbro molto basso scarsamente udibile.
  • Traumi iatrogeni (chirurgia o intubazione) o accidentali,
    • Paralisi delle corde vocali: può essere parziale (mobilità ridotta) o completa. La maggior parte delle paralisi alle corde vocali può essere attribuita a causa iatrogene come un intervento chirurgico, soprattutto a livello della tiroide, o un trauma nella regione del nervo vago o del nervo laringeo ricorrente.
  • Disfunzioni endocrine (ipotiroidismo o ipogonadismo).
  • Disturbi ematologici (amiloidosi).
  • Farmaci (corticosteroidi per via inalatoria).

Cause funzionali

Un cattivo uso della voce può evolvere in:

  • Disfonia psicogena, che colpisce soprattutto donne di età compresa tra i 20 e i 40 ani. I pazienti lamentano improvvisa raucedine o addirittura afonia acuta (perdita totale della voce). La funzione vocale è compromessa solo in contesti comunicativi perché al paziente permane la capacità di tossire forte o di schiarirsi la gola. Spesso questa patologia colpisce pazienti sotto stress psicologico e il miglior approccio terapeutico è rappresentato dalla psicoterapia comportamentale.
  • Abuso vocale (sforzare la voce in modo eccessivo e/o troppo a lungo).

Altre cause

La presbifonia è la raucedine fisiologica dell’anziano e si riscontra in circa il 25% delle persone di età superiore ai 65 anni. La frequenza è più o meno la stessa negli uomini e nelle donne. Si verifica in quanto la muscolatura della corda vocale si atrofizza nel corso del processo di invecchiamento fisiologico, dando origine a una forma più ovale della fessura della corda vocale durante la fonazione. Il risultato è una voce debole e meno intensa.

Quando la disfonia non trova, almeno apparentemente, causa si parla genericamente di disfonia idiopatica.

Nel caso dei bambini si rimanda all’articolo dedicato.

Caratteristiche della disfonia

Disfonia è un termine generico che identifica una variazione del tono fisiologico della voce. In essa possiamo riscontrare diverse condizioni, tra cui:

  • Fonastenia: affievolimento e abbassamento della voce, tipicamente legata ad una “stanchezza” delle corde vocali.
  • Diplofonia: alterazione del timbro vocale che all’ascolto risulta duplicata.
  • Xerofonia: alterazione del tono e del timbro vocale, che si presenta più basso e aspro (voce rauca).
  • Voce tremante: può essere secondaria a una malattia neurologica o muscolare, oppure legata ad uno stato ansioso.
  • Afonia: perdita totale della voce, che può essere temporanea o permanente

Quando preoccuparsi

Si raccomanda di rivolgersi tempestivamente al medico in presenza delle seguenti condizioni cliniche:

  • consumo di alcol e tabacco,
  • linfonodi cervicali ingrossati,
  • raucedine insorta in seguito a un trauma,
  • associazione con emottisi (presenza di sangue nel catarro),
  • disfagia (difficoltà a deglutire),
  • otalgia (dolore all’orecchio),
  • dispnea,
  • perdita di peso inspiegabile,
  • raucedine comparsa dopo un intervento chirurgico.

Diagnosi

La valutazione e la diagnosi di un paziente con disfonia viene effettuata da un team multidisciplinare che comprende

  • un otorinolaringoiatra (specialista che cura le malattie del distretto testa-collo)
  • e un logopedista (specialista che si occupa della valutazione delle anomalie del linguaggio e dell’articolazione della parola).

Inizialmente si raccoglie un’accurata anamnesi per valutare l’eventuale presenza di fattori di rischio, successivamente si procede ad analizzare direttamente le strutture mediante uno strumento chiamato laringoscopio, che permette di visualizzare le corde vocali ed eventuali anomalie in sede.

Esecuzione della laringoscopia

iStock.com/monkeybusinessimages

La laringoscopia può essere eseguita in qualsiasi momento, sebbene sia raccomandata quando la disfonia non si risolve entro 3 mesi dall’esordio o quando si sospetti una causa sottostante grave.

Cura e rimedi

Nel caso di disfonia temporanea e lieve possono essere utili i rimedi naturali descritti nell’articolo sulla raucedine.

Nel caso di episodi ricorrenti e persistenti la terapia è variabile e dipende dal disturbo sottostante, può essere classificata in

  • Medica: farmaci anti-reflusso per i pazienti con disfonia causata da malattia da reflusso gastroesofageo, antibiotici in caso di infezione batterica oppure l’utilizzo della tossina botulinica nei pazienti affetti da disfonia spasmodica.
  • Logopedica/vocale: lo specialista cercherà di rieducare il paziente ad un uso corretto della voce.
  • Chirurgica: in quei casi dove la terapia medica e logopedica non abbiano dato risultati soddisfacenti.

Fonti e bibliografia

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Lupus eritematoso discoide: cause, sintomi e cura

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Introduzione

Il termine lupus fa riferimento ad un insieme di malattie autoimmune accomunate da un attacco del sistema immunitario verso la cute ed altri organi; ne esistono diverse forme, caratterizzate da uno spettro di sintomi e gravità differente, ma le più importanti sono sostanzialmente:

Concentrando l’attenzione sulla forma cutanea, a seconda dell’andamento nel tempo è possibile operare un’ulteriore classificazione che prevede sostanzialmente tre varianti:

  • lupus eritematoso cutaneo acuto, una forma acuta con coinvolgimento solo cutaneo
  • lupus eritematoso cutaneo subacuto,
  • lupus eritematoso cutaneo cronico (lupus eritematoso discoide o LED, oggetto del presente articolo).

Il lupus acuto coinvolge quasi sempre anche altri organi oltre alla pelle, mentre il lupus subacuto e il discoide nella maggior parte dei pazienti limitano le manifestazioni alla cute; questa caratteristica riveste una grande importanza clinica, perché mentre tutti i pazienti con lupus cutaneo acuto devono essere monitorati nel tempo, molti pazienti con forma subacuta o discoide hanno mostrano un impatto più limitato.

Il LED è più comune nelle donne che negli uomini, con un rapporto maschi:femmine che varia da 1:2 a 1:4 e colpisce solitamente soggetti giovani con inizio delle manifestazioni tra i 20 e i 40 anni di età; tendenzialmente si osservano con maggior probabilità manifestazioni più severe nelle donne di fototipo scuro rispetto a quelle con carnagione chiara.

Le lesioni caratteristiche del LED si riscontrano su volto, cuoio capelluto e talvolta sul tronco, presentandosi come placche eritematose (arrossate), infiltrate e persistenti, talvolta ricoperte da una squama. Le lesioni tendono con il tempo a diventare centralmente pallide e depresse (atrofiche), lasciando delle cicatrici.

La prognosi è variabile ma, poiché le lesioni da LED possono rappresentare il segno di esordio di un lupus eritematoso sistemico (5% dei casi), è sempre utile il monitoraggio stretto dei pazienti affetti.

Disegno di un volto di donna affetta dal tipico eritema a farfalla del lupus discoide

iStock.com/VIKTORIYA KABANOVA

Cause

La causa prima del LED non si conosce.

Si tratta di una malattia autoimmune in cui i sintomi si sviluppano in individui geneticamente predisposti (ad esempio persone che hanno parenti affetti da questa o da altre malattie autoimmuni) in seguito all’esposizione a fattori ambientali quali

  • radiazioni ultraviolette, tipicamente il sole (soprattutto UVA ma anche UVB o entrambe),
  • alcune infezioni,
  • stress,
  • alterazioni brusche della temperatura ambientale.

L’ipotesi più accreditata prevede che questi fattori portino alla morte delle cellule epidermiche (cioè quelle più superficiali della pelle), che a loro volta rilasciano all’esterno proteine (antigeni) che sono normalmente conservati all’interno delle cellule; la comparsa inaspettata di queste proteine sembra scatenare una risposta da parte del sistema immunitario.

Tale risposta è definita autoimmune perché avviene ad opera dal sistema immunitario di un soggetto contro le cellule dello stesso soggetto, anziché contro agenti esogeni come virus o batteri.

Nel LED il danno è ristretto alla cute.

È importante infine ricordare che il lupus, in tutte le sue forme, NON è contagioso.

Sintomi

Le lesioni da lupus eritematoso sistemico si riscontrano tipicamente sul viso:

  • fronte
  • naso
  • guance.

Quando sono interessate entrambe le guance si configura il tipico “rash a farfalla”.

Ricostruzione grafica del tipico eritema a farfalla del lupus

Ricostruzione grafica del tipico eritema a farfalla del lupus
(iStock.com/tomozina)

Possono essere interessati anche

  • le palpebre,
  • le orecchie,
  • il condotto uditivo,
  • il collo
  • ed il cuoio capelluto.

Solo di rado le lesioni sono diffuse anche su

  • tronco,
  • arti
  • e mani.

La malattia si presenta inizialmente sotto forma di papule, ovvero piccole lesioni rilevate cutanee che tendono a confluire in placche eritematose (arrossate), indurite e persistenti, spesso su entrambi i lati del viso.

Le placche, che hanno forma rotonda o ovale, tendono ad ingrandirsi ed a fondersi tra loro; sono inoltre caratterizzate da iperestesia, ovvero molto sensibili agli stimoli tattili o termici.

Il centro delle lesioni è spesso ricoperto da una squama aderente biancastra che suscita dolore se viene sollevata o rimossa. L’evoluzione comporta tipicamente un’espansione in periferia ed una risoluzione al centro dove si formano aree depresse ed atrofiche con successive cicatrici.

Una volta risolta la fase acuta le lesioni diventano delle macchie o cicatrici di colore rosa/bianco oppure marrone/bruno.

Le mucose (labbra, cavo orale, lingua e palato) sono coinvolte in meno del 5% dei pazienti, dove  possono manifestare

  • eritema,
  • ipercheratosi (ispessimento),
  • cicatrici scure
  • ed ulcerazioni.

Può coinvolgere infine anche il capo, dove determina una caduta dei capelli; raramente è presente anche interessamento delle unghie con variazione della normale forma (onicodistrofia).

Come tutte le forme di lupus, anche nel caso del discoide i sintomi possono essere innescati e peggiorati dalla luce solare.

Diagnosi

La diagnosi si basa sull’esame clinico e sulla valutazione dell’anamnesi, dei dati di laboratorio e dell’esame istologico di un campione di cute prelevato mediante biopsia.

Nei pazienti con sospetto LED si dovrebbe eseguire, mediante tecniche di immunofluorescenza indiretta, il dosaggio degli anticorpi antinucleo (ANA), che risultano positivi nel 25-50% dei casi.

L’esame istologico consente di confermare il sospetto clinico mettendo in evidenza un’epidermide assottigliata con degenerazione dei cheratinotici dello strato basale; infiltrazione di linfociti nel derma specialmente attorno ai vasi e ai follicoli piliferi; danneggiamento delle fibre elastiche e collagene del derma, talvolta infiltrazione di linfociti anche nel tessuto sottocutaneo (ipoderma).

Il LED dev’essere distinto da altre patologie infiammatorie, infettive o neoplastiche che possono avere manifestazioni cliniche simili, tra cui:

Gravidanza

Le donne affette da LED che desiderino avere una gravidanza dovrebbero cercare di programmarla durante una fase di remissione della malattia (da almeno 6 mesi), perché molti dei farmaci di prima scelta risultano teratogeni per il feto.

Purtroppo, anche se sotto controllo al momento del concepimento, la malattia potrebbe andare incontro ad un nuovo episodio durante i 9 mesi di gestazione.

Si ricorda infine l’importanza di un attento screening della futura mamma, per esempio attraverso il dosaggio degli anticorpi antifosfolipidi ad inizio gravidanza, per evidenziare, prevenire ed al limite gestire eventuali ulteriori complicanze.

Prognosi e complicazioni

Il decorso del LED è difficilmente prevedibile. In tutti i pazienti con questa diagnosi andrebbero inizialmente e periodicamente ricercati i segni di un LES mediante un esame clinico completo ed opportuni esami ematici, oltre che con l’esame istologico di un campione di cute lesionale prelevato mediante biopsia. Una volta esclusi segni e sintomi riferibili al LES, si può porre diagnosi certa di LED.

Circa il 5% dei pazienti con LED svilupperà negli anni un LES.

Il LED inoltre può costituire una condizione pre-tumorale poiché nelle lesioni croniche del LED si può sviluppare un carcinoma squamocellulare.

Le lesioni cicatriziali posso risultare molto deturpanti specialmente sul volto e sul cuoio capelluto dove si può arrivare alla completa perdita dei capelli con cicatrici biancastre.

Cura

Nelle lesioni iniziali, piccole e delimitate prima che si verifichi l’atrofia con la cicatrizzazione, sono efficaci i corticosteroidi topici in crema, anche in occlusione così da favorirne l’assorbimento.

Nelle forme diffuse la terapia di scelta consiste invece nell’uso di farmaci antimalarici per via orale, utilizzati con funzione di antiinfiammatori: idrossiclorochina alla dose di 200 mg al giorno o clorochina alla dose di 250 mg al giorno. Poiché questi farmaci nel lungo periodo possono risultare dannosi per la retina, il paziente candidato ad assumerli dovrebbe eseguire un esame oculistico completo prima di iniziare il trattamento ed essere rivalutato periodicamente dall’oculista. Prima di iniziare il trattamento con antimalarici inoltre si dovrebbero valutare l’eventuale deficit dell’enzima G6PD e la funzionalità epatica.

Nelle fasi iniziali di malattia, oltre agli antimalarici, si possono utilizzare per brevi periodi i corticosteroidi per via orale, utili anche per controllare un’eventuale grave riacutizzazione di malattia. In alternativa, sono efficaci anche altri immunosoppressori quali

  • methotrexate
  • azatioprina
  • ciclofosfamide.

 

 

 

 

Cutaneous Lupus Erythematosus

Prevenzione

Gli schermi solari con alti fattori di protezione verso le radiazioni UVA e UVB dovrebbero essere utilizzati in modo rigoroso sia in estate sia in inverno e riapplicati ogni due ore in caso di lunghe soste all’aperto. L’esposizione al sole nelle ore più calde in estate deve essere in ogni caso evitata. Periodicamente i pazienti con LED dovrebbero eseguire degli esami di monitoraggio per la ricerca dei possibili segni di LES.

Fonti e bibliografia

  • Braun-Falco O., Plewing G., Wolff H.H., Burgdorf W.H.C. Dermatologia. Edizione italiana a cura di Carlo Gelmetti. Sprienger – Verlag Italia 2002.
  • Wolff K., Johnson R., Saavedra A. Fitzpatrick Manuale ed Atlante di Dermatologia clinica. Edizione italiana sulla settima di lingua inglese a cura di Mauro Alaibac. Piccin 2015.
  • Cutaneous Lupus Erythematosus, JAMA Dermatology Patient Page

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Balanite di Zoon nell’uomo: cause, sintomi e cura

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Introduzione

La parola balanite deriva dalla parola greca balanos, che significa ‘ghianda’, mentre il suffisso -ite in medicina suggerisce la presenza di infiammazione; sostanzialmente si tratta quindi dell’infiammazione del glande.

La balanite di Zoon è una condizione infiammatoria cronica del glande che colpisce gli uomini adulti o gli anziani (tra la quinta e l’ottava decade di vita) non circoncisi; pur essendo stata descritta per la prima volta a metà del secolo scorso dal Prof. Zoon, ancora oggi non si è individuata la causa né gli eventuali fattori di rischio.

I sintomi sono solitamente assenti ed il segno che la contraddistingue consiste unicamente nella presenza di macchie di color rosso brillante o marrone che coinvolgono simmetricamente il glande ed il foglietto interno del prepuzio.

La prognosi è buona poiché non si tratta di una patologia che degenera in senso neoplastico, ma il trattamento definitivo consiste nella circoncisione.

La condizione è nota anche con il nome di balanite plasmacellulare, sulla base del tipo di infiltrato infiammatorio che la caratterizza se analizzata istologicamente (ossia attraverso l’analisi al microscopio di un campione di tessuto prelevato dalla lesione).

Causa

Nonostante esistano numerose teorie, la precisa origine della balanite di Zoon resta ad oggi sconosciuta; non se ne conosce nemmeno l’esatta diffusione, perché a causa di ragioni sociali e alla luce della mancanza di disturbi è probabilmente sottodiagnosticata.

L’irritazione del glande e/o del prepuzio può essere indotta dalla ritenzione di urine e squame tra due superfici epiteliali (il foglietto interno del prepuzio e la mucosa di rivestimento dell’asta del pene) che sono in stretto contatto tra loro e che

  • non sono adeguatamente separate,
  • sono bagnate inadeguatamente,
  • vengono colonizzate eccessivamente da germi commensali.

Non è stato tuttora identificato alcun microorganismo responsabile, ad oggi quindi non è considerata una malattia contagiosa; allo stesso modo non di ritiene che possa essere legata ad alcuna forma di famigliarità.

Alcuni Autori suggeriscono che potrebbe essere ragionevole annoverare tra i fattori di rischio:

  • scarsa igiene genitale,
  • ripetute infezioni locali,
  • insulti cronici di vario genere (trauma, attrito, calore e sfregamento, …).

Sintomi

Le lesioni si localizzano comunemente al glande nella parte dorsale sotto forma di una o più chiazze arrossate (eritematose) o brunastre dalla superficie lucida, brillante e umida, di dimensione anche importante; talvolta si associano aspetti erosivi o persino protrudenti/vegetanti (ossia escrescenze).

Le chiazze del glande sono spesso completate da analoghe chiazze sul foglietto interno del prepuzio, che sembrano ricalcarle fedelmente. I contorni della lesione possono essere irregolari (la chiazza non ha una forma specifica) ma ben demarcati, le lesioni sono piane o minimamente palpabili mentre sono assenti edema, perdite, croste ed altri segni di infiammazione.

Le lesioni sono di norma asintomatiche, questo significa che il paziente non avverte quasi mai dolore, prurito od altra sensazione, ma specialmente le forme erosive possono diventare sede d’infezioni.

Lesioni analoghe a quelle del pene possono essere osservate alle piccole labbra dei genitali femminili (vulvite di Zoon), nel cavo orale a livello di palato, mucosa geniena, labbra ed a livello congiuntivale. In queste ultime due sedi le lesioni tendono ad essere più umide ed edematose.

Diagnosi

La diagnosi viene sospettata in seguito all’esame clinico ma richiede una conferma fornita dall’esame istologico di un campione prelevato mediante biopsia; questo mette in evidenza un’epidermide atrofica (assottigliata) ed al di sotto di essa un infiltrato dermico composto essenzialmente da plasmacellule con dilatazioni vascolari e stravaso di emazie. Le plasmacellule sono le cellule del sistema immunitario che producono gli anticorpi (o immunoglobuline).

La balanite di Zoon dev’essere differenziata da una condizione neoplastica che si può presentare con analoghe caratteristiche cliniche: l’eritroplasia di Queirat (un carcinoma spinocellulare in situ); quest’ultima è tuttavia maggiormente eritematosa, ha una superficie ruvida o granulare ed è leggermente rilevata.

Cura

La balanite di Zoon ha un’evoluzione protratta per anni, talvolta per decenni, ma è comunque benigna, non degenerando in senso neoplastico.

Nessuna terapia è completamente soddisfacente. Le creme a base di cortisone di potenza medio-alta portano ad un miglioramento temporaneo. La circoncisione rappresenta una procedura terapeutica a tutti gli effetti, portando ad una guarigione rapida e spontanea; a seguito dell’esecuzione spesso guariscono anche le zone interessate dall’infiammazione pur se non rimosse dall’intervento chirurgico.

Prevenzione

La circoncisione potrebbe rappresentare una misura preventiva, ma per ovvie ragioni non è eseguibile su larga scala; consigliabile è invece la pratica di una regolare ed attenta igiene intima (che preveda anche la pulizia del glande dopo essere stato scoperto dal prepuzio), pratica che potrebbe ridurre il rischio di sviluppare balanite di Zoon, ma che sicuramente contribuisce alla prevenzione di numerose altre forme infettive di balanite e balanopostite.

Fonti utilizzate

  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.
  • Braun-Falco O., Plewing G., Wolff H.H., Burgdorf W.H.C. Dermatologia. Edizione italiana a cura di Carlo Gelmetti. Sprienger – Verlag Italia 2002.

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Disturbo da stress post traumatico: cause, sintomi e cura

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Introduzione

Il disturbo da stress post traumatico è un disturbo cronico e debilitante che insorge entro 3 mesi dall’esposizione, diretta o indiretta, a uno o più eventi traumatici.

Gli eventi traumatici responsabili del disturbo sono delle situazioni non comuni che rappresentano una minaccia per la sopravvivenza, ad esempio:

  • guerra
  • gravi lesioni fisiche
  • stupro
  • abuso sessuale in infanzia
  • violenze fisiche e interpersonali
  • gravi incidenti automobilistici
  • catastrofi naturali
  • tortura
  • genocidio
Donna sofferente in un angolo di una camera buia

iStock.com/graphixchon

Diffusione e decorso

La prevalenza annua del disturbo in Europa è circa dello 0,5-1% (in USA del 3,5%) ed è superiore in alcune professioni che sono potenzialmente suscettibili di esposizione ad eventi traumatici (militari, vigili del fuoco, medici di emergenza).

La prevalenza aumenta in proporzione a:

  • quantità degli eventi traumatici (traumi ripetuti nel tempo, come abusi sessuali in infanzia),
  • gravità del trauma,
  • intenzionalità del trauma (l’evento è stato inflitto deliberatamente da una o più persone o condizioni).

I tassi più alti si sono riscontrati tra i sopravvissuti a rapimento, combattimenti e prigionia militare, genocidio etnico o politico.

Il disturbo post traumatico da stress può insorgere a qualsiasi età, persino nel primo anno di vita, e i sintomi generalmente si presentano nei primi 3 mesi in seguito all’evento traumatico anche se può svilupparsi un’espressione ritardata di mesi.

I sintomi e la loro durata possono variare nel tempo: nella metà dei casi si esauriscono entro 3 mesi dalla comparsa, anche se ciò non esclude altri casi in cui questi perdurino per anni.

Infine, la ricorrenza e l’intensificazione dei sintomi si possono verificare a causa di stimoli scatenanti (ad esempio un forte vento nei sopravvissuti agli uragani), o nelle persone anziane a causa del declino fisico, cognitivo e isolamento sociale.

Cause e fattori di rischio

La causa e quindi la condizione necessaria per poter parlare di disturbo post traumatico da stress è l’evento traumatico che ha messo a repentaglio la sopravvivenza dell’individuo; ma sono i fattori biologici e psicosociali, in dinamica interazione fra loro, che contribuiscono all’insorgenza, sviluppo e decorrenza dei sintomi.

Questi fattori si dividono in:

  • Fattori pre-traumatici (antecedenti all’evento):
    • Sesso femminile: l’aumento del rischio non è dovuto a caratteristiche biologiche legate al genere quanto all’alta probabilità per una donna, nella società odierna, di essere oggetto di stupri, violenze fisiche e interpersonali, eventualità ancora troppo frequenti al giorno d’oggi.
    • Problemi emotivi e precedenti disturbi mentali: disturbo di panico, disturbo depressivo maggiore, disturbo ossessivo-compulsivo o altro disturbo post traumatico da stress.
    • Fattori ambientali: disagio socio economico, esposizione a precedente trauma, storia di disturbi psichiatrici in famiglia, mancanza di un supporto sociale.
    • Geni implicati nella regolazione della serotonina (chiamato non a caso “neurotrasmettitore della felicità”) e il cortisolo (“ormone dello stress”).
  • Fattori peri-traumatici (durante l’evento).
    • Gravità del trauma: reale o percepita minaccia per la vita, lesione grave, violenza, essere esecutore o testimone di atrocità, dissociazione durante l’evento.
    • Fattori post-traumatici (che fanno seguito all’evento).
    • Legati al temperamento individuale: pessimismo, strategie di gestione dello stress inadeguate.
    • Ambientali: esposizione a stimoli che ricordano il trauma, successivi eventi avversi.

Sintomi e criteri diagnostici

I sintomi e le manifestazioni cliniche del disturbo post traumatico da stress sono variabili, ma per la diagnosi è necessaria la presenza di alcune specifiche condizioni, definite come criteri diagnostici secondo il Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali, quinta edizione – DSM V -):

  • Esposizione a morte (reale o minaccia), grave lesione o violenza sessuale in uno o più dei seguenti modi:
    • Esperienza diretta (guerra, aggressione fisica reale o minacciata, violenza sessuale reale o minacciata, essere rapiti, attacco terroristico, tortura, catastrofi naturali, gravi incidenti stradali);
    • Assistere direttamente all’evento accaduto ad altri (osservare minacce o gravi lesioni, morti innaturali, abuso sessuale, aggressione violenta, violenza domestica, incidente stradale);
    • Venire a conoscenza dell’evento traumatico accaduto a un familiare o amico stretto. In caso di morte, deve essere stata violenta o accidentale (aggressione personale violenta, suicidio, lesioni gravi);
    • Ripetuta esposizione ai dettagli crudi dell’evento traumatico (primi soccorritori di guerra che raccolgono i resti umani). È esclusa l’esposizione tramite i media.

In seguito all’evento traumatico insorgono i sintomi che compromettono in maniera significativa la vita quotidiana. Questi non sono attribuibili ad altre condizioni mediche o ad abuso di sostanze.

  • Uno o più dei seguenti sintomi intrusivi che perdurano per più di un mese:
    • Ricordi spiacevoli, ricorrenti e involontari riguardo all’evento. Nei bambini si possono manifestare nei giochi ripetitivi in cui sono espressi aspetti riguardanti l’evento.
    • Sogni spiacevoli e ricorrenti collegati all’evento. Nei bambini possono esserci sogni spaventosi senza però un contenuto riconoscibile.
    • Reazioni dissociative (“flashback”) in cui la persona sente o agisce come se l’evento traumatico, o parti di esso, si stessero ripresentando in quel momento (da intrusioni visive o sensoriali nelle quali è mantenuto il contatto con la realtà, fino alla completa perdita di consapevolezza dell’ambiente circostante). Le dissociazioni possono durare da pochi secondi a diverse ore o anche giorni. Nei bambini la riattualizzazione dell’evento può verificarsi nel gioco.
    • Intensa e prolungata sofferenza psicologica o marcate reazioni fisiche in seguito all’esposizione a fattori scatenanti che ricordano l’evento (giorni ventosi dopo un uragano, rivedere lo stupratore o qualcuno somigliante).
  • Evitamento persistente degli stimoli evocativi il trauma come evidenziato da uno o entrambi i seguenti:
    • Evitamento o tentativi di evitamento nel rievocare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti riguardanti l’accaduto.
    • Evitamento o tentativi di evitamento di persone, luoghi o conversazioni che suscitano ricordi, pensieri o sentimenti collegati all’evento.
  • Pensieri ed emozioni negative e persistenti associate all’evento, come evidenziato da due o più di:
    • Incapacità a ricordare aspetti importanti dell’evento (amnesia dissociativa).
    • Esagerate convinzioni negative riguardo a se stessi, gli altri o il mondo (“sono un fallito”, “sono cattivo”, “non ci si può fidare di nessuno”, “il mondo è pericoloso”, “sono irrecuperabile”).
    • Pensieri distorti relativi alla causa o alle conseguenze dell’evento, che portano a incolpare gli altri o se stessi (“è tutta colpa mia se mi hanno stuprato”).
    • Emozioni negative (paura, orrore, colpa, vergogna, rabbia).
    • Marcata riduzione d’interesse o di partecipazione alle attività quotidiane.
    • Sentimenti di distacco o estraneità verso gli altri.
    • Incapacità di provare emozioni positive (affetto, amore, gioia).
  • Alterazioni marcate della reattività associate all’evento traumatico come evidenziato da due o più:
    • Irritabilità ed esplosioni di rabbia (con minima o nessuna provocazione), tipicamente aggressione verbale o fisica nei confronti di persone e/o oggetti.
    • Comportamento spericolato, autolesivo o suicidario.
    • Aumento della vigilanza e allerta.
    • Esagerate risposte d’allarme a stimoli innocui.
    • Problemi di concentrazione.
    • Disturbi del sonno (incubi o ansia).

Conseguenze e prognosi

Il disturbo da stress post traumatico produce un’importante compromissione

  • fisica,
  • psicologica
  • e sociale

responsabile di un elevato utilizzo dei servizi sanitari pubblici e sociali.

Le conseguenze per il paziente possono essere molto profonde e drammatiche, manifestandosi in

  • rapporti interpersonali scarsi o assenti fino allo sviluppo di un vero e proprio isolamento sociale,
  • minor successo lavorativo e scolastico,
  • ideazione o tentativi di suicidio (soprattutto nei casi di abuso infantile).

Diagnosi

L’obiettivo della diagnosi del disturbo post traumatico da stress è di:

  1. Identificare il trauma (o i traumi),
  2. Valutare i sintomi e la loro gravità,
  3. Eseguire una diagnosi differenziale, escludendo altre condizioni che hanno uno o più sintomi in comune con il disturbo da stress post traumatico, ad esempio:
    • disturbo da adattamento,
    • disturbo da stress acuto,
    • disturbi d’ansia,
    • disturbo ossessivo compulsivo,
    • disturbo depressivo,
    • disturbi dissociativi,
  4. Evidenziare le comorbidità, individuando eventuali malattie associate al disturbo (il paziente è associato ad un aumento dell’80% di probabilità di avere anche un disturbo depressivo maggiore, disturbo bipolare, disturbo d’ansia e abuso di sostanze nei maschi),
  5. Scegliere il trattamento più adeguato.

Per fare questo si utilizzano diversi questionari e interviste che variano in base a

  • valutazione iniziale (come Clinician Administered PTSD Scale, PTSD Symptom Scale-Interview Version, Primary Care PTSD Screen)
  • o a quella più avanzata (Structured Clinical Interview of DSM 5 Disorders – SCID -, PTSD Checklist for DSM 5).

Cura

Alla luce della natura psicologica e biologica del disturbo post traumatico da stress, è importante approcciarsi alla terapia con una prospettiva che integri le due parti.

La psicoterapia rappresenta il trattamento principale, ma la combinazione di interventi psicologici e farmacologici adoperati precocemente dopo un trauma sono in grado di ridurre o in alcuni casi addirittura prevenire i sintomi,

Psicoterapia

  • Interventi orientati all’esposizione: partono dal presupposto che i comportamenti possano essere condizionati (influenzati). Questi interventi si basano sull’esposizione graduale a stimoli temuti (ad esempio ricordi o situazioni), in assenza delle conseguenze negative paventate dalla persona (ad esempio danno fisico). L’obiettivo è fare in modo che, con il tempo, la paura associata allo stimolo cessi grazie al “nuovo” apprendimento.
  • Terapie cognitive: queste si occupano maggiormente dei pensieri disfunzionali sottesi al comportamento di evitamento, come l’errata interpretazione delle situazioni, intervenendo direttamente su questi schemi di pensiero, piuttosto che sui comportamenti conseguenti (obiettivo invece degli interventi basati sull’esposizione).
  • Stress Inoculation Training: è un modello basato sull’assunto per cui lo stress derivi dalla nostra percezione dello squilibrio fra richieste dell’ambiente e risorse personali, per cui le prime sovrastano le seconde. Il disturbo post traumatico da stress si mantiene quindi grazie a questa percezione. L’obiettivo è accrescere la padronanza nei confronti dell’ansia, attraverso tecniche di gestione dello stress volte a un’esposizione crescente a situazioni ansiogene, che quindi fungerebbero da “vaccino” per le situazioni future.
  • EMDR o Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing): si basa sul presupposto per cui il disturbo post traumatico da stress sia il risultato di un’insufficiente elaborazione dei ricordi traumatici. L’individuo impara a gestire le emozioni negative e riprogrammare i pensieri distorti che le accompagnano.

Terapia farmacologica

Gli antidepressivi serotoninergici, riequilibrando i neurotrasmettitori implicati nella genesi dei sintomi, migliorano i comportamenti di evitamento, le emozioni negative, l’iperattivazione generale e in definitiva la qualità della vita.

Fonti e bibliografia

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Lordosi: tra riduzione/rettilineizzazione ed accentuazione

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Le curve della colonna vertebrale

Osservando frontalmente il rachide (cioè la colonna vertebrale) questo appare normalmente dritto, se osservato di profilo invece presenta delle curvature:

  1. cifosi (toracica o dorsale), è la curvatura fisiologica più lunga del rachide e presenta una convessità posteriore e concavità anteriore;
  2. lordosi (cervicale e lombare), si trovano alle estremità della cifosi toracica ed hanno convessità anteriore e concavità posteriore.

La presenza di queste 3 curve conferisce al rachide una forma ad s.

Oltre alle curve fisiologiche la colonna vertebrale può presentare deviazioni patologiche, in senso laterale (scoliosi) o in senso antero-posteriore, queste ultime si manifestano come

  • accentuazioni
  • o “appiattimenti”

delle curve fisiologiche.

Rappresentazione grafica dei disturbi della colonna vertebrale

iStock.com/Neokryuger

In questo articolo approfondiremo le patologie delle lordosi, dunque le iper-lordosi e le ipo-lordosi.

Patologie della lordosi cervicale

A livello del rachide cervicale non è infrequente che si verifichi una perdita della lordosi per cui la colonna vertebrale risulta essere, nella sua parte più alta, dritta (si parla in questi casi di rettilineizzazione cervicale della colonna vertebrale). In alcuni casi la curva cervicale può addirittura risultare invertita, con convessità anteriore, in questo caso si parla di “tendenza alla cifosi” della colonna cervicale o “cifotizzazione” della colonna cervicale.

L’iperlordosi della colonna cervicale (condizione più rara dell’ipolordosi) costituisce generalmente un atteggiamento posturale compensatorio che viene messo in atto nel caso in cui sano presenti altre alterazioni nella parte bassa della colonna vertebrale.

Cause

La causa più comune di un’alterazione della lordosi cervicale è l’assunzione di una postura scorretta, che comporta la contrazione dei muscoli prevertebrali (muscoli che si trovano anteriormente ala colonna cervicale) ed in particolare del muscolo lungo del collo. La contrazione di questo gruppo muscolare tira in avanti la colona raddrizzandone la fisiologica curvatura ed in casi estremi addirittura la inverte.

Alte cause e/o fattori concomitanti per lo sviluppo della malattia sono:

Sintomi e complicanze

Quando l’alterazione della curvatura è lieve, il soggetto può essere del tutto asintomatico, mentre qualora l’alterazione si aggravasse i sintomi comprenderebbero:

In alcuni casi le anomalie della lordosi del rachide cervicale possono andare a ledere il disco intervertebrale (un disco di cartilagine posto tra una vertebra e l’altra) con conseguente comparsa di ernia del disco, compressione delle radici nervose e dunque sintomi anche a carico degli arti superiori, il più comune dei quali è il dolore (brachialgia).

Diagnosi

Il medico effettua la diagnosi attraverso l’anamnesi (cioè l’insieme di domande che pone al paziente al fine di comprenderne il quadro clinico) e l’esame obiettivo (cioè la visita).

Possono inoltre risultare utili indagini di diagnostica per immagini di primo livello, come la radiografia della colonna; esami più complessi come la risonanza magnetica vengono richiesti nel caso in cui si manifestino complicanze come l’ernia del disco.

Cura e rimedi

Tecniche fisioterapiche ed osteopatiche hanno come obiettivo il ripristino della lordosi cervicale. Risultano dunque utili:

  • ginnastica posturale,
  • trazioni cervicali,
  • manipolazioni vertebrali.

Per il trattamento sintomatico del dolore il medico, qualora lo ritenesse opportuno, può prescrivere antidolorifici e/o farmaci ad azione miorilassante (in grado cioè di favorire il rilascio e rilassamento della muscolatura).

Le alterazioni della lordosi cervicale sono reversibili, dunque è possibile attraverso una corretta terapia, recuperare la normale curvatura della colonna ed eliminare il dolore cervicale.

Patologie della lordosi lombare

A livello del tratto lombare della colonna vertebrale è abbastanza comune il verificarsi di una accentuazione della lordosi, cioè una iper-lordosi lombare, così definibile quando l’angolo di curvatura della lordosi è maggiore di 50 gradi.

I soggetti con accentuazione della lordosi lombare, si presentano con:

  • addome portato eccessivamente in avanti,
  • bacino portato eccessivamente indietro.

L’ipolordosi della colonna lombare è decisamente più rara della iperlordosi ed è visibile come un appiattimento del tratto terminale del rachide.

Cause

Per quanto riguarda l’iperlordosi le cause comprendono:

  • postura scorretta,
  • gravidanza,
  • obesità,
  • osteoporosi,
  • problemi congeniti e/o acquisiti a livello di bacino, anca o femore,
  • debolezza dei muscoli lombari.

L’ipolordosi è invece generalmente dovuta alla sedentarietà e dunque alle erronee posture tenute nella posizione seduta ed all’indebolimento dei muscoli lombari; anche imaterassi che non sostengono in modo opportuno la colonna vertebrale durante il sonno possono favorirne la comparsa.

Sintomi e complicanze

Alterazioni lievi della lordosi lombare sono del tutto asintomatiche, i sintomi compaiono per alterazioni di considerevole entità e comprendono:

Nel caso in cui tale alterazione comporti la compressione dei nervi, si potrebbero manifestare:

  • sciatalgia,
  • parestesie (formicolii) degli arti inferiori.

Diagnosi

Il medico pone diagnosi di alterazioni della lordosi lombare attraverso l’anamnesi e l’esame obiettivo (cioè la raccolta di informazioni e la visita); in seguito può prescrivere indagini diagnostiche di primo livello (come la radiografia) e di secondo livello (tc e/o risonanza magnetica).

Cura e rimedi

Queste alterazioni sono reversibili e i rimedi più comuni sono costituiti da:

  • attività fisica (tra le attività maggiormente consigliate si annoverano nuoto, pilates e ginnastica posturale),
  • riduzione del peso corporeo per i pazienti in sovrappeso,
  • manipolazioni e massaggi eseguiti da fisioterapisti.

Nei casi più gravo possono essere prescritti dall’ortopedico dei plantari, mentre più raramente potrebbe essere necessario ricorrere all’intervento chirurgico.

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Alga spirulina: benefici, proprietà e controindicazioni

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Cos’è l’alga Spirulina?

La Spirulina (o Arthrospira) è un’alga verde-azzurra originaria di Asia, Africa e Centro-Sud America, dove da secoli viene raccolta e consumata a scopo alimentare e terapeutico.

Deve la sua colorazione alla presenza elevata di clorofilla e il suo nome alla caratteristica forma a spirale dei filamenti – che non superano il mm di lunghezza. Tecnicamente la denominazione alga è impropria: si tratta in realtà di un cianobatterio, un organismo unicellulare procariota fotoautotrofo, che utilizza cioè le reazioni di fotosintesi per sintetizzare le molecole necessarie al proprio nutrimento, senza necessità di introdurle dall’esterno.

Le testimonianze più antiche sull’uso della Spirulina risalgono addirittura a 6000 anni a.C., nelle regioni costiere dell’estremo oriente. Ancora oggi in Cina si fa un ampio utilizzo di cianobatteri in ambito alimentare e qui si trovano i maggiori esportatori mondiali (si stima che il commercio totale raggiunga le 500 tonnellate annue).

I conquistatori spagnoli riportarono testimonianza di come le popolazioni messicane raccogliessero le alghe dalle acque salmastre lacustri per utilizzarle come fonte di cibo.

Ancora oggi in le tribù africane che vivono intorno al lago Ciad raccolgono questi cianobatteri e li fanno essiccare per preparare una sorta di torta chiamata dihe – che costituisce una porzione significativa del pasto giornaliero e rappresenta un’importante risorsa economica per le popolazioni locali.

L’alga Spirulina (nelle varietà Platensis e Maxima) è coltivata in stagni artificiali in Africa, California, Hawaii, Tailandia, China, Taiwan e India.

Da una trentina d’anni l’uso delle alghe verdi-azzurre si è diffuso anche in occidente, in virtù delle ormai note proprietà nutrizionali: queste alghe sono infatti ricche in

  • Proteine (60-70% in peso)
  • Vitamine (4% in peso)
  • Amminoacidi essenziali
  • Minerali (Zinco, Selenio, Magnesio)
  • Acidi grassi essenziali (acido Linolenico)
  • Carotenoidi, clorofilla, fitosteroli

La composizione e la percentuale di nutrienti è tuttavia fortemente influenzata dal luogo di provenienza, nonché dalle tecniche di raccolta, di lavorazione e di conservazione [1].

Fotografia di spirulina in polvere e in forma di compresse

iStock.com/egal

A cosa serve?

Molteplici sono gli effetti terapeutici attribuiti alla Spirulina (aumento della concentrazione, della lucidità mentale, dell’energia generale), anche se molto spesso si tratta di testimonianze personali, aneddotiche o comunque prive di adeguato supporto scientifico.

Negli ultimi anni, tuttavia, proprio in virtù del proliferare di testimonianze favorevoli al consumo di alghe verdi-azzurre, si sono intensificati gli studi scientifici sul loro utilizzo, per verificarne i presunti benefici in termini nutrizionali e terapeutici [1]. Gli studi sono ancora limitati e spesso carenti in termini di rigore scientifico (spesso si tratta di esperimenti su un numero esiguo di soggetti e senza il confronto con placebo), ma ci sono alcuni risultati interessanti, che verranno riportati nei paragrafi successivi.

La maggior parte delle ricerche scientifiche, condotta sia su animali che sull’uomo, si è concentrata sull’apporto di vitamine e minerali ad opera della Spirulina, con conseguente potenziale effetto antiossidante e rinforzante delle difese immunitarie. In aggiunta a ciò, il Dipartimento della Salute degli Stati Uniti (NIH), tramite il servizio di informazione MedlinePlus, si dimostra possibilista nei confronti dell’effetto della Spirulina sull’abbassamento della pressione sanguigna – laddove resta prudente sugli altri presunti effetti, sottolineando come gli studi a riguardo risultino ancora insufficienti per poter prendere una posizione ufficiale [2].

In sintesi possiamo dire che, per quanto riguarda gli studi sull’uomo, la Spirulina ha dimostrato buone potenzialità come

  • antinfiammatorio
  • antiossidante
  • immunostimolante e immunomodulante
  • ipolipidemizzante (riduzione di colesterolo totale, LDL, VLDL e trigliceridi, aumento del colesterolo HDL)
  • ipoglicemizzante (tramite aumento della sensibilità all’insulina)
  • coadiuvante nella prevenzione delle malattie cardiache (per effetto sul controllo del colesterolo e della pressione sanguigna)
  • coadiuvante nel trattamento della sindrome metabolica
  • coadiuvante nella cura dell’anemia da carenza di ferro
  • supporto dietetico nelle condizioni di malnutrizione

Riguardo le potenzialità terapeutiche sopra elencate, verranno di seguito riportati nel dettaglio alcuni degli studi sull’uomo più significativi e promettenti.

Effetto antinfiammatorio e antiossidante

Stress ossidativo e malfunzionamento del sistema immunitario sono fattori ormai ampiamente riconosciuti come responsabili di numerose malattie nell’uomo (aterosclerosi, ipertensione, malattie cardiache e del sistema nervoso centrale, …): per questa ragione c’è un crescente interesse da parte della comunità scientifica nella ricerca di sostanze che possano prevenire e contrastare questi effetti, potenzialmente letali.

Esistono diversi studi sulle potenzialità antiossidanti della Spirulina, che pare sia in grado di agire su più fronti tramite

  • attivazione di enzimi cellulari antiossidanti (superossido dismutasi e catalasi),
  • blocco dei radicali liberi (sottoprodotti del metabolismo, fortemente ossidanti),
  • inattivazione della perossidazione dei lipidi (i grassi ossidati sono una delle cause di danno per il DNA cellulare),
  • riduzione dell’espressione delle citochine coinvolte nella risposta infiammatoria.

Purtroppo si tratta ancora di studi preclinici, condotti su animali, mentre gli studi sull’uomo risultano ancora limitati.

Tra essi, citiamo uno studio del 2008 condotto su 78 pazienti anziani in buone condizioni di salute, in cui la somministrazione di 8 g/die di Spirulina per 16 settimane ha portato a una significativa riduzione della concentrazione di Interleukina-6 (un mediatore dell’infiammazione, secreto da macrofagi e linfociti per stimolare la risposta immunitaria) e ad un aumento dell’Interleukina-2 (che stimola la crescita delle cellule del sistema immunitario), a confronto con la somministrazione di placebo. Nello stesso studio è stata osservata una diminuzione dei livelli di colesterolo ematico totale e un aumento dell’attività enzimatica antiossidante [4].

Alcuni studi clinici hanno mostrato l’attività della Spirulina nel prevenire il danno muscolare in caso di stress ossidativo indotto da sforzo muscolare intenso.

In uno studio del National Taiwan College of Physical Education un gruppo di studenti volontari ha assunto integratori di Spirulina Platensis per 3 settimane, durante le quali veniva loro prelevato il sangue prima e dopo esercizio fisico intenso su tapis roulant. I risultati hanno evidenziato una riduzione significativa dei livelli di MDA (malondialdeide, indice di stress ossidativo) ed un altrettanto significativo aumento dei valori di SOD (superossido dismutasi, un enzima ad attività antiossidante) a seguito dell’integrazione con l’alga. In aggiunta a ciò, è stato registrato anche un prolungamento del cosiddetto tempo di esaurimento (TE), ossia il tempo in cui un soggetto arriva all’esaurimento delle proprie energie fisiche durante una prova sotto sforzo [8].

In uno studio analogo, condotto in doppio cieco su uomini con moderato livello di allenamento, coloro che avevano assunto Spirulina per 4 settimane mostravano un ridotto livello di ossidazione e un aumento dell’attività antiossidante del glutatione (un potente antiossidante endogeno), fino a 24h dopo la fine dell’allenamento, rispetto al gruppo placebo. In più, la somministrazione di Spirulina ha determinato una riduzione del livello di ossidazione lipidica normalmente indotto dall’intensa attività fisica [9].

Effetto sul sistema immunitario (rinite allergica)

Per quanto riguarda l’effetto della Spirulina nell’aumento delle le difese immunitarie, il meccanismo d’azione proposto si esplicherebbe attraverso

  • l’aumento della produzione di interferone (gli interferoni sono proteine ad azione immunitaria)
  • l’aumento della produzione delle cellule Natural Killers (cellule immunitarie ad azione difensiva)
  • l’aumento delle Immunoglobuline A (un tipo di anticorpi) [2,3,5].

Anche in questo caso, a fronte dei numerosi studi in vitro e in vivo su animali, gli studi sull’uomo sono ancora limitati e non permettono, per il momento, di trarre conclusioni definitive.

Molta attenzione è stata rivolta al potenziale effetto della Spirulina nei confronti delle allergie: in uno studio condotto in doppio cieco versus placebo su pazienti affetti da rinite allergica, è stata somministrata Spirulina alla dose di 1 o 2g/die per 12 settimane. Al termine del test, al dosaggio più elevato, si è osservata una riduzione significativa dei livelli di Interleuchina-4 (del 32%) – una proteina che regola le risposte immunitarie mediate dalle Immunoglobuline E (IgE), coinvolte nelle manifestazioni allergiche [6].

In un altro studio condotto in doppio cieco per 6 mesi su 150 individui allergici di età compresa tra 19 e 49 anni, la somministrazione di 2 g/die di Spirulina Platensis ha prodotto un significativo miglioramento dei sintomi, inclusa congestione nasale, frequenza di starnuti, lacrimazione e prurito [7].

Spirulina per l’abbassamento di colesterolo, trigliceridi e pressione sanguigna

I risultati più interessanti sull’integrazione della Spirulina sono stati ottenuti sul controllo di colesterolo e trigliceridi; inoltre, grazie al già riportato effetto antiossidante, quest’alga è considerata molto promettente nel prevenire e combattere le patologie cardiovascolari.

Una buona sintesi degli effetti della Spirulina sul colesterolo (e sui fattori predisponenti la sindrome metabolica) è quella che emerge da due recenti lavori di revisione sugli studi clinici randomizzati e controllati versus placebo pubblicati finora sull’argomento. Secondo quanto osservato dai ricercatori, l’integrazione di Spirulina ha un effetto statisticamente significativo su

  • riduzione del colesterolo totale
  • riduzione del colesterolo LDL e VLDL
  • aumento del colesterolo HDL
  • riduzione dei trigliceridi
  • diminuzione del valore di glucosio a digiuno
  • diminuzione della pressione sanguigna

Gli studi riguardano un periodo di trattamento che va dalle due settimane ai 12 mesi, con un dosaggio di Spirulina compreso tra 1 e 19 g/die [12,13].

Inoltre, in uno studio randomizzato in doppio cieco versus placebo, è stato studiato l’effetto della somministrazione di Spirulina su pazienti obesi, con ipertensione controllata farmacologicamente. I 50 individui selezionati sono stati divisi in due gruppi: a uno è stata somministrata Spirulina Maxima alla dose di 2g/die per 3 mesi, all’altro un placebo. Al termine dello studio è stata registrata nel gruppo trattato con l’alga

  • una diminuzione dell’indice di massa corporea (BMI) e della circonferenza del girovita
  • una diminuzione del colesterolo LDL
  • una diminuzione dello stato infiammatorio (diminuzione dell’Interleuchina-6)
  • un aumento della sensibilità all’insulina

in misura significativamente superiore rispetto al gruppo di controllo trattato con placebo [14].

Spirulina e malnutrizione

In virtù del suo elevato contenuto proteico -paragonabile a quello di carne e soia-, la Spirulina è stata proposta come approccio sostenibile per combattere la malnutrizione da carenza di proteine (PEM, Protein Energy Malnutrition) e la malnutrizione proteico-energetica (PEW, Protein Energy Waist) – ossia la perdita di proteine tipica delle persone affette da grave patologia renale [10,11].

La carenza di proteine è un problema particolarmente serio nei paesi in via di sviluppo ed è quantomai urgente identificare delle fonti proteiche valide e alternative a quelle convenzionali, sempre più scarsamente accessibili: la Spirulina potrebbe giocare un ruolo importante in questo scenario, data la sua ricchezza in nutrienti e la facilità di coltivazione (non necessita di terreni fertili e cresce nell’arco di 20 giorni) [19].

È stato condotto uno studio interessante in Burkina Faso, su 550 bambini di età inferiore a 5 anni affetti da malnutrizione. I bambini sono stati divisi in 4 gruppi: a uno è stata somministrata Spirulina (5g/die) più una dieta riabilitativa, all’altro solo Misola (una farina locale composta da miglio, soia e arachidi), al terzo entrambe; il quarto gruppo fungeva da controllo, con dieta bilanciata, ma senza aggiunta di integratori. Al termine delle 8 settimane di studio, si è potuto verificare che l’integrazione con Spirulina e Misola ha permesso un recupero in termini di peso e di corretti valori ematici (aumento dell’emoglobina e del ferro) molto più rapido rispetto ai due integratori presi singolarmente o alla dieta senza integratori [15].

Sempre nello stesso centro medico del Burkina Faso è stato valutato l’effetto dell’integrazione della Spirulina (nella varietà Platensis) in 170 bambini malnutriti, metà dei quali positiva al virus HIV. Anche in questo caso l’integrazione con l’alga per 8 settimane ha portato a un miglioramento significativo sia dello stato di nutrizione generale che dei parametri ematici (anemia) in entrambi i gruppi, anche se più marcato nei bambini non portatori del virus HIV [16].

Infine, uno studio indiano condotto su 60 bambine di età compresa tra 7 e 9 anni, provenienti da zone rurali, con apporto nutrizionale carente, ha evidenziato, dopo l’integrazione di Spirulina (1g/die) per due mesi, un miglioramento sia nei valori di emoglobina che nei parametri legati alle capacità intellettive [17].

Anemia

Buoni risultati sono stati ottenuti con l’integrazione della Spirulina nei casi di anemia, come visto nel caso degli studi sulla malnutrizione.

In uno studio condotto dall’Università della California su 40 soggetti di età maggiore di 50 anni, con alle spalle una storia di anemia, è stato valutato l’effetto della somministrazione di Spirulina per 12 settimane: al termine dello studio è stato evidenziato un aumento significativo del contenuto medio di emoglobina nei globuli rossi (il valore MCH che troviamo nelle analisi del sangue) e un aumento della funzione immunitaria (rilevato tramite misurazione di un enzima immunomodulatore) [18].

Dose

La Spirulina si trova in commercio in genere sotto forma di compresse o capsule, da sola o in combinazione con altri derivati vegetali come integratore alimentare.

Normalmente il dosaggio raccomandato è di 500 mg-1 g/die, eventualmente aumentabile fino a 4 g in assenza di controindicazioni o intolleranze individuali. Si raccomanda in ogni caso, di non superare la dose di 10 g/die [3,10].

Controindicazioni, effetti collaterali, interazioni

La Spirulina, secondo quanto riportato dall’FDA (l’ente governativo americano che si occupa della regolamentazione di alimenti, farmaci e integratori), è generalmente considerata sicura [11].

Diversi cianobatteri producono tossine (Microcystine, BMAA) pericolose per la salute umana, ma non ci sono notizie di tossicità legate alla Spirulina – probabilmente anche in ragione del fatto che quella in commercio deriva da coltivazioni su larga scala, sottoposte a rigorosi controlli da parte delle autorità sanitarie.

Non sono note interazioni coi farmaci.

Fonti e bibliografia

  1. Enciclopedia of Dietary Supplements, 2nd Ed. – Blue-Green Algae (Cyanobacteria) W.W. Carmichael, M.Stukenberg, J.M.Betz
  2. NIH, Medline Plus – Blue-Green Algae
  3. Arch Toxicol. 2016 Aug;90(8):1817-40. The antioxidant, immunomodulatory, and anti-inflammatory activities of Spirulina: an overview. Wu Q, Liu L, Miron 5, Klímová B, Wan D, Kuča K.
  4. Ann Nutr Metab 52(4):322–328 (2008) A randomized double-blind, placebo-controlled study to establish the effects of spirulina in elderly Koreans. Park HJ, Lee YJ, Ryu HK et al.
  5. Int Immunopharmacol. 2002 Mar;2(4):423-34. Activation of the human innate immune system by Spirulina: augmentation of interferon production and NK cytotoxicity by oral administration of hot water extract of Spirulina platensis. Hirahashi T, Matsumoto M, Hazeki K, Saeki Y, Ui M, Seya T.
  6. J Med Food. 2005 Spring;8(1):27-30. Effects of a Spirulina-based dietary supplement on cytokine production from allergic rhinitis patients. Mao TK, Van de Water J, Gershwin ME.
  7. Eur Arch Otorhinolaryngol. 2008 Oct;265(10):1219-23. The effects of spirulina on allergic rhinitis. Cingi C, Conk-Dalay M, Cakli H, Bal C.
  8. Eur J Appl Physiol. 2006 Sep;98(2):220-6. Preventive effects of Spirulina platensis on skeletal muscle damage under exercise-induced oxidative stress. Lu HK, Hsieh CC, Hsu JJ, Yang YK, Chou HN.
  9. Med Sci Sports Exerc. 2010 Jan;42(1):142-51. Ergogenic and antioxidant effects of spirulina supplementation in humans. Kalafati M, Jamurtas AZ, Nikolaidis MG, Paschalis V et al.
  10. R. R. Siva Kiran, G. M. Madhu, and S.V. Satyanarayana, Spirulina in combating Protein Energy Malnutrition (PEM) and Protein EnergyWasting (PEW)—a review Journal of Nutrition Research, vol. 3, no. 1, pp. 62–79, 2015.
  11. Oxid Med Cell Longev. 2017;2017:3247528. Antioxidant, Immunomodulating, and Microbial-Modulating Activities of the Sustainable and Ecofriendly Spirulina. Finamore A, Palmery M, Bensehaila S, Peluso I.
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Pelle arrossata: cause, sintomi e rimedi

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Introduzione

Una pelle particolarmente sensibile, sottile o molto secca, può essere maggiormente predisposta ad arrossamenti cutanei ed irritazioni che compaiono prevalentemente su viso, petto, collo, seno ed inguine.

Il rossore che riguarda queste tipologie di pelle è generalmente dovuto ad una dilatazione dei vasi sanguigni, che si instaura in seguito ad un’infiammazione cutanea, scatenata da diversi fattori, come, per esempio:

Nella maggior parte dei casi l’arrossamento cutaneo che consegue alla dilatazione dei vasi è transitorio (si parla in questo caso di rossore temporaneo o “flash”) e si risolve in un arco temporale breve (qualche minuto o diverse ore, solo raramente qualche giorno), entro il quale i vasi tornano alla normalità.

In alcuni casi, tuttavia, il rossore può diventare persistente e i vasi sempre più dilatati e visibili ad occhio nudo; è importante in questi casi consultare un medico, perché stabilisca una diagnosi certa e valuti il tipo di terapia più idonea.

Dal punto di vista terminologico è infine possibile individuare:

  • eritema (irritazione cutanea che interessa prevalentemente gli strati esterni della pelle causandone l’arrossamento in seguito ad un aumento dell’ apporto di sangue superficiale),
  • esantema (eruzione cutanea diffusa tipica soprattutto dei bambini),
  • rash (un improvviso cambiamento del colore, consistenza o aspetto della cute; può anticipare la comparsa di una malattia esantematica).

Eruzione cutanea (rash cutanei)

Un’eruzione cutanea è sostanzialmente un’area di pelle che si presenta irritata, arrossata e talvolta anche gonfia; anche chiamata rash cutaneo, l’eruzione può talvolta presentarsi con prurito e/o dolore, più raramente presentarsi con vesciche o vere e proprie macchie.

La dermatite da contatto è un tipo comune di eruzione cutanea: causa arrossamenti, prurito e talvolta piccoli pomfi e compare a seguito del contatto con un irritante  o una sostanza a cui si è allergici.

Alcune eruzioni si sviluppano immediatamente a seguito dello stimolo, altre compaiono a distanza di tempo (rendendo più difficile la diagnosi).

 

Come si presenta una pelle arrossata?

È possibile distinguere diverse manifestazioni cliniche indicative di una pelle sensibile e soggetta a rossori, in particolar modo:

  • Rossori temporanei o flush: sono dovuti frequentemente ad aggressioni climatiche, emozioni, alterazioni dell’alimentazione, vampate di calore (tipiche della menopausa) hanno carattere transitorio (durano alcuni minuti) e si risolvono in maniera spontanea.
  • Rossori diffusi e permanenti (detti anche “eritrosi”): sono localizzati prevalentemente in corrispondenza delle guance e riconducibili ad una dilatazione più marcata dei vasi dermici che spesso si riduce con la pressione. In questo caso potrebbero essere indicativi di una rosacea, ma anche di malattie più serie (tra cui feocromocitoma, tumori di pancreas, tiroide e reni, lupus, dermatomiosite, policitemia vera) per cui è importante consultare uno specialista.
  • Piccoli capillari dilatati (chiamati “couperose”, termine usato anche per indicare la rosacea): inestetismi cutanei localizzati a livello di guance, zigomi e ali del naso, che appaiono come venature rossastre e diffuse, specialmente nelle donne, e non regrediscono in maniera spontanea.
  • Macchie rosse (talvolta con punti bianchi): vere e proprie eruzioni cutanee che si sviluppano sulla superficie della pelle, ma che possono originare anche dal tessuto sottocutaneo o da reazioni che coinvolgono l’organismo a livello sistemico. Anche in questo caso è opportuno fare ricorso ad un dermatologo che, grazie alla valutazione di sedi interessate, evoluzione nel tempo delle lesioni e correlazione con altri sintomi, elaborerà una strategia terapeutica adeguata.

Oltre a questi reperti caratteristici, il rossore, a seconda della causa sottostante, può essere accompagnato da:

Quali sono le cause?

Una pelle arrossata è un sintomo comune a diverse condizioni cliniche, ma alcuni fattori possono favorire la comparsa e l’aggravarsi del problema, come ad esempio:

  • Fattori esterni: raggi UV, inquinamento, variazioni climatiche (caldo, freddo, vento, sforzi fisici), alimentazione (bevande calde, alcolici, cibi piccanti), stress, che causino una marcata accelerazione della microcircolazione cutanea e vasodilatazione.
  • Assunzione di farmaci: principalmente vasodilatatori ed anti-ipertensivi
  • Famigliarità: una pelle particolarmente vasoreattiva e soggetta ad arrossamenti può interessare soggetti che presentino familiarità.
  • Invecchiamento cutaneo: dai 25 anni in su, generalmente, la pelle è più sensibile ai rossori.
  • Stimoli emotivi: rabbia, imbarazzo, ansia.

Il rossore persistente, invece, si può manifestare in specifiche malattie della pelle, quali:

Quali sono i possibili rimedi?

Il rossore della cute è un fenomeno generalmente transitorio e risolvibile dopo eliminazione della causa che l’ha scatenato, ma, per prevenire l’aggravarsi di questa condizione e ridurne l’incidenza, possono essere utili alcuni semplici accorgimenti:

  1. Idratare adeguatamente la pelle: bere almeno 2 litri di acqua al giorno e applicare quotidianamente creme idratanti o formulate appositamente per pelli sensibili.
  2. Evitare l’esposizione a temperature eccessivamente calde durante il bagno o la doccia e fare uso di detergenti delicati e contenenti ingredienti naturali (come quelli composti da karité e burro di cacao).
  3. Lenire gli arrossamenti mediante l’applicazione di creme e gel dalle proprietà lenitive (come quelle a base di Aloe vera, olio di Rosa mosqueta, olio di borragine) che calmino le irritazioni e reidratino la pelle.

Se invece

  • l’arrossamento è persistente,
  • si è affetti da un’altra patologia cutanea (psoriasi, dermatite, micosi),
  • si sospetti una malattia esantematica o siano presenti altri sintomi (ad esempio cefalea, febbre, nausea, vomito),

è opportuno rivolgersi ad un medico perché individui la causa del rossore ed imposti la terapia più appropriata.

Fonti e bibliografia

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Pelle grassa di viso e corpo: cause, sintomi e rimedi

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Introduzione

Il sebo è una sostanza oleosa prodotta dalle ghiandole sebacee presenti nel derma, lo strato della cute che si trova sotto all’epidermide) che ha il compito di ammorbidire la pelle creando un film protettivo verso gli agenti esterni.

Un’eccessiva produzione di sebo (il termine medico che indica un’iperproduzione di sebo è seborrea) può conferire alla pelle un colorito spento ed un aspetto lucido, untuoso e irregolare.

Si parla in questi casi di “pelle grassa”, condizione che può esitare nella comparsa di:

  • pori dilatati,
  • comedoni (punti neri),
  • brufoli ed acne (nel caso in cui i follicoli risultino infiammati per concomitanti infezioni batteriche).
Viso di donna con pelle grassa

iStock.com/stock_colors

Aspetto estetico

Essendo il film idrolipidico delle persone con pelle grassa tendenzialmente più spesso e di consistenza cerosa, la traspirazione cutanea risulta ostacolata e ciò può conferire alla pelle un aspetto

  • spento,
  • irregolare,
  • untuoso
  • e ruvido,

nonché favorire la comparsa di alcuni inestetismi cutanei che possono causare nel tempo un vero e proprio disagio psico-fisico.

Chi ha una pelle grassa, inoltre, è tendenzialmente più suscettibile allo sviluppo di:

che possono gravare la sua condizione di partenza.

Cause

L’eccessiva produzione di sebo, caratteristica della pelle grassa, può essere attribuibile a diversi fattori, che spesso agiscono in combinazione tra loro:

  • Fattori genetici: parliamo in questo caso di “predisposizione familiare”.
  • Fattori ormonali: uno squilibrio di ormoni come testosterone, cortisolo, ormoni surrenali, può favorire l’aumento della secrezione sebacea.
  • Stress: l’alterazione del normale equilibrio dell’organismo può causare, tra l’altro, un’iperproduzione di sebo (per esempio a causa dell’aumento di cortisolo circolante).
  • Cosmetici inappropriati: il loro utilizzo può seccare eccessivamente la pelle e determinare una reazione di sovrapproduzione di sebo da parte delle ghiandole sebacee.
  • Dieta inadeguata: principalmente il consumo eccessivo di alcol e cibi grassi può causare difficoltà digestive e sovraccarico epatico.
  • Patologie: prima fra tutte, nelle donne, la sindrome dell’ovaio policistico, ma anche stati infiammatori sistemici.
  • Farmaci: principalmente pillole contraccettive e cortisonici o anabolizzanti.

Quanti tipi di pelle grassa possiamo distinguere?

Con l’accezione “pelle grassa”, oggi si fa riferimento a diverse tipologie di pelle, ognuna con specifiche caratteristiche.

Parliamo infatti di:

  • Pelle grassa oleosa: è causata da una sovrapproduzione di sebo (abbondante, ma non particolarmente eccessiva), localizzata principalmente nella zona di mento, naso e fronte, (detta zona T), che rende la cute particolarmente lucida.
  • Pelle grassa seborroica: la quantità di sebo prodotta è più importante e arriva ad ostruire i pori della cute, con comparsa di “pori dilatati” e altre imperfezioni, che conferiscono alla pelle un aspetto ruvido.
  • Pelle grassa asfittica: il sebo è ceroso, denso e si intrappola nei follicoli ostruendone i lumi e determinando la comparsa di comedoni (definiti “punti bianchi “quando sono “aperti” o “punti neri” quando appaiono “chiusi”) che occludono il follicolo ed impediscono al sebo di fuoriuscire e svolgere la propria funzione di idratazione. Il colorito della cute è spento e sono presenti numerose impurità.
  • Pelle mista: la cute si presenta oleosa in alcuni punti, come la zona T e secca in altri, come a livello di guance e contorno occhi, per un differente ed alterato funzionamento delle ghiandole sebacee in corrispondenza delle diverse aree del volto.
  • Pelle acneica: l’alterazione della produzione sebacea è gravata da infiammazioni e infezioni batteriche responsabili della comparsa di papule e pustole che possono apparire come lesioni rilevate vistose e deturpanti. Questa condizione interessa generalmente gli adolescenti e gli adulti, fino a 25-30 anni di età ed è causa di notevoli disagi.

Rimedi

Per migliorare l’aspetto della pelle grassa, è possibile adottare alcuni accorgimenti:

  1. Detergere la pelle in maniera appropriata, servendosi di detergenti delicati, che non ne alterino eccessivamente gli equilibri: acqua e sapone o, meglio, un detergente senza sapone. Evitare una frequenza di lavaggio eccessiva, che potrebbe causare irritazione (in genere viene consigliato di procedere al mattino, alla sera e dopo l’attività fisica).
  2. Scegliere cosmetici adeguati per il tipo di pelle, utilizzando prodotti specifici e preferibilmente di consistenza non oleosa e non comedogenici, perché incrementerebbero l’effetto lucido.
  3. Idratare quotidianamente la pelle con prodotti specifici.
  4. Non andare mai a dormire con il trucco ancora applicato.
  5. Proteggere la pelle dal sole (l’utilizzo di creme che proteggano dalle reazioni dei raggi UV è fondamentale per la salute ed ostacola la formazione di comedoni e l’aumento di spessore cutaneo).
  6. Adottare una sana alimentazione che preveda una limitazione di cibi grassi, alcol e zuccheri raffinati e favorisca il consumo di pesce, carni bianche, verdura e frutta di stagione.

È opportuno sottolineare che l’adozione di queste precauzioni è volta a prevenire un peggioramento o favorire un miglioramento dell’aspetto della pelle, ma qualora l’alterazione della produzione sebacea esiti in imperfezioni diffuse o sia complicata dalla comparsa di papule o pustole, con segni di infiammazione, rossore, pruriti, è necessario rivolgersi ad un dermatologo per valutare al meglio le cure del caso.

Fonti e bibliografia

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Dipendenza da farmaci: cause, sintomi e cura

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Introduzione

La dipendenza da farmaci può insorgere verso medicinali che il medico prescrive su ricetta per trattare un problema di salute, in virtù degli effetti terapeutici desiderati in quel momento (a differenza delle sostanze illegali, chiamate droghe).

Il farmaco assunto secondo le indicazioni mediche agisce tramite un meccanismo biochimico specifico e porta al risultato terapeutico per cui è stato prescritto.

È fondamentale sottolineare che a creare la dipendenza non è il farmaco in sé, se utilizzato esattamente nei modi e nei tempi indicati nella prescrizione, bensì l’abuso (utilizzo improprio) che se ne fa come automedicazione, o al fine di raggiungere stati alterati di coscienza (euforia, rilassamento, riduzione della tensione psico-fisica), adottando quindi modalità non raccomandate dal medico, che aumenta il rischio di dipendenza.

I farmaci più spesso oggetto di abuso e che possono portare a dipendenza sono:

Gli oppioidi e i sedativi sono quelli di cui si abusa più frequentemente.

Primo piano di due mani che tengono blister di farmaci vuoti

iStock.com/Nastasic

Uso, abuso e dipendenza

Assumere un farmaco che può creare dipendenza non significa esserne automaticamente dipendenti, come abbiamo spiegato.

Si parla di abuso di farmaci quando volontariamente la persona non segue le indicazioni della prescrizione medica e ne altera a piacimento le regole di utilizzo.

Dall’utilizzo secondo raccomandazione si passa ad una o più delle seguenti modifiche:

  • aumento della dose,
  • aumento della frequenza di assunzione,
  • modifica della via di somministrazione (ad esempio inalando la compressa frantumata o iniettando il composto in vena),
  • utilizzo della prescrizione di un’altra persona,
  • associazione con altre sostanze.

Ricordiamo inoltre che anche abusare di un farmaco non significa automaticamente esserne dipendenti: l’abuso è, infatti, una condizione necessaria ma non sufficiente allo sviluppo della dipendenza.

La dipendenza psico-fisica, secondo le evidenze scientifiche attuali, è per definizione un disturbo cronico recidivante (che implica cioè delle ricadute) caratterizzato dall’utilizzo compulsivo di sostanze e dall’incapacità di smettere, nonostante le conseguenze disastrose a livello:

  • individuale,
  • familiare,
  • interpersonale,
  • economico,
  • sociale,
  • legale.

I tre stadi della dipendenza sono:

  • preoccupazione volta a come procurarsi la sostanza,
  • intossicazione e conseguenti effetti negativi,
  • astinenza.

I tre stadi si alimentano a vicenda in una pericolosa spirale e, con l’aggravarsi della dipendenza, diventano sempre più intensi e fuori controllo.

Col passare del tempo, infatti, s’instaurano dei cambiamenti nella struttura e nel funzionamento dei neuroni che modificano le capacità decisionali della persona; l’alterazione della chimica cerebrale spiega quindi il circolo vizioso della dipendenza:

se il primo tentativo di abuso è volontario, in seguito diventa una compulsione a cui la persona non riesce a sottrarsi.

Prevenzione

Riconoscere tempestivamente un uso improprio di farmaci prescritti, che permetta un intervento precoce, permette d’impedire che la pratica sfoci nella dipendenza psico-fisica vera e propria.

Per prevenire l’abuso di farmaci normalmente prescritto dal medico, è indispensabile:

  1. Attenersi scrupolosamente alle indicazioni della prescrizione riguardo alle quantità e ai tempi di somministrazione, nonché alla durata della terapia.
  2. Informare il medico dei medicinali, da prescrizione o da automedicazione, e di eventuali integratori assunti in concomitanza, anche se naturali.
  3. Non interrompere bruscamente il farmaco prescritto e non aumentarne la dose in assenza degli effetti terapeutici auspicati, senza aver consultato preventivamente il medico.
  4. Non associare alle medicine prescritte alcol o altre sostanze illegali.
  5. Non utilizzare la prescrizione di un’altra persona e non dare la propria prescrizione a un’altra persona.

Cause e fattori di rischio

La dipendenza da farmaci è un problema crescente di salute globale che può manifestarsi a qualsiasi età, anche se è più frequente negli adolescenti e nei giovani adulti.

Negli adulti si rileva soprattutto in concomitanza con l’assunzione di alcol o in presenza di più malattie mediche.

Ricercare le cause di un fenomeno così complesso come la dipendenza da farmaci non è semplice, tant’è che i fattori implicati non sono ancora del tutto noti.

È tuttavia dimostrato che l’uso prolungato di alcune classi di farmaci alterino la chimica neuronale in aree critiche del cervello (per la capacità decisionale e di giudizio, controllo del comportamento, memoria e apprendimento) e come questi cambiamenti alimentino la progressione e peggiorino la dipendenza.

La predisposizione all’abuso e alla dipendenza è però il risultato di un complesso intreccio di fattori che s’influenzano a vicenda:

  • fattori genetici,
  • fattori individuali:
    • età,
    • ricerca di gratificazioni,
    • desiderio di sperimentare gli effetti del farmaco (benessere psico-fisico, euforia, alleviare la tensione, aumentare l’allerta e la reattività, ridurre l’appetito),
    • mancanza di alternative sane,
    • mancanza di conoscenza riguardo alle norme di assunzione e ai rischi;
  • fattori familiari:
    • storia familiare di abuso o dipendenza da sostanze,
    • traumi infantili.
  • Fattori ambientali e sociali:
    • accesso agevolato alle prescrizioni mediche (ad esempio possedere delle prescrizioni di un familiare in casa),
    • condizionamenti sociali (ad esempio desiderio di essere accettato dal gruppo dei pari o contesti che legittimano l’abuso di sostanze, volontà di aumentare la concentrazione e la performance scolastica o lavorativa),
    • disturbi psichiatrici pre-esistenti.

Sintomi

L’abuso di oppioidi, sedativi o stimolanti provoca dei sintomi che variano da farmaco a farmaco, inoltre è possibile individuare i segni e i sintomi della dipendenza vera e propria.

Sintomi dell’abuso di farmaci

  • Oppioidi:
    • stitichezza,
    • nausea e vomito,
    • restringimento delle pupille,
    • sensazione di euforia e confusione mentale,
    • aumento della sensibilità al dolore,
    • compromissione della coordinazione,
    • rallentamento della frequenza respiratoria fino al blocco completo, con rischio di coma e morte da overdose.

 

  • Sedativi (tipicamente benzodiazepine, ma non solo):
    • sonnolenza,
    • confusione mentale,
    • capogiri,
    • marcia instabile,
    • difficoltà nel parlare (“biascicare”),
    • ridotta concentrazione,
    • problemi di memoria,
    • rallentamento della frequenza respiratoria fino al blocco completo, con rischio di coma e morte da overdose.

 

Segni e sintomi della dipendenza psico-fisica.

Con l’utilizzo prolungato del farmaco il corpo si “abitua” alla presenza e gli effetti della sostanza.

Si manifestano:

  • Tolleranza: la condizione per cui sono necessarie dosi sempre più alte di farmaco per ottenere gli stessi effetti iniziali.
  • Sindrome d’astinenza: se si sospende bruscamente la sostanza, insorgono dei sintomi molto intensi:

Si noti che

Chi è dipendente psicologicamente dai farmaci li ricerca in maniera compulsiva: si parla in questi casi di craving, ossia un desiderio impellente di consumare la sostanza che assume i tratti della compulsione, soprattutto in presenza di specifici stimoli e rinforzi (frustrazioni e contesti sociali in cui è accettato l’abuso di farmaci).

La persona:

  • non riesce a smettere di assumere il farmaco,
  • è convinto di non riuscire a condurre una vita normale senza assumerlo,
  • è terrorizzato dall’idea di smettere,
  • non possiede il controllo su se stesso,
  • pensa ossessivamente alla sostanza,
  • utilizza la sostanza per gestire le emozioni,
  • assume la sostanza per eliminare l’effetto di un’altra (illegale o non),
  • è coinvolto in comportamenti a rischio a causa della compromissione delle capacità di giudizio (cercare da medici diversi la prescrizione, furto, falsificazione o vendita di prescrizioni mediche, associazione con altre sostanze, incidenti stradali, problemi legali),
  • ha un umore instabile (è euforico, su di giri, ostile, sedato),
  • non è interessato alle normali attività della vita quotidiana,
  • non mangia e non dorme come prima,
  • è trascurato nell’igiene e nella cura personale.

Le conseguenze della dipendenza sono tragiche e includono:

  • compromissione lavorativa o scolastica,
  • problemi familiari, interpersonali, sociali e legali,
  • overdose, che si manifesta con
    • pelle fredda e sudata,
    • tremore,
    • confusione mentale,
    • incapacità di parlare,
    • estrema sonnolenza,
    • blocco respiratorio,
  • rischio di coma e morte.

Diagnosi

La diagnosi di dipendenza da farmaci è

  • Clinica. Si basa sul colloquio con il medico e sulla raccolta della storia familiare e individuale della persona, dei sintomi di abuso e di dipendenza.
  • Laboratorio. Esistono degli esami di laboratorio (i test tossicologici) che rilevano la presenza dei farmaci (oltre che delle sostanze illegali come cannabis, eroina e cocaina) nel sangue, urina e saliva.
  • Strumentale. Gli esami strumentali integrano il quadro complessivo per studiare le conseguenze dell’uso della sostanza sui diversi organi.

Cura e rimedi

La dipendenza si può curare, ma il trattamento è un percorso a lungo termine e, a causa della natura cronica e recidivante del problema, purtroppo caratterizzato da frequenti ricadute.

L’obiettivo dei programmi di trattamento è mantenere il paziente abbastanza a lungo nel percorso per permettergli di cessare la dipendenza, reinserirsi nella società e condurre una vita nuovamente attiva e soddisfacente.

È facile comprendere come questo possa richiedere più di un ciclo di trattamento e comunque un costante supporto da parte della famiglia e della comunità.

La riuscita del percorso di cura dipende dalla gravità del problema, dalla disponibilità sul territorio dei servizi per le dipendenze, dall’appropriatezza del trattamento e dalla relazione che s’instaura fra il paziente e il personale sanitario.

Per aumentare le probabilità di successo, un buon programma di trattamento dovrebbe essere:

  • fondato su evidenze scientifiche,
  • personalizzato sulle singole esigenze e caratteristiche del paziente,
  • della corretta durata (le ricerche indicano che per le dipendenze più gravi sono necessari non meno di 3 mesi di trattamento per dare risultati visibili, e che tempi più lunghi portano a risultati migliori),
  • multidisciplinare (costituito da terapia farmacologica, comportamentale, reinserimento lavorativo, servizi sociali, legali, per l’abitazione, salute mentale, gruppi di supporto e auto-aiuto).

La disintossicazione è il primo passo del trattamento, perché permette al corpo di liberarsi della sostanza in circolo e di riacquistare la capacità di ragionamento e giudizio, indispensabili per il proseguimento del piano di cura.

I centri dedicati alla disintossicazione garantiscono la sicurezza necessaria in questa fase delicata.

Purtroppo, soprattutto per gli oppioidi, non tutti coloro che soffrono di dipendenza cercano un trattamento.

Disintossicazione da oppiodi

Per la dipendenza da oppioidi sono utilizzati farmaci specifici che trattano:

  • Overdose: il naloxone inverte rapidamente gli effetti da overdose e ripristina la respirazione in chi ha smesso di respirare.
  • Sintomi d’astinenza e craving. Questi farmaci (come metadone e buprenorfina) agiscono sugli stessi recettori cerebrali degli oppioidi ma con minore intensità e più a lungo, non producendo gli effetti della dipendenza, ma permettendo al corpo di eliminare la sostanza tossica in circolo.
  • Ricadute: il naltrexone evita le ricadute dopo che la persona è completamente disintossicata.

Disintossicazione da sedativi e stimolanti

Non esistono a oggi farmaci approvati per il trattamento della dipendenza da sedativi e stimolanti.

Durante la disintossicazione i farmaci non devono essere interrotti senza il controllo medico: se interrotti bruscamente, senza diminuire gradualmente la dose, tendono ad indurre una severa sindrome d’astinenza.

Ricordiamo inoltre che spesso si abusa di sedativi in concomitanza con alcol o oppioidi.

Terapie comportamentali

La psicoterapia è associata alla fase di disintossicazione (anche in concomitanza con l’assunzione dei farmaci per la sindrome d’astinenza e il craving) e/o la può seguire.

Si utilizzano approcci comportamentali come la psicoterapia cognitivo-comportamentale individuale, familiare o di gruppo che:

  • Modificano il modo di pensare e il comportamento patologico,
  • Forniscono risorse per gestire il craving ed evitare le situazioni che potrebbero scatenare le ricadute,
  • Sostituiscono il comportamento di abuso con attività più costruttive e gratificanti,
  • Migliorano le relazioni.

Fonti e bibliografia

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Meteoropatia: cause, sintomi e rimedi

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Cosa significa essere meteoropatici?

La meteoropatia è un disturbo molto comune, che secondo alcune stime potrebbe interessare in qualche misura almeno il 25% della popolazione italiana; come suggerisce il nome si tratta di un disturbo (“patia”) legato al “meteo” (dal greco μετέωρον=meteoron, che si traduce con “cosa che avviene in alto”).

La meteoropatia è quindi una condizione di disturbo psico-fisico legata a particolari variazioni climatiche, quali:

  • pioggia,
  • vento,
  • pressione atmosferica,
  • freddo o caldo improvviso,
  • umidità.

Il clima può dunque essere la causa di una nostra giornata storta, ma il cattivo umore non è l’unico sintomo di cui soffre un meteoropatico; anche disturbi di natura organica come

  • mal di testa,
  • mal di stomaco,
  • nausea,
  • palpitazioni,

possono riconoscere, sovente in modo insospettabile, una causa “climatica” e colpire quelle persone che subiscono negativamente i repentini cambiamenti climatici.

Cielo di una giornata uggiosa

iStock.com/sankai

Cause

Sappiamo che i giorni di pioggia, di forte vento, di cielo nuvoloso e grigio possono impattare negativamente sul nostro fisico e/o sul nostro umore e quindi sulla nostra vita quotidiana, ma il motivo per cui ciò accade non è ad oggi conosciuto.

Dall’analisi dei soggetti predisposti e più a rischio di sviluppare meteoropatia è possibile fare delle ipotesi del perché solo alcune persone soffrano di meteoropatia ed altre no.

In molti casi il profilo del soggetto meteoropatico è tendenzialmente una persona che mal si adatta ad eventi nuovi, una sorta di “depresso dell’inverno”, dato che il suo calo d’umore e gli altri disturbi correlati sono strettamente connessi alla vista di un cielo grigio, ventoso e poco luminoso tipicamente invernale.

Il cervello ha probabilmente un ruolo di primo piano nella fisiopatogenesi della meteoropatia, in particolare una zona dell’encefalo chiamata adenoipofisi: si tratta di una ghiandola contenuta all’interno di un’escavazione ossea, detta sella turcica, e addetta alla produzione dell’ormone ACTH, il cosiddetto “ormone dello stress”.

Se normalmente quest’ormone è prodotto in quantità maggiori al mattino (diminuendo invece nelle ore serali), nel soggetto meteoropatico con l’arrivo improvviso del freddo e di un mutamento delle condizioni climatiche se ne producono quantità maggiori, inducendo così nervosismo ed irritabilità.

Sempre nel cervello dei meteoropatici, in concomitanza con il passaggio alla stagione fredda o ad una perturbazione climatica, altre sostanze chiamate endorfine potrebbe subire un calo della loro produzione con conseguente riduzione delle difese immunitarie e della capacità di tolleranza al dolore.

Altri organi coinvolti potrebbero essere la tiroide e le ghiandole surrenali.

Fluttuazioni degli estrogeni e forti riduzioni di progesterone, invece, potrebbero spiegare la meteoropatia che frequentemente si rileva nelle donne nel periodo pre-menopausale.

Alcune ricerche hanno infine dimostrato l’esistenza di uno stretto legame tra quantità di luce solare cui si viene esposti e lo stato dell’umore, così come grandi quantità di luce naturale migliorino il nostro umore: non è un caso, ad esempio, che i paesi del Nord Europa, soggetti a scarsità di luce solare in buona parte dell’anno, registrino il maggior tasso di soggetti affetti da depressione maggiore.

Sebbene il freddo sia il fattore climatico più stressante per la maggior parte delle persone, talvolta anche il caldo improvviso ed eccessivo, così come elevati livelli di umidità, possono instaurare in alcune persone meteoropatiche una condizione di stress e renderle prive di energia o facilmente irritabili.

Fattori di rischio

A soffrire di meteoropatia sono soprattutto

  • donne,
  • bambini/adolescenti,
  • ed anziani.

È poi noto ad esempio che chi soffre di alcune patologie, come asma o dolori cronici, può essere soggetto ad una esacerbazione dei disturbi della malattia se fuori c’è un temporale o se c’è una giornata di forte vento, così come le persone affette da:

Tra gli altri soggetti che potrebbero essere a rischio di fastidi legati al tempo atmosferico e alle sue variazioni sono:

  • chi ha subito un trauma muscolare e/o osseo,
  • gli alcolisti,
  • chi assume farmaci cronicamente,
  • chi vive condizioni di forte stress emotivo (come un lutto, un divorzio, disoccupazione, …),
  • le donne in premenopausa/menopausa,
  • i soggetti allergici.

Ci sono dunque alcune condizioni mediche che possono renderci più sensibili alle variazioni del clima e, in questo caso, parleremo di meteoropatia secondaria.

La meteoropatia primaria, invece, è quella che può colpire qualsiasi persona, indipendentemente dal soffrire o meno di qualche malattia; la forma primaria in genere causa disturbi più lievi e tollerabili.

Sintomi

Una persona meteoropatica non ama molto i cambiamenti climatici, in particolare il suo corpo e la sua mente risentono fortemente del passaggio dalla calda stagione estiva a quella fredda e piovosa dell’autunno e dell’inverno.

La meteoropatia è una sindrome che può manifestarsi con vari sintomi, associati ai cambi di tempo e profondamente variabili tra un soggetto e l’altro; tra i possibili disturbi si annoverano:

Questi sintomi possono manifestarsi già uno o due giorni prima che le condizioni del tempo cambino, per poi attenuarsi gradualmente fino a risolversi in modo spontaneo una volta passata la perturbazione climatica.

Diagnosi

La diagnosi di meteoropatia è clinica e si basa sul racconto del paziente che riferirà al proprio medico di famiglia i disturbi di cui soffre.

Sarà compito del medico, una volta escluse patologie organiche, stabilire una possibile connessione tra i disturbi raccontati dal paziente e le variazioni climatiche, condizione essenziale per fare diagnosi di meteoropatia.

Rimedi

Non esistono farmaci in grado di curare la meteoropatia in senso stretto, è possibile però intervenire sui sintomi:

  • Si raccomanda di non provare ad alleviare i disturbi ricorrendo all’uso indiscriminato di ansiolitici, antidepressivi o sonniferi senza prescrizione medica: si tratta infatti di farmaci utili solo a seguito di una diagnosi certa di uno stato depressivo e/o nel caso in cui i sintomi lamentati dal paziente siano gravi e di lunga durata.
  • Analgesici o altri farmaci per alleviare i sintomi più fastidiosi (come ad esempio il mal di testa o la nausea) possono essere assunti, ma preferibilmente dietro prescrizione o consiglio del medico curante.

Cosa fare dunque quando il brutto tempo ci butta giù? Di seguito riportiamo alcuni suggerimenti per affrontare nel modo migliore i cambi di tempo:

  • praticare regolare attività fisica (anche delle semplici passeggiate a passo svelto ed all’aria aperta possono aiutare),
  • dedicarsi ad un hobby, meglio se all’aperto,
  • praticare yoga o di meditazione per rilassare la mente ed acquisire tecniche di rilassamento e di respirazione,
  • evitare luoghi bui e al chiuso,
  • allontanare per quanto possibile tutte le fonti di stress.

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Stenosi uretrale: cause, sintomi e cura

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Introduzione

La stenosi uretrale è una condizione caratterizzata da un restringimento dell’uretra, cioè del canale all’interno del pene che nel maschio è deputato a veicolare urina e sperma verso l’esterno.

Questa patologia, non particolarmente frequente, riconosce alla base diverse cause scatenanti (per la maggior parte infezioni batteriche o traumi) e risulta particolarmente invalidante per il paziente colpito; il sintomo più comune consiste in una difficoltà ad urinare che può, nel tempo, condurre a gravi complicanze.

La terapia è ad oggi basata sull’intervento chirurgico, che in assenza di complicazioni risulta generalmente risolutivo (nei pazienti più anziani non è purtroppo raro osservare recidive).

Richiami di anatomia

Anatomia semplificata del sistema genito-urinario maschile

iStock.com/Tera Vector

L’uretra maschile è il canale attraverso cui sperma e urina sono veicolati verso l’esterno.

Questa struttura tubulare ha origine dalla vescica e termina, dopo aver attraversato la prostata, il perineo e il pene, in corrispondenza del meato uretrale situato sulla sommità del glande.

Si divide in due porzioni principali, che possono essere interessate da diversi tipi di stenosi e che richiederanno uno specifico trattamento chirurgico:

  • l’uretra posteriore, anche detta “prostatica” perché attraversa la prostata;
  • l’uretra anteriore, a sua volta suddivisibile nelle porzioni“bulbare” e “peniena”.

Cause

La stenosi uretrale si verifica quando l’uretra è interessata da un restringimento in un punto qualunque del suo percorso.

La conseguenza di questa alterazione è che il flusso di urina risulta ostacolato e chi ne è affetto lamenterà una difficoltà minzionale di grado variabile, ma direttamente proporzionale all’entità della massa (spesso costituita da tessuto cicatriziale) che occlude il canale uretrale.

Gli uomini hanno maggiori probabilità di sviluppare il disturbo per ragioni essenzialmente anatomiche, legate alla maggior lunghezza dell’uretra; la condizione è possibile, ma rara in donne e neonati (dove si tratta essenzialmente di malformazioni congenite).

A determinare la stenosi dell’uretra è generalmente un processo infiammatorio cronico che sviluppare nel tempo una massa di tessuto cicatriziale.

Più in generale la stenosi uretrale può essere causata da:

  • Traumi o infortuni in corrispondenza dell’uretra: per esempio cadute (principalmente da cicli, motocicli, cavalli) oppure operazioni chirurgiche effettuate sulle vie urinarie (vescica e prostata) o sui genitali; in questi casi si possono formare delle lesioni uretrali che successivamente si rimarginano, determinando la formazione di una massa di tessuto cicatriziale che può, nei casi più gravi, occludere completamente il canale.
  • Infezioni: il tessuto cicatriziale può anche derivare da un’infezione patogena; ne sono un esempio la gonorrea e la clamidia (due malattie sessualmente trasmesse), ma anche infezioni determinate dall’uso prolungato di catetere urinario o stati infiammatori della prostata. Pur non causando sempre stenosi, in molti casi le infezioni possono aumentare notevolmente la suscettibilità per questa patologia.
  • Difetti congeniti: anomalie del canale urinario presenti fin dalla nascita.
  • Tumori: se localizzati all’uretra possono a loro volta diventare una (rara) causa di stenosi uretrale.

Nella maggior parte dei pazienti la causa rimane tuttavia conosciuta.

Sintomi

La stenosi uretrale si manifesta principalmente con:

Nei casi più gravi il paziente potrebbe presentare:

Complicazioni

Se protratta, la stenosi uretrale potrebbe favorire la comparsa di:

  • Attacchi di cistite e prostatiti: si manifestano con secrezioni dall’uretra, bruciore durante la minzione, dolore in corrispondenza della regione inguinale e soprapubica.
  • Fistole: alcuni processi infettivi a partenza dall’uretra o dai tessuti periuretrali possono complicarsi e causare ascessi e fistole nella regione genitale; queste condizioni cliniche sono caratterizzate dalla presenza di tumefazioni ed edemi in regione scrotale o peniena, accompagnati spesso da dolore, fuoriuscita di pus e febbre. Si tratta di condizioni da trattare tempestivamente, in quanto potrebbero sfociare in pericolosi quadri di setticemia.
  • Diverticoli uretrali: sono particolarmente frequenti in caso di malformazioni congenite dell’uretra o come conseguenza di interventi di chirurgia uretrale che abbiano comportato il cedimento della parete ricostruita; si manifestano con sgocciolamento di urina dopo la minzione, sintomi di falsa incontinenza urinaria e possono causare infezioni o determinare la formazione di calcoli uretrali.
  • Calcoli in vescica o nell’uretra: si presentano come masse di consistenza dura che si formano nelle vie urinarie e provocano dolore, sanguinamento, infezioni, oppure ostacolano il flusso urinario.

Diagnosi

La diagnosi di stenosi uretrale è basata principalmente su una visita urologica con un’attenta ricostruzione della storia clinica del paziente (anamnesi).

Possono poi essere eseguiti ulteriori accertamenti, come:

  • Urinocoltura e tampone uretrale: questi due esami sono finalizzati alla ricerca di eventuali patogeni in corrispondenza delle urine e delle basse vie dell’apparato urinario. Vengono utilizzati per escludere un’eventuale infezione batterica in atto e per stabilire, qualora fosse presente, la terapia antibiotica più appropriata.
  • Ecografia uretrale: è un esame radiologico non invasivo effettuato tramite una sonda; consente di ottenere immagini nitide e di quantificare il grado della stenosi.
  • Uroflussometria: attraverso questo esame, nel corso del quale il paziente urina in un contenitore collegato ad un computer, è possibile quantificare i valori del flusso urinario e registrare un’eventuale riduzione della forza del flusso.
  • Uretrografia: è un esame radiologico eseguito con mezzo di contrasto per visualizzare interamente l’uretra e la vescica. È l’esame più importante per la diagnosi di stenosi e rappresenta lo step diagnostico fondamentale per pianificare l’intervento chirurgico di ripreparazione dell’uretra. Risulta purtroppo fastidioso per il paziente. Può essere retrograda o anterograda, a seconda del punto dell’uretra in cui viene iniettato il contrasto (tratto finale canale uretrale o vescica, rispettivamente).
  • Uretroscopia: questo esame è condotto in anestesia, introducendo attraverso il meato un uretroscopio che permette di studiare le condizioni interne dell’uretra e delle pareti uretrali, informazioni fondamentali in vista della scelta dell’intervento chirurgico più appropriato.

Cura

La terapia della stenosi uretrale è chirurgica e coadiuvata, talvolta, dalla somministrazione di antibiotici (in caso di concomitanti infezioni batteriche delle vie urinarie); nella maggior parte dei casi l’intervento consente di trattare la patologia con successo.

Esistono diversi tipi di intervento in grado di riparare il danno del canale uretrale e i criteri di scelta della procedura dipendono da diversi fattori, tra cui:

  • età,
  • stato di salute del paziente,
  • grado di stenosi,
  • pregressi interventi chirurgici,
  • entità della sintomatologia.

Gli interventi più comuni sono:

  • Dilatazione progressiva dell’uretra effettuata con appositi dispositivi (sonde e cateteri), che consente di recuperare gradualmente un calibro del vaso sufficiente a consentire un agevole passaggio dell’urina. Si tratta di un approccio utile ai casi più semplici, che può essere praticato in molti modi a seconda della gravità della stenosi (da applicazioni eseguibili autonomamente dal paziente, a procedure più invasive che richiedono l’anestesia generale).
  • Uretrotomia endoscopica: è basata sull’utilizzo di un endoscopio, strumento dotato di telecamera, per riconoscere l’esatto punto della stenosi. Il chirurgo, una volta individuata la zona del canale uretrale interessata dall’occlusione, esegue un taglio che consente di riaprire la zona occlusa e lascia provvisoriamente in sede, allo scopo di mantenere pervio il canale uretrale, un catetere dotato di un’estremità gonfiabile (catetere Foley). Questo intervento ha più probabilità di successo se la stenosi è di dimensioni ridotte.
  • Uretroplastica: è una procedura invasiva, da eseguire in anestesia generale, che consiste nella rimozione della zona di tessuto cicatriziale e nella ricostruzione chirurgica dell’uretra. È associata ad una buona percentuale di successo nella maggior parte dei casi.

Fonti e bibliografia

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Emorragia interna: quali sintomi? Cosa fare?

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Introduzione

L’emorragia interna è definita come un importante sanguinamento che si raccoglie all’interno del corpo e non è visibile all’esterno, derivante dalla rottura di un vaso sanguigno.

I primi sintomi dell’emorragia interna includono

  • dolore nel distretto in cui si verifica l’emorragia,
  • ansia,
  • aumento della frequenza respiratoria,
  • polso debole (battito percepito in modo lieve),
  • e pelle fredda su braccia e gambe.

Se il sanguinamento interno non viene trattato la pressione del sangue inizierà a calare significativamente e, come tentativo di compensazione, il battito cardiaco e la frequenza respiratoria continueranno ad aumentare; compariranno i primi segni di alterazione dello stato mentale a causa della riduzione del sangue circolante e della ridotta pressione (un adulto può perdere più del 30% del volume di sangue prima che si verifichino cambiamenti nei segni vitali o nel livello di coscienza).

Si tratta di un’emergenza medica, la cui gravità dipende dalla localizzazione e dall’entità dell’emorragia; se non trattata tempestivamente può portare allo sviluppo di shock emorragico con riduzione del volume di sangue circolante e morte del paziente.

Emorragia interna, immagine che rappresenta la rottura di un'arteria su sfondo bianco

iStock.com/Naeblys

Cause

Le cause responsabili di un sanguinamento interno possono essere numerose e di gravità variabile, ricordiamo ad esempio:

  • farmaci, in particolare i fluidificanti del sangue tra cui: dicumarolici come l’acenocumarolo (Sintrom®) e il warfarin (Coumadin®), i nuovi anticoagulanti orali (NAO) tra cui l’apixaban, rivaroxaban, il dabigatran e l’edoxaban e gli antiaggreganti come l’acido acetilsalicilico, il clopidogrel e la ticlopidina;
  • aneurisma, ossia la dilatazione patologica di un’arteria (cerebrale, addominale, …) che può rompersi ed iniziare a sanguinare, ad esempio a causa della pressione alta;
  • disturbi emorragici ereditari, tra cui l’emofilia, una malattia genetica che impedisce la corretta coagulazione del sangue. Una lesione anche lieve, può portare alla lunga ad un sanguinamento importante se non viene riconosciuta ed adeguatamente trattata;
  • cause gastrointestinali: un’emorragia interna dell’apparato digerente può essere la conseguenza di diverse patologie tra cui polipi del colon, colite, morbo di Crohn, gastrite, esofagite e varici esofagee, ulcere gastriche e duodenali, …;
  • traumi: incidenti stradali o cadute di oggetti pesanti sul corpo possono danneggiare organi, vasi sanguigni oppure ossa, senza che si verifichi una lesione con l’esterno;
  • gravidanza extrauterina: può causare un’emorragia interna a causa della rottura delle tube, diventando rapidamente un’emergenza medica,
  • chirurgia: prima del termine del trattamento, lo specialista dovrà assicurarsi che non vi sia alcun tipo di sanguinamento;
  • infezioni: sebbene poco comuni, esistono diverse infezioni in grado di causare emorragia interna, tra cui ad esempio Ebola, Dengue o infezione da virus di Marburg;
  • tumori (come nel caso del tumore al colon-retto).

Sintomi dell’emorragia interna

L’emorragia interna è una condizione clinica spesso subdola, che nella maggior parte dei casi viene diagnosticata in fase avanzata perché inizialmente potrebbero non comparire sintomi.

Le manifestazioni cliniche dipendono dalla localizzazione del sanguinamento:

Complicazioni

Nei casi più gravi, quando l’emorragia interna non viene riconosciuta o trattata tempestivamente, ci può essere una notevole perdita di sangue con conseguente rischio di shock emorragico. I sintomi includono:

Diagnosi

La diagnosi di emorragia interna si basa su un’anamnesi approfondita sul paziente, seguita dall’esame obiettivo, concentrandosi su quell’area del corpo in cui potrebbe essersi verificato il sanguinamento. Ad esempio,

  • quando vi sia il sospetto di un’emorragia cerebrale, l’esame obiettivo si focalizzerà sul sistema neurologico,
  • mentre in caso di sospetto sanguinamento intestinale, lo specialista si concentrerà sull’addome.

È importante valutare il paziente alla ricerca di eventuali segni visibili sul corpo che possano suggerire un’emorragia interna tra cui una ferita, un ematoma (che potrebbe far sospettare un trauma violento), un livido, una sindrome compartimentale.

Gli esami del sangue possono essere richiesti per verificare l’eventuale presenza di

si noti tuttavia che, se l’emorragia si verifica rapidamente, i valori possono risultare ancora normali.

I test strumentali sono fondamentali per poter far diagnosi:

  • la TC è l’esame più utilizzato per ricercare un’emorragia cerebrale. È inoltre in grado di identificare un’eventuale frattura del cranio. Utile anche nei sanguinamenti che derivano da lesioni degli organi e vasi retroperitoneali (reni, surreni, aorta, vena cava inferiore, duodeno, colon e pancreas),
  • l’ecografia può essere utile in caso di emorragia addominale, soprattutto per problemi ostetrici o ginecologici, tra cui un sanguinamento derivante da una cisti ovarica o una gravidanza extrauterina,
  • se si sospetta la lesione di un vaso come un arteria, può essere utilizzata l’angiografia che permette di valutare il flusso sanguigno arterioso,
  • nel caso in cui l’emorragia sia molto grave e il paziente non sia cosciente, è necessario un intervento chirurgico per poter ricercare la fonte del sanguinamento (laparotomia esplorativa).

Cura

La gestione dell’emorragia interna dipende dalla causa e dalla gravità dell’emorragia:

  • Il trattamento delle emorragie lievi comporta in genere la somministrazione di liquidi per via endovenosa e un successivo periodo di riposo. Tipicamente si svilupperà un coagulo che limita temporaneamente l’emorragia mentre il vaso sanguigno si ripara da solo. Nel tempo, i tessuti corporei circostanti riassorbiranno il sangue in eccesso.
  • Nelle forme più gravi è fondamentale la ricerca del sanguinamento, portando il paziente in sala operatoria per cercare di individuare e fermare l’emorragia. Nel frattempo è importante che al paziente vengano somministrati fluidi per via endovenosa ricchi in elettroliti e valutare per un’eventuale trasfusione di sangue.

Successivamente viene consigliato al paziente un periodo di riposo, cercando di associarlo a uno stile di vita sano. Per ridurre il rischio di nuovi episodi emorragici, verranno sospesi i farmaci anticoagulanti in tutti quei pazienti che li assumono.

Fonti e bibliografia

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Condrosarcoma: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

Il condrosarcoma è un tumore maligno delle ossa che origina dal tessuto cartilagineo e la caratteristica peculiare è che le sue cellule producono a loro volta cartilagine.

La rimozione chirurgica del tumore è il cardine del trattamento del condrosarcoma. Le radiazioni e la chemioterapia sono raramente utili nel trattamento del condrosarcoma

È la seconda neoplasia primaria più comune dell’osso dopo il mieloma e l’osteosarcoma, ma nel complesso è comunque un tumore raro.

Si sviluppa soprattutto in età adulta con un’incidenza media intorno ai 50 anni ed una leggera prevalenza nel sesso maschile. Le ossa maggiormente colpite sono

  • il bacino,
  • le scapole,
  • lo sterno
  • e le costole

seguite dal femore e dall’omero. Il coinvolgimento di mani e piedi è raro.

I condrosarcomi possono essere classificati in base alla loro localizzazione: centrali, se originano all’interno della cavità midollare dell’osso o periferici, se crescono esternamente all’osso.

La prognosi e la sopravvivenza dipendono essenzialmente dalla tempestività della diagnosi, dalla localizzazione e dall’aggressività del tumore; alcuni tipi di condrosarcoma crescono lentamente e, purché rimossi completamente, hanno un basso rischio di diffusione ad altri organi e ossa. Altri crescono invece più rapidamente e sono associati ad un elevato rischio di metastasi, fatto che ne peggiora la prognosi.

Per le forme meno aggressive, circa il 90% dei pazienti sopravvive più di 5 anni dopo la diagnosi. Un tumore diagnostico più tardivamente tende ad essere anche maggiormente aggressivo: circa il 10% dei pazienti sopravviverà a 1 anno dalla diagnosi (fonte).

Nonostante la terapia e la rimozione del tumore, possono comunque presentarsi delle recidive nel tempo, per questo diventano fondamentali i controlli periodici per cercare di riconoscere precocemente eventuali recidive.

Cause

La causa precisa del condrosarcoma non è nota, ma si ipotizza l’esistenza di una possibile predisposizione genetica; talvolta sono invece una conseguenza tardiva della radioterapia per altri tumori trattati in precedenza.

La maggior parte dei condosarcomi è primaria, ma in una ridotta percentuale dei casi può essere secondario (cioè conseguente) ad un tumore osseo o cartilagineo benigno preesistente.

Tra questi:

  • Encondroma: tumore benigno osseo che origina dalla cartilagine e solitamente interessa le mani (può interessare anche altre aree).
  • Osteocondroma: tumore osseo benigno che si sviluppa soprattutto tra i 10 e 20 anni e che coinvolge più frequentemente femore, tibia e omero.
  • Esostosi multiple: presenza di osteocondromi multipli. Il rischio di sviluppare condrosarcoma è più elevato.
  • Morbo di Ollier: encondromi multipli. Si sviluppa soprattutto nei bambini.
  • Sindrome di Maffucci: associazione tra encondromi multipli e angiomi (tumori benigni a carico dei vasi sanguigni).

Sintomi

I sintomi del condrosarcoma possono variare a seconda della posizione del tumore, inoltre, ogni individuo può manifestare sintomi in modo diverso, tra cui:

  • comparsa di una massa voluminosa dell’osso interessato,
  • dolore che solitamente peggiora durante la notte e che può essere alleviato assumendo farmaci anti-infiammatori (paracetamolo, ibuprofene, ketoprofene),
  • dolore persistente durante il giorno che non migliora con il riposo e che aumenta nel corso degli anni,
  • maggior rischio di fratture data la debolezza dell’osso coinvolto.

Un tumore localizzato a livello del cranio può causare sintomi neurologici da compressione cerebrale, come ad esempio:

  • mal di testa,
  • disturbi della visione,
  • disturbi dell’udito.

Diagnosi

Dopo aver raccolto un’accurata anamnesi del paziente, si procede alle indagini strumentali per identificare e classificare la lesione: la classica radiografia (RX tradizionale) viene utilizzata per definire la natura cartilaginea della massa tumorale, oltre che chiarirne le dimensioni. La TC (tomografia computerizzata) permette di valutare

  • le caratteristiche dell’osso,
  • le alterazioni della cartilagine
  • ed eventuali processi erosivi determinati dal tumore.

La RM (risonanza magnetica) permette di valutare l’estensione del tumore e la presenza di eventuali metastasi in altre sedi.

La biopsia è l’esame definitivo per una diagnosi corretta, pur rivestendo un ruolo controverso; può essere eseguita aperta o chiusa.

  • Biopsia chiusa: è una tecnica eccellente quando si desidera la conferma del tumore diagnosticato mediante radiografia e la clinica (osservazione dei segni e dei sintomi). Le biopsie dovrebbero prelevare materiale in quelle aree che destano una maggior preoccupazione. Lo svantaggio di questa tecnica è tuttavia che un errore di campionamento che possa pregiudicare la valutazione.
  • Biopsia aperta: è una tecnica più invasiva, che consiste in un vero e proprio intervento chirurgico, ma ha diversi vantaggi tra cui un rischio minore di infezioni e la possibilità di ridurre al minimo il rischio di errori di campionamento.

La decisione di eseguire una o l’altra tecnica dev’essere presa da un oncologo ortopedico esperto che tenga conto dell’anamnesi del paziente, dell’esame obiettivo e degli studi radiografici.

Cura

Il trattamento del condrosarcoma dipende da una serie di fattori:

  • età e stato generale del paziente, compresa la presenza di eventuali altre malattie,
  • estensione della malattia: il tumore può essere localizzato, facilmente asportabile mediante un trattamento chirurgico o viceversa, metastatico, con la diffusione della cellule tumorali in altre sedi: il condrosarcoma metastatizza più frequentemente a livello polmonare e in altre ossa;
  • tolleranza per specifici farmaci chemioterapici e procedure chirurgiche

La chirurgia è il trattamento di prima scelta per la maggior parte di questi tumori e può essere affrontata con diverse tecniche a seconda della localizzazione e delle dimensioni del tumore:

  • curettage: procedura in cui il chirurgo raschia il tumore senza rimuovere l’osso. Tale tecnica può essere utilizzata nelle neoplasie di piccole dimensioni, ad uno stadio iniziale;
  • resezione in blocco: questa tecnica rimuove completamente il tumore osseo e un ampio margine circostante compresi i tessuti normali attorno (riducendo notevolmente il rischio di recidive);
  • amputazione: viene eseguita quando il tumore ha avuto una crescita tale da coinvolgere le strutture circostanti alterando la circolazione sanguigna e l’innervazione locale.

La radioterapia può essere utilizzata in modalità diverse:

  • prima dell’intervento chirurgico, nei condrosarcomi di grandi dimensioni con l’obiettivo di ridurre il volume del tumore primitivo e facilitare il trattamento; questa modalità viene definita neoadiuvante;
  • dopo l’intervento chirurgico, per rimuovere anche gli eventuali residui di cellule tumorali presenti; questa modalità viene definita adiuvante;
  • radioterapia ad intensità modulata (IMRT): questa tecnica permette di irradiare con maggior precisione e con una dose adeguata di radiazioni, le aree che sono più o meno sensibili, in modo tale da ridurre gli effetti collaterali. Viene utilizzata soprattutto per condrosarcomi presenti alla base del cranio o a livello delle vertebre.

La chemioterapia non viene utilizzata nei condrosarcomi di basso grado perché non ci sono evidenze che aiuti a migliorare la sopravvivenza. Nelle forme più aggressive i chemioterapici maggiormente utilizzati sono vincristina, doxorubicina e ciclofosfamide.

Fonti e bibliografia

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Alga Klamath: proprietà ed effetti collaterali

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Introduzione

L’Aphanizomenon flos-aquae (AFA), conosciuta più comunemente come alga Klamath, dal nome del lago dell’Oregon (USA) ove cresce spontanea, è un’alga commestibile verde-azzurra, come l’alga Spirulina. In realtà il termine alga è improprio, come per la stessa Spirulina: si tratta infatti di un cianobatterio, un organismo unicellulare procariota fotoautotrofo (ossia utilizza le reazioni di fotosintesi per sintetizzare le molecole necessarie al proprio nutrimento, senza necessità di introdurle dall’esterno).

Veduta del lago Klamath

iStock.com/Kamrin Nielsen

A differenza della Spirulina, però, l’alga Klamath non può essere coltivata in laghi artificiali: quella in commercio deriva dal processo di raccolta ed essicamento delle alghe dell’omonimo lago. Per questa ragione, è molto importante il procedimento di purificazione dell’alga da eventuali contaminanti tossici di origine batterica (Microcystis e Anaboena sono quelli più pericolosi e monitorati), che devono essere rimossi affinché il prodotto possa essere consumato in sicurezza [1].

Come la Spirulina, anche la Klamath è ricca di

  • Proteine (55% in peso)
  • Vitamine (2-3 g contengono il 100% della dose giornaliera di vitamina A e K raccomandate dai LARN*)
  • Amminoacidi essenziali
  • Minerali (Ferro, Iodio, Fluoro, Vanadio)
  • Acidi grassi essenziali (acido Linolenico)
  • Carotenoidi, clorofilla, fitosteroli

*LARN = Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti ed energia per la popolazione italiana

A cosa serve

I consumatori abituali di alga Klamath come integratore riportano una serie di benefici, tra cui un aumento dell’energia generale e un miglioramento della funzione immunitaria. Tuttavia gli studi sulle alghe verdi-azzurre, dal punto di vista degli eventuali effetti terapeutici, sono molto limitati: si tratta per lo più di studi in vitro e – quando eseguiti in vivo sull’uomo – coinvolgono un numero troppo limitato di individui e spesso mancano di un confronto con placebo [1]. I risultati più interessanti riguardano essenzialmente

Nei capitoli seguenti verranno riportati alcuni studi in dettaglio.

Integratore di alga Klamath

iStock.com/woraput

Effetti sul Sistema Immunitario

In uno studio controllato randomizzato in merito agli effetti dell’alga Klamath sul sistema immunitario, sono stati reclutati 21 volontari sani – 5 dei quali consumatori abituali di Klamath e 2 consumatori occasionali. Su ciascuno dei volontari è stato valutato, in giorni separati, l’effetto dell’assunzione di 1,5g/die di Klamath a confronto con placebo. Ebbene, già nelle prime due ore dopo la somministrazione dell’alga, si evidenziava un aumento significativo nella circolazione di linfociti e monociti (specifici globuli bianchi, ossia cellule del sistema immunitario dotate di azione difensiva); l’effetto risultava maggiore nei consumatori abituali dell’alga [3].

In un successivo studio, randomizzato e in doppio cieco, un estratto acquoso di alga Klamath – preventivamente sperimentato in vitro – è stato testato su 12 individui sani: anche in questo caso si è evidenziato un aumento significativo della circolazione delle cellule staminali emopoietiche, precursori delle cellule del sistema immunitario [4].

Secondo alcuni studi, l’attività immunostimolante sarebbe dovuta all’azione di polisaccaridi ad alto peso molecolare, isolati nell’alga Klamath (così come nella Spirulina e nella Clorella), che si sono dimostrati da 100 a 1000 volte più potenti, in vitro, nell’attivare i monociti, rispetto ad altri preparati già in uso in ambito terapeutico per stimolare la funzione immunitaria [6].

Effetto antiossidante

Che lo stress ossidativo sia causa predisponente di alcune delle malattie croniche più diffuse nel mondo occidentale (malattie cardiache e malattie neurodegenerative, come Parkinson e Alzheimer, in primis) è cosa ormai nota. Lo stress ossidativo è la risultante dello sbilanciamento tra la quantità di radicali liberi (specie ossidanti che derivano dal normale metabolismo cellulare) e la capacità da parte delle nostre cellule di neutralizzarli: l’aumento incontrollato delle specie ossidanti o l’indebolimento dei meccanismi di difesa del nostro corpo portano entrambi a una situazione di forte squilibrio, con esito spesso patologico.

Per questa ragione negli ultimi anni è stata rivolta un’attenzione sempre maggiore a tutti quei prodotti antiossidanti – di norma di origine vegetale – in grado di contrastare lo stress ossidativo e quindi lo sviluppo di malattie.

Tra le fonti vegetali, l’alga Klamath ha suscitato particolare interesse da parte dei ricercatori, in ragione del suo elevato contenuto in ficocianine (phycocyanins, PC) e ficocianobiline (phycocianobilines, PBC) – pigmenti fotosintetici con elevato potere antiossidante e antinfiammatorio, evidenziato sia in vitro che in vivo [5,7]. In particolare, sembra che la struttura delle ficocianine presenti nell’alga Klamath si differenzi da quella delle ficocianine presenti in altri tipi di alga: proprio questa differenza renderebbe conto della capacità antiossidante fino a 200 volte maggiore, evidenziata da studi in vitro [8,9].

In uno studio interessante condotto dalle Università di Urbino e di Modena è stato somministrato un estratto di alga Klamath (Klamin®) a 21 donne in menopausa, non sottoposte a terapia ormonale sostitutiva. Dopo 2 mesi di trattamento i ricercatori hanno potuto osservare una marcata azione antiossidante da parte dell’estratto, evidenziabile tramite

  • diminuzione della perossidazione lipidica a livello plasmatico (quantificabile in base alla riduzione dei livelli di MDA, un marker dello stress ossidativo)
  • aumento dei livelli di carotenoidi, tocoferoli e retinolo – molecole a spiccata azione antiossidante.

In più, le partecipanti allo studio hanno riferito un miglioramento dei sintomi legati alla menopausa e una sensazione di aumentato benessere generale – il tutto senza insorgenza di effetti collaterali [10].

Lo stesso estratto è stato recentemente oggetto di uno studio in vitro dell’Università di Palermo, che ne ha confermato le potenzialità antinfiammatorie e antiossidanti sulle cellule neuronali: in particolare, l’estratto ha dimostrato un effetto protettivo nei confronti della tossicità indotta dalla proteina β-amiloide, impedendone inoltre l’aggregazione e la conseguente formazione di placche – responsabili del declino cognitivo che si manifesta nei pazienti affetti da Alzheimer [11].

Dose e controindicazioni

Le alghe verdi azzurre (Spirulina, Klamath) come integratori alimentari si trovano in commercio sotto forma di compresse o capsule, da sole o in combinazione con altri derivati vegetali ad azione sinergica.

Normalmente il dosaggio raccomandato è di 500 mg-1 g/die, eventualmente aumentabile, in assenza di controindicazioni o intolleranze individuali, fino a 19 g/die per un periodo di 2 mesi consecutivi – secondo quanto riportato dal Dipartimento della Salute degli Stati Uniti (NIH), tramite il servizio di informazione MedlinePlus [2].

Secondo altre fonti, tuttavia, anche qualora non sia riportato il dosaggio massimo di assunzione, è consigliabile non superare la dose di 10 g/die per evitare accumulo pericoloso di eventuali contaminanti residui [1].

Eventuali effetti collaterali possono comprendere

In merito alla possibile contaminazione delle alghe verdi-azzurre da parte di cianotossine batteriche (microcistine), segnaliamo che nel 2012 è stato pubblicato uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità su 17 prodotti commerciali a base di alga Klamath o di Spirulina venduti in Italia. I campioni di Spirulina sono risultati tutti privi di contaminazione, mentre nel caso dell’alga Klamath i prodotti sono risultati tutti contaminati – nel 40% dei casi con contenuto di tossine fino a 5 volte superiore rispetto al limite precauzionale proposto dalle autorità per la salute dell’Oregon, pari a 1 µg/g: tradotto in termini di somministrazione giornaliera, il rischio di tossicità in questi casi potrebbe verificarsi con l’assunzione cronica di 4 g di estratto al giorno.

È dunque auspicabile una continua e rigorosa sorveglianza da parte delle autorità sanitarie sui prodotti a base di alghe, specie se suscettibili di contaminazione da parte di cianobatteri [12].

Fonti e bibliografia

  1. Enciclopedia of Dietary Supplements, 2nd Ed. – Blue-Green Algae (Cyanobacteria) W.W. Carmichael, M.Stukenberg, J.M.Betz
  2. NIH, Medline Plus – Blue-Green Algae
  3. JANA 2000; 2 (3):50–58. Consumption of Aphanizomenon flos-aquae has rapid effects on the circulation and function of immune cells in humans: a novel approach to nutritional mobilization of the immune system. Jensen GS, Ginsberg DI, Huerta P, et al.
  4. Cardiovasc Revasc Med 2007; 8:189–202. Mobilization of CD34+CD133+ and CD34+CD133− stem cells in vivo by consumption of an extract from Aphanizomenon flos-aquae related to modulation of CXCR4 expression by an L-selectin ligand Jensen GS, Hart AN, Zaske LAM, et al.
  5. J. Med. Food 2010, 13, 223–227. Oxygen radical absorbance capacity of phycocyanin and phycocyanobilin from the food supplement Aphanizomenon flos-aquae. Benedetti, S.; Benvenuti, F.; Scoglio, S.; Canestrari, F.
  6. Planta Med. 2001 Nov;67(8):737-42. Isolation of three high molecular weight polysaccharide preparations with potent immunostimulatory activity from Spirulina platensis, aphanizomenon flos-aquae and Chlorella pyrenoidosa. Pugh N, Ross SA, ElSohly HN, ElSohly MA, Pasco DS.
  7. Pharmaceutics. 2019 Jan; 11(1): 35. Enhanced In Situ Availability of Aphanizomenon Flos-Aquae Constituents Entrapped in Buccal Films for the Treatment of Oxidative Stress-Related Oral Diseases: Biomechanical Characterization and In Vitro/Ex Vivo Evaluation Viviana De Caro, Denise Murgia, Francesco Seidita et al.
  8. J Chromatogr B Analyt Technol Biomed Life Sci 2006;833:12–18. Purification and characterization of phycocyanin from the blue-green alga Aphanizomenon flos-aquae. Benedetti S, Rinalducci S, Benvenuti F et al.
  9. Life Sci. 2004, 75, 2353–2362. Antioxidant properties of a novel phycocyanin extract from the blue-green alga Aphanizomenon flos-aquae. Benedetti, S.; Benvenuti, F.; Pagliarani, S. et al.
  10. Gynecol Endocrinol. 2009 Apr;25(4):235-40. Effect of a 2-month treatment with Klamin, a Klamath algae extract, on the general well-being, antioxidant profile and oxidative status of postmenopausal women. Scoglio S, Benedetti S, Canino C, Santagni S et al.
  11. Oxid Med Cell Longev. 2018 Sep 17 Effects of the Aphanizomenon flos-aquae Extract (Klamin®) on a Neurodegeneration Cellular Model. Nuzzo D, Presti G, Picone P, Galizzi G et al.
  12. Food Chem Toxicol. 2012 Dec;50(12):4493-9. Contamination by Microcystis and microcystins of blue-green algae food supplements (BGAS) on the Italian market and possible risk for the exposed population. Vichi S, Lavorini P, Funari E, Scardala S, Testai E.

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Rosmarino: proprietà, benefici, controindicazioni

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Rosmarino, la Rugiada del mare

Originario delle regioni Mediterranee e del Sud Europa, il rosmarino cresce spontaneo lungo le zone litoranee del centro e sud Italia, ma lo si trova coltivato, sia a scopo culinario che ornamentale, anche negli orti e giardini delle zone settentrionali.

Appartiene alla famiglia delle Lamiaceae (la stessa di origano, basilico, salvia, timo) e il suo il nome deriva dal latino Ros (=rugiada) e Maris (=mare), per via dei caratteristici fiori azzurri, che ricordano il colore del mare [1].

Pianta di rosmarino con fiori

iStock.com/Angelafoto

L’uso più noto della pianta è forse quello culinario, come insaporitore di carne, pesce, verdure, legumi ecc. e per la preparazione di liquori, ma il rosmarino trova impiego anche in cosmesi e profumeria – senza dimenticare l’impiego erboristico e farmaceutico.

Già in epoche antiche – presso gli Egizi, i Greci, i Romani e nel mondo arabo – il rosmarino era considerato una pianta dalle virtù speciali, una sorta di panacea: veniva infatti utilizzato contro i reumatismi, contro gli spasmi muscolari, in caso di infiammazioni intestinali, contro i dolori mestruali ecc. Inoltre era considerato un potente tonico per riabilitare i malati dopo tifo e difterite, un buon antianemico e un utile rimedio per i problemi respiratori (asma e bronchiti croniche) [1].

Gli antichi Greci lo utilizzavano per stimolare la memoria e la concentrazione; Niccolò Copernico (1473-1543) pare ne facesse uso per i disturbi renali; i Turchi lo utilizzavano contro l’iperglicemia; la medicina popolare lo usa da sempre come rimedio per i disturbi gastrointestinali [2].

Composizione chimica

Le foglie e i fiori del rosmarino costituiscono un’interessante fonte di composti fitochimici attivi, tra cui spiccano

  • Composti fenolici e diterpeni (acido rosmarinico, acido carnosico, carnosolo)
  • Flavonoidi
  • Tannini
  • Salicilati

Foglie e fiori distillati originano un olio essenziale con proprietà antispasmodiche, carminative (riducenti la formazione di gas intestinali), stomachiche (favorenti la digestione) e stimolanti. L’olio essenziale può essere anche utilizzato come base per la preparazione di profumi (per la persona e per l’ambiente), collutori e dentifrici.

Dal punto di vista nutrizionale [11], il rosmarino è ricco di

Il rosmarino nella medicina popolare

Il Rosmarino è considerato utile nella medicina popolare come [1,9]:

  • Tonico e stimolante generale
  • digestivo, stimolante della secrezione gastrica, colagogo (stimola la secrezione biliare)
  • emmenagogo (favorisce la comparsa delle mestruazioni in caso di amenorrea)
  • espettorante
  • antigotta
  • diuretico
  • antireumatico
  • cicatrizzante di piaghe, ferite e scottature

Sempre secondo la tradizione popolare, i preparati a base di rosmarino possono essere utilizzati anche a scopo blandamente antidepressivo, come tonico dei nervi e per ridare vigore alle persone indebolite sia fisicamente che mentalmente [1].

In aromaterapia il Rosmarino è utilizzato per calmare l’ansia e aumentare la concentrazione [11].

Studi preclinici

Diversi studi preclinici (in vitro e in vivo su animali) sono stati condotti sul rosmarino e i suoi estratti alcolici o acquosi, evidenziandone le potenzialità terapeutiche e confermando, in taluni casi, gli utilizzi della medicina popolare. Dagli studi preclinici pubblicati in letteratura il rosmarino risulta avere proprietà:

  • Antiossidanti. L’attività antiossidante è dovuta specialmente ai fenoli triterpenici, all’acido rosmarinico, carnosico e al carnosolo. L’estratto di foglie di rosmarino aumenta l’attività della superossido dismutasi (un enzima antiossidante endogeno) e ha effetto più potente della vitamina E nel neutralizzare i radicali dell’ossigeno [2]. Interessanti risultati preliminari sono stati evidenziati anche sull’effetto dermoprotettivo dell’acido carnosico nei confronti dei raggi UVA [3] e sull’effetto dell’estratto di rosmarino, in combinazione con l’ossido di zinco, nella prevenzione della degenerazione maculare senile [4]. L’effetto antiossidante del Rosmarino è utilizzato anche per preservare cibo e cosmetici.
  • Antibatteriche. Sia l’olio essenziale che l’estratto di rosmarino hanno dimostrato buone proprietà antibatteriche contro Helicobacter pylori, Staphilococcus aureus, Klebsiella pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa. In generale l’attività in vitro dell’estratto metanolico di rosmarino risulta maggiore nei confronti dei batteri Gram positivi rispetto ai Gram negativi. L’azione sul Propionibacterium acnes lo rende altresì un potenziale rimedio per contro l’acne giovanile di origine batterica [2].
  • Antiulcera. L’estratto idroalcolico di rosmarino ha dimostrato attività antibatterica in vitro contro l’Helicobacter pylori, e azione protettiva nei confronti delle lesioni ulcerative gastriche su modelli animali [2, 5].
  • Antivirali. L’acido carnosico ha dimostrato in vitro attività contro il virus HIV e contro l’Herpes virus (nelle fasi iniziali dell’infezione, mentre non ha effetto sulla replicazione virale all’interno della cellula) [2,6,7].
  • Antispasmodiche. Il rosmarino è da sempre noto per l’effetto carminativo ed è usato nella tradizione come antispasmodico contro i crampi intestinali, coliche biliari, cefalee tensive, coliche renali e amenorrea. Trova altresì utilizzo come rilassante della muscolatura liscia bronchiale nel trattamento dell’asma [2]. Per inciso, l’azione antispasmodica è riconosciuta anche dall’EMA, l’Agenzia Europea per i Medicinali, che ne riconosce altresì l’efficacia per uso esterno nelle malattie reumatiche e nei problemi circolatori, muscolari e articolari [6,8]. Le stesse indicazioni sono riportate nel documento contenente le monografie di piante medicinali selezionate, redatto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) [9].
  • Ipoglicemizzanti. L’estratto di foglie di rosmarino riduce i livelli di glucosio in vivo, in modo dose-dipendente. Uno studio condotto su animali ha mostrato come l’estratto di rosmarino (titolato al 20% in acido carnosico), somministrato a un gruppo di topi alimentati con dieta ad alto contenuto lipidico, sia in grado di ridurre del 72% l’aumento del glucosio nel sangue, insieme a un miglioramento del quadro lipidico e del controllo del peso, rispetto al gruppo alimentato con dieta ad alto contenuto lipidico ma senza l’estratto di rosmarino [10].
  • Antinfiammatorie: carnosolo e dell’acido rosmarinico sarebbero in grado di intervenire nella cascata dei miediatori infiammatori e sul sistema del complemento (un meccanismo che partecipa alla difesa dall’attacco di agenti patogeni).
  • Epatoprotettive. L’estratto metanolico del Rosmarino si è dimostrato efficace sia in termini di prevenzione che di rallentamento della progressione della cirrosi epatica indotta su modelli animali [12,13].
  • Neuroprotettive. L’acido carnosico e il carnosolo in vitro hanno mostrato capacità di aumentare la sintesi del fattore di crescita nervoso (Nerve Growth Factor), oltre al già citato effetto antiossidante. L’effetto neuroprotettivo, se confermato, rappresenterebbe un potenziale beneficio nella prevenzione dello sviluppo di malattie degenerative [2].

Studi clinici

Gli studi clinici sono meno numerosi rispetto ai preclinici e presentano il limite del ridotto numero di persone reclutate; tuttavia alcuni dei risultati ottenuti sono interessanti e degni di attenzione, in particolari quelli riguardanti

  • Aumento della concentrazione e della memoria
  • Azione anticaduta dei capelli
  • Azione coadiuvante nella disintossicazione da oppiacei

Aumento della concentrazione

Diversi test clinici hanno dimostrato che l’inalazione dell’olio essenziale di rosmarino influisce su alcune funzioni cerebrali, quali la memoria e l’attenzione, inducendo contemporaneamente uno stato di rilassamento.

Nel 2002 un esperimento condotto su 10 individui ha evidenziato l’effetto positivo dell’olio essenziale di rosmarino su memoria e capacità di concentrazione; un successivo esperimento, condotto nel 2003 su 140 individui, ha confermato come l’inalazione dell’olio essenziale, tramite un comune diffusore di essenze, per 5 minuti, produca effetti positivi sulla memoria in generale, anche se in quel caso si è registrata una diminuzione della velocità di memorizzazione rispetto al gruppo di controllo [2,9].

Alopecia

L’uso tradizionale del rosmarino per stimolare la crescita dei capelli sembrerebbe confermato da uno studio randomizzato, in doppio cieco, condotto su 86 pazienti: il massaggio del cuoio capelluto con una miscela di rosmarino, timo, lavanda e legno di cedro per 7 mesi ha prodotto risultati significativi nel 44% dei partecipanti, rispetto al 15% del gruppo di controllo [2]. L’azione del rosmarino sarebbe dovuta, secondo alcuni ricercatori, all’inibizione del legame tra diidrotestosterone e i recettori per gli androgeni [14]. Infine, in uno studio del 2015, l’effetto dell’olio di rosmarino è stato confrontato con quello del Minoxidil – uno dei farmaci d’elezione per l’alopecia androgenetica: dopo 6 mesi di cura non si sono evidenziate differenze tra i due tipi di trattamento in termini di efficacia sull’alopecia, mentre effetti collaterali, quali prurito cutaneo, sono stati significativamente inferiori nel gruppo trattato con l’olio di rosmarino [15].

Terapia coadiuvante nella disintossicazione da oppiacei

Si tratta di un’applicazione forse tra le meno conosciute, ma degna di nota per i risultati prodotti. In uno studio pubblicato nel 2013, alcuni ricercatori hanno indagato l’effetto delle foglie di rosmarino in capsule come coadiuvante nella terapia di disintossicazione da oppio. L’esperimento è stato condotto su 81 persone: a una parte del gruppo è stato somministrato solo metadone, a un’altra parte metadone insieme all’estratto di rosmarino. Al termine della sperimentazione (4 settimane) il gruppo trattato con rosmarino ha mostrato un miglioramento nella durata del sonno e un’incidenza significativamente minore dei sintomi di astinenza rispetto al gruppo di controllo [16].

Dosaggio, effetti collaterali e controindicazioni

Infusione: la dose consigliata è di 2-4 g di foglie essiccate, per un massimo di tre volte al giorno.

Estratto idroalcolico: 1-4 ml tre volte al giorno

Uso topico: preparazioni semi-solide o liquide al 6-10% di olio essenziale direttamente sulla pelle.

Il Rosmarino è generalmente considerato sicuro nelle dosi comunemente usate a scopo alimentare [2,9]. Dosi eccessive possono provocare:

  • irritazione a livello gastrico o intestinale
  • convulsioni, per la presenza di canfora
  • dermatiti da contatto per uso topico, in caso di ipersensibilità individuale

Si raccomanda la diluizione dell’olio essenziale per uso topico, in modo da minimizzare il rischio di irritazione della cute.

Alcune fonti segnalano possibili, anche se rare, interazioni con i farmaci anticoagulanti, con aumento del rischio di ematomi e sanguinamento [9].

Fonti e bibliografia

  1. Piante Officinali e Aromatiche, marzo 2009, Provincia autonoma di Trento, Dipartimento Agricoltura e Alimentazione
  2. Herbs and Natural Supplements-4th ed
  3. Free Radic Biol Med. 2002 Jun 15;32(12):1293-303. Photoprotective potential of lycopene, beta-carotene, vitamin E, vitamin C and carnosic acid in UVA-irradiated human skin fibroblasts. Offord EA, Gautier JC, Avanti O, Scaletta C, Runge F, Krämer K, Applegate LA.
  4. Mol Vis. 2013 Jun 27;19:1433-45. Print 2013. Prevention of retinal light damage by zinc oxide combined with rosemary extract. Organisciak DT1, Darrow RM, Rapp CM, Smuts JP, Armstrong DW, Lang JC.
  5. J Ethnopharmacol. 2000 Jan;69(1):57-62. Antiulcerogenic activity of crude hydroalcoholic extract of Rosmarinus officinalis L. Dias PC, Foglio MA, Possenti A, de Carvalho JE.
  6. Pharmacol Res. 2018 Jul;133:301-314. Potential of selected Lamiaceae plants in anti(retro)viral therapy. Bekut M, Brkić S, Kladar N et al.
  7. Planta Med. 2006 Dec;72(15):1378-82. Epub 2006 Nov 7. Antiviral effect of aqueous extracts from species of the Lamiaceae family against Herpes simplex virus type 1 and type 2 in vitro. Nolkemper S, Reichling J, Stintzing FC, Carle R, Schnitzler P.
  8. European Medicines Agency (EMA) Community herbal monograph on Rosmarinus officinalis L., aetheroleum, EMEA/HMPC/235453/2009.
  9. World Health Organization (WHO)_WHO monographs on selected medicinal plants, Volume 4, 2009.
  10. Br J Nutr 106.8 (2011): 1182–9. Carnosic acid-rich rosemary (Rosmarinus officinalis L.) leaf extract limits weight gain and improves cholesterol levels and glycaemia in mice on a high-fat diet. Ibarra A et al.
  11. Rev Recent Clin Trials. 2018;13(4):240-242. Rosmarinic Acid as Potential Anti-Inflammatory Agent. Colica C, Di Renzo L, Aiello V, De Lorenzo A, Abenavoli L.
  12. BMC Complement Altern Med. 2014 Jul 7;14:225. Antioxidant activity of rosemary (Rosmarinus officinalis L.) essential oil and its hepatoprotective potential. Rašković A, Milanović I, Pavlović N1, Ćebović T, Vukmirović S, Mikov M.
  13. Phytother Res 2010, 24:595–601 Oxidative stress modulation by Rosmarinus officinalis in CCl4-induced liver cirrhosis. Gutiérrez R, Alvarado JL, Presno M, Pérez-Veyna O, Serrano CJ, Yahuaca P.
  14. Phytother. Res 27.2 (2013): 212–217. Promotion of hair growth by Rosmarinus officinalis leaf extract. Murata K et al.
  15. Skinmed. 2015 Jan-Feb;13(1):15-21. Rosemary oil vs minoxidil 2% for the treatment of androgenetic alopecia: a randomized comparative trial. Panahi Y, Taghizadeh M, Marzony ET, Sahebkar A.
  16. Addict Health. 5.3–4 (2013): 90–4. Beneficial effects of Rosmarinus officinalis for treatment of opium withdrawal syndrome during addiction treatment programs: a clinical trial. Solhi H et al.
  17. Piccola Guida alle Erbe Officinali, Assessorato Agricoltura Regione Emilia-Romagna, 2001

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Retinopatia diabetica: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

La retinopatia diabetica può essere considerata una complicanza del diabete mellito (di tipo 1 e due) e del diabete gestazionale ed è causata da un danno a carico dei vasi sanguigni che irrorano la membrana trasparente, sensibile alla luce, localizzata sul fondo oculare e conosciuta come “retina”.

Semplificazione dei meccanismi di danno vascolare della retinopatia diabetica

iStock.com/VectorMine

Questa malattia oculistica costituisce la prima causa d’ipovisione (riduzione della vista) e cecità nei Paesi sviluppati, essendo diagnosticata in circa un terzo dei pazienti diabetici.

Inizialmente chi è affetto da tale condizione clinica potrebbe essere asintomatico o lamentare solamente un lieve calo della visione, ma con il progredire del danno vasale la capacità di visione potrebbe venire seriamente compromessa, fino a sviluppare una vera e propria cecità.

La diagnosi è posta generalmente attraverso l’esecuzione di un esame dell’occhio (dopo aver dilatato la pupilla con un collirio), mentre il trattamento è volto al controllo della glicemia e dei valori di pressione arteriosa (chi è affetto da retinopatia diabetica o è a rischio di svilupparla deve essere infatti sottoposto a visite specialistiche frequenti).

La retinopatia diabetica è la causa più comune di perdita della vista nelle persone con diabete e trattamenti laser e iniezioni intraoculari possono essere consigliati, in casi selezionati, per limitare il progredire del danno vasale.

Cenni di funzionamento oculare

Semplificazione dell'anatomia dell'occhio e della visione

iStock.com/normaals

Tre componenti principali garantiscono il funzionamento dell’occhio:

  • Cornea e cristallino: sono posizionati nella porzione frontale del bulbo oculare e hanno il compito di concentrare la luce proveniente dall’esterno, consentendo la proiezione delle immagini sulla retina.
  • Retina: è costituita da un tessuto fotosensibile a luce e colore e si trova nel fondo dell’occhio; svolge la funzione di convertire gli impulsi visivi in segnali elettrici, permettendone la trasmissione nervosa. È la struttura oculare principalmente interessata dalle complicanze microvascolari del diabete mellito.
  • Nervo ottico: trasmette i segnali elettrici dalla retina al cervello, il quale li interpreterà e consentirà la comprensione delle informazioni su luci e colori, ricevute dall’occhio.

Cause e stadi della retinopatia diabetica

Diabete mellito ed ipertensione arteriosa non controllati costituiscono i fattori di rischio più importanti per lo sviluppo di questa malattia, che è particolarmente subdola in quanto lo sviluppo avviene progressivamente nel tempo ed inizialmente senza manifestare sintomi. Anche se le stime variano a seconda delle fonti, si stima indicativamente che circa un paziente diabetico su tre di età superiore ai 40 anni presenti già alcuni segni di retinopatia diabetica.

La retina è lo strato di cellule sensibili alla luce che si trova nella parte posteriore dell’occhio e che si occupa di convertire la luce in segnali elettrici da inviare al cervello.

La retina per funzionare correttamente necessità di un costante apporto di sangue, che riceve attraverso una rete di piccoli vasi sanguigni. Nel tempo la presenza di livelli costantemente troppo elevati di zucchero nel sangue può causare danni permanenti attraverso due stadi principali:

  • Forma non proliferante: i piccoli vasi retinici riversano liquido o sangue al proprio esterno e possono presentare dei lievi rigonfiamenti; le aree della retina interessate dal versamento, successivamente, possono gonfiarsi, danneggiando in parte il campo visivo. In questa fase, anche se il paziente non lamenta sintomi, gradualmente la visione tende a peggiorare e zone di cecità potrebbero risultare visibili già durante l’esame del fondo oculare. In alcuni casi, per l’occlusione dei vasi capillari, la retina potrebbe non essere più correttamente ossigenata e andare incontro ad ischemia; ciò può favorire il passaggio verso una forma di retinopatia detta “proliferante”.
  • Forma proliferante: i capillari retinici occlusi sono numerosi e sulla retina compaiono molte aree ischemiche; nel tentativo di rimediare alla ridotta ossigenazione, queste zone di retina “sofferenti” reagiscono stimolando una crescita di nuovi vasi sanguigni.Questi vasi sono tuttavia particolarmente fragili e possono sanguinare frequentemente, determinando la comparsa di emorragie e a la formazione di tessuto cicatriziale; se la cicatrizzazione è estesa si può andare incontro al distacco di retina o lo sviluppo di glaucoma. In questa forma la perdita di visione è maggiore rispetto alla forma non cicatriziale e possono comparire sintomi differenti, come:
    • visione offuscata,
    • presenza di macchie scure nel campo visivo,
    • luci lampeggianti nel campo visivo,
    • perdita della vista improvvisa, grave e indolore.

L’esposizione ripetuta ad elevati livelli di zucchero nel sangue (iperglicemia), rende infatti le pareti dei piccoli vasi, inclusi quelli retinici, particolarmente suscettibili allo sviluppo di lesioni.

Il danneggiamento dei vasi retinici causa una diffusione di sangue e liquido a livello della retina, che può essere responsabile di importanti ripercussioni sulla capacità visiva del paziente.

Fattori di rischio

Chiunque abbia il diabete di tipo 1 o di tipo 2, nonché il diabete gestazionale, è a rischio di sviluppare retinopatia diabetica, ma la probabilità aumenta in caso di:

Sintomi

La retinopatia diabetica può comportare un calo progressivo della visione, fino ad una completa cecità; la progressione è variabile, con la comparsa dei sintomi in modo graduale o, più spesso, con un esordio più rapido ed indicativo di uno stadio già avanzato del disturbo.

Si raccomanda di contattare l’oculista in caso di disturbi anche vaghi ed occasionali della vista, come difficoltà a leggere o vedere oggetti lontani. 

Nelle fasi successive della malattia i vasi sanguigni nella retina iniziano a sanguinare e questo può comportare la comparsa di punti scuri e fluttuanti o filamenti simili a ragnatele (miodesopsie).

Alcuni pazienti lamentano anche una difficoltà della percezione dei colori, visione offuscata, occhi rossi e/o dolenti.

Generalmente la retinopatia interessa entrambi gli occhi e, soprattutto se non trattata, può evolvere fino allo sviluppo di una completa cecità.

Diagnosi

Il primo passo nella diagnosi di retinopatia diabetica è l’esame della retina condotto con un oftalmoscopio.

Oculista visita una donna con l'aiuto di un oftalmoscopio

iStock.com/zoranm

Successivamente è possibile procedere con ulteriori accertamenti, come:

  • Angiografia con fluoresceina: consente di determinare la sede del versamento e l’eventuale presenza di aree retiniche ischemiche o ipoperfuse; durante questo esame, il medico scatta fotografie a colori della retina.
  • Tomografia a coerenza ottica: questo esame di diagnostica per immagini, consente di valutare l’entità del versamento retinico e monitorare l’eventuale risposta al trattamento.

Cura

La prima linea di trattamento consiste nel controllo dei valori glicemia e pressione arteriosa, mentre vengono valutati interventi più invasivi solo quando la condizione si trovi in una fase più avanzata.

Nei pazienti con retinopatia non proliferante il trattamento di prima scelta è la fotocoagulazione laser, un intervento che è possibile ripetere più volte e che consiste nell’impiego di un laser in grado di ridurre l’ulteriore sviluppo di vasi retinici o contenere l’entità di un versamento.

In caso di edema (accumulo di liquidi) si può intervenire con iniezioni oculari di alcuni farmaci (anti-VEGF, come ranibizumab, bevacizumab, afilibercept); un’alternativa è rappresentata dall’utilizzo d’Impianti contenenti corticosteroidi (che rilasciano quindi il farmaco gradualmente, ma in maniera costante a livello oculare).

La vitrectomia è impiegata per trattare i casi più gravi (come emorragie più importanti, un distacco di retina da trazione o l’edema maculare); è un intervento che consiste nel taglio e nell’asportazione del corpo vitreo (il gel trasparente situato nella porzione posteriore dell’occhio) e consente di ottenere importanti miglioramenti nella visione.

Sebbene questi trattamenti siano associato ad un elevato tasso di successo nel rallentare o arrestare l’ulteriore perdita della vista, non è ad oggi possibile curare definitivamente la malattia.

Fotocoagulazione laser

L’intervento, condotto a livello ambulatoriale, dura circa 20-40 minuti, è usato sui nuovi vasi sanguigni che si sviluppano nella parte posteriore degli occhi nelle fasi avanzate della retinopatia diabetica, in quanto particolarmente deboli e responsabili di frequente sanguinamento.

L’obiettivo è stabilizzare e consolidare la visione, mentre di norma non consente il miglioramento della stessa.

Si procede attraverso la somministrazione di colliri anestetici, in modo che il paziente non accusi alcun fastidio durante la procedura, seguiti da farmaci in grado di dilatare le pupille e favorire l’azione del laser.

Tra i possibili effetti collaterali, che potrebbero durare alcune ore,

  • visione offuscata (il paziente non sarà in grado di guidare dopo l’intervento),
  • fotosensibilità (maggiore sensibilità alla luce),
  • dolore o fastidio gestibili con i tradizionali farmaci da banco come il paracetamolo.

Tra le possibili complicazioni ricordiamo invece:

  • un peggioramento della visione notturna e/o periferica,
  • comparsa di miodesopsie (filamenti e punti mobili) e altri disturbi simili,
  • comparsa di un punto cieco.

Iniezioni oculari

Iniezioni di farmaci anti-VEGF possono essere somministrate direttamente negli occhi per prevenire la formazione di nuovi vasi sanguigni nella parte posteriore degli occhi; l’obiettivo principale è prevenire il peggioramento dei sintomi, ma possono in alcuni casi permettere anche un certo miglioramento.

Durante il trattamento:

  • verranno applicate piccole clip per tenere gli occhi aperti,
  • verranno somministrate gocce di anestetico locale per non accusare dolore,
  • un ago molto fine viene finemente guidato nel bulbo oculare per l’iniezione.

Inizialmente la frequenza di somministrazione è mensile, ma una volta raggiunta una certa stabilizzazione il trattamento viene interrotto o ridotto.

In alternativa può essere scelto di somministrare farmaci cortisonici, che tuttavia è legato al rischio di un aumento della pressione all’interno dell’occhio e conseguente sviluppo di glaucoma.

Tra i possibili rischi ed effetti collaterali delle iniezioni anti-VEGF ricordiamo:

  • irritazione e fastidio,
  • sanguinamento,
  • sensazione di avere qualcosa negli occhi,
  • lacrimazione, secchezza e/o prurito agli occhi.

Esiste infine il rischio che le iniezioni possano causare la formazione di coaguli di sangue, con conseguenti infarti o ictus, anche se ovviamente si tratta di un’evenienza remota e smentita da alcuni studi recenti.

Vitrectomia

L’umor vitreo è la sostanza trasparente gelatinosa che riempie lo spazio dietro la lente dell’occhio; l’intervento di rimozione può essere necessario in presenza di:

  • una grande quantità di sangue,
  • abbondante tessuto cicatriziale in grado di causare (o che magari ha già causato) il distacco della retina.

Durante la procedura il chirurgo eseguirà una piccola incisione nell’occhio prima di rimuovere parte dell’umor vitreo, eventuale tessuto cicatriziale e utilizzare infine un laser per prevenire un ulteriore peggioramento della vista.

L’intervento viene in genere eseguito con anestesia locale e paziente sedato (addormentato).

Per i primi giorni potrebbe essere necessario indossare una benda sull’occhio per evitare di stancarlo durante le normali attività (lettura, televisione, smartphone, …) e la vista potrebbe rimanere leggermente offuscata per qualche tempo (fino a qualche mese).

Tra i possibili rischi ricordiamo:

  • sviluppo di cataratta,
  • sanguinamento,
  • distacco della retina,
  • infezione.

Prevenzione

Essendo la retinopatia diabetica una malattia “silenziosa” che può non dare alcun sintomo per lungo tempo, è fondamentale monitorare i soggetti a rischio attraverso controlli medici periodici e frequenti.

La modalità di prevenzione di questa patologia oculare prevede essenzialmente il controllo della glicemia e il mantenimento della pressione arteriosa entro valori normali.

Poiché la retinopatia diabetica può peggiorare in gravidanza, le donne incinte con diagnosi di diabete dovrebbero essere sottoposte a visite oculistiche ad ogni trimestre.

Fonti e bibliografia

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Emorragia subaracnoidea (ESA): cause, sintomi e cura

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Cos’è un’emorragia subaracnoidea?

Le meningi sono 3 membrane, sovrapposte una all’altra, che si interpongono tra

  • le strutture del sistema nervoso centrale (cervello e midollo spinale)
  • e l’osso che le circonda (rispettivamente cranio e colonna vertebrale).

Queste 3 membrane prendono il nome di:

  • dura madre, la più esterna delle 3 meningi,
  • aracnoide, la meninge intermedia,
  • pia madre, la meninge più interna, che prende contatto direttamente con il cervello e con il midollo.

Gli spazi delimitati dalle meningi prendono il nome di:

  • spazio epidurale, lo spazio tra la dura madre e le strutture ossee
  • spazio subdurale, lo spazio tra dura madre ed aracnoide
  • spazio subaracnoideo, lo spazio tra aracnoide e pia madre.
Semplificazione dell'anatomia delle meningi

iStock.com/VectorMine

L’emorragia subaracnoidea consiste nella presenza di sangue nello spazio subaracnoideo, cioè nello spazio compreso tra aracnoide e pia madre.

L’origine del sanguinamento può essere:

  • spontanea,
  • secondaria ad un trauma cranico.

A prescindere dalla causa l’emorragia subaracnoidea costituisce in ogni caso un’emergenza medica che, se non riconosciuta e trattata tempestivamente, può condurre allo sviluppo di gravi disabilità permanenti ed avere eventualmente anche esito fatale.

Molti pazienti con emorragia subaracnoidea non sopravvivono abbastanza a lungo da raggiungere l’ospedale, di quelli che riescono ad ottenere una pronta assistenza medica la prognosi dipende dalla gravità del danno cerebrale iniziale; se il paziente è sveglio e non presenta deficit neurologici la prognosi immediata è buona, anche se le condizioni possono purtroppo peggiorare in qualsiasi momento.

Cause

Tolto il trauma cranico, che viene in genere considerato come caso a parte, la causa più comune in assoluto di emorragia subaracnoidea e che ne spiega l’85% dei casi circa, è la rottura di un aneurisma cerebrale, una dilatazione di un’arteria che conduce all’indebolimento della parete della stessa; tra i fattori di rischio che possono favorirne la rottura si annoverano:

  • pressione alta,
  • fumo,
  • famigliarità,
  • alcolismo,
  • consumo di cocaina.

Tra le altre possibili cause mediche ricordiamo

  • rottura di malformazioni arterovenose (alterazioni del circolo intracerebrale presenti fin dalla nascita, che consistono nella presenza di vasi dilatati ed aggrovigliati le cui pareti risultano essere molto fragili),
  • tumori,
  • vasculiti.

Può infine associarsi a

Sintomi

In molti casi non ci sono sintomi d’esordio che possano far presagire l’imminente gravità della situazione; la rottura spontanea di vasi sanguigni può essere favorita da sforzi fisici anche banali, come un colpo di tosse, la defecazione, il sollevamento di un peso o un rapporto sessuale.

Il sintomo classico dell’emorragia subaracnoidea è il mal di testa a rombo di tuono, cioè un mal di testa spesso descritto come “il più forte mai sentito” che insorge e tende ad aumentare esponenzialmente nel giro di pochi secondi-minuti e che spesso viene percepito e descritto come una pulsazione nella parte posteriore della testa (occipite).

In circa un terzo dei soggetti questo rimane l’unico sintomo, mentre altri pazienti possono sviluppare:

In risposta all’emorragia l’organismo produce grosse quantità di adrenalina, questo comporta un aumento della pressione cardiaca che può portare a:

Possono infine svilupparsi gravi complicazioni neurologiche, che possono diventare irreversibili nel corso di poco tempo (minuti/ore).

Febbre, mal di testa e stato confusionale sono sintomi molto comuni che possono persistere soprattutto durante i primi 5-10 giorni, spesso anche più a lungo.

Complicazioni

L’emorragia subaracnoidea può portare allo sviluppo di gravi complicanze quali:

  • Idrocefalo: il sangue può coagularsi ed ostacolare il drenaggio del liquido cefalorachidiano. L’accumulo di sangue e liquor nella scatola cranica fa in modo che la pressione al suo interno aumenti. L’idrocefalo si manifesta con:
  • Vasospasmo: è una rapida contrazione della parete vasale che ostacola il flusso sanguigno e portare ad un ictus ischemico. Si può manifestare con:
    • debolezza ad un lato del corpo,
    • perdita della sensibilità ad un lato del corpo,
    • difficoltà nel linguaggio.
  • meningite chimica, dovuta all’effetto di irritazione del sangue sui tessuti cerebrali.

Il rischio di sviluppare edema cerebrale (accumulo di liquidi) e vasospasmo con conseguente infarto per riduzione dell’afflusso di sangue al delicato organo è massimo tra le 72 h e i 10 giorni dall’inizio dell’emorragia; una seconda emorragia si sviluppa invece il più delle volte entro circa 7 giorni.

Le complicanze a lungo termine includono:

Diagnosi

La diagnosi di emorragia subaracnoidea è in genere posta in base ai sintomi caratteristici, ma trova conferma attraverso esami strumentali; le procedure diagnostiche più comuni sono:

  • TAC: effettuata senza mezzo di contrasto, permette di veder il sangue che occupa le cisterne cerebrali (la pia madre segue l’anatomia dell’encefalo rivestendolo intimamente, per esempio seguendolo anche nei solchi; al contrario l’aracnoide e la pia madre vi passano sopra a ponte. Questo diverso atteggiamento delle membrane fa in modo che in alcuni tratti la pia madre si separi dall’aracnoide e si vengano a creare delle cisterne in cui il sangue si accumula).
  • Angiografia ed angio-TAC: permette di identificare l’origine dell’emorragia. Si effettua tramite un catetere che viene inserito all’interno di un’arteria e fatto arrivare a livello del circolo cerebrale dove viene iniettato il mezzo di contrasto, a questo punto vengono acquisite le immagini radiografiche.
  • Rachicentesi (o puntura lombare): permette di evidenziare la presenza di sangue nel liquor. La puntura viene effettuata facendo posizionare il paziente su un fianco con la schiena curva (in posizione fetale), si punge dunque nello spazio compreso tra la quarta e la quinta vertebra lombare. Dopo la procedura il paziente deve rimanere in posizione supina per un paio d’ore e bere molta acqua.

La tempestività della diagnosi può influire in modo particolarmente significativo sulla prognosi.

Cura e terapia

L’emorragia subaracnoidea è un’emergenza medica che richiede immediata assistenza ospedaliera specializzata, dove il paziente verrà tenuto a completo riposo; eventuali terapie anticoagulanti e/o antiaggreganti saranno immediatamente sospese, mentre il trattamento iniziale prevede l’uso di farmaci per alleviare il mal di testa (antidolorifici come gli oppioidi, che non hanno ricadute sulla coagulazione).

Verranno trattate e o prevenute eventuali complicanze, mentre l’ipertensione arteriosa (pressione alta) viene trattata solo se molto elevata.

A seconda della causa può essere eventualmente valutata (o indispensabile, come nel caso di rottura d’aneurisma cerebrale) la chirurgia o procedure di radiologia interventistica.

Anche nei casi più lievi, il recupero può essere un processo lento e frustrante, durante il quale è  comune avere problemi di:

Fonti e bibliografia

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Esame del fondo oculare: cos’è e a cosa serve?

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Introduzione

L’esame del fondo oculare, definito anche oftalmoscopia o fondoscopia, è un test che consente allo specialista di vedere le strutture situate nella porzione posteriore dell’occhio, tra cui la retina, la papilla del nervo ottico e il corpo vitreo.

La pupilla è un foro attraverso il quale sarà possibile osservare all’interno dell’occhio; dilatarla è quindi un modo semplice ed efficace per migliorarne la visione e, per farlo, si ricorre in genere alla somministrazione di specifici colliri.

L’esame ha una durata di circa 5-10 minuti.

Lo strumento che permette di valutare le diverse strutture dell’occhio è l’oftalmoscopio, il quale è in grado di riconoscere numerose patologie, attraverso una procedura semplice, non invasiva e, nella maggior parte dei casi, priva di controindicazioni.

Oculista visita una donna con l'aiuto di un oftalmoscopio

iStock.com/zoranm

Richiami di anatomia

Semplificazione dell'anatomia dell'occhio e della visione

iStock.com/normaals

L’esame permette di analizzare tre strutture principali:

  • Retina: è il sottile strato di tessuto che si trova nella porzione più interna della parte posteriore dell’occhio. Lo scopo della retina è ricevere la luce esterna, elaborarla mediante fotorecettori (coni e bastoncelli), convertirla in segnali neurali, inviandoli al cervello per il riconoscimento visivo. Le informazioni raccolte vengono inviate alla corteccia visiva cerebrale attraverso il nervo ottico. Ha un ruolo fondamentale nella visione, di conseguenza un danno ad essa può causare cecità permanente.
  • Corpo vitreo: occupa circa l’80% del volume dell’occhio ed è una struttura composta per la maggior parte di acqua e di una piccola percentuale di fibre di collagene e acido ialuronico; quest’ultimo con il passare degli anni si riduce portando allo sviluppo di un processo degenerativo denominato sineresi vitreale (visione delle cosiddette “mosche volanti” o miodesopsie). Il corpo vitreo è composto da 2 strutture principali (una porzione centrale e una corticale, più esterna) e assolve a diverse funzioni: strutturale o di sostegno (riempie la cavità oculare mantenendo la retina ancorata al fondo), nutritizia (permette il trasporto delle sostanze), pressoria (mantiene la morfologia del bulbo oculare: se la pressione è troppo alta si crea una situazione di glaucoma, viceversa, se troppo bassa, il bulbo collassa e le strutture si atrofizzano).
  • Papilla del nervo ottico: porzione iniziale del nervo ottico (testa); il punto in cui gli assoni delle cellule gangliari si uniscono alla retina. Risulta, inoltre, essere il punto d’ingresso dei principali vasi sanguigni che riforniscono la retina. Presenta un numero variabile di fibre nervose afferenti (tra 500.000 e 1 milione) che connettono il bulbo oculare al cervello, garantendo la visione.

A cosa serve?

L’esame del fondo oculare può essere utilizzato per lo screening di malattie dell’occhio oppure per diagnosticare patologie a carico della retina, del nervo ottico o del corpo vitreo. Tra queste:

  • papilledema: gonfiore della papilla del nervo ottico, che riflette un sottostante aumento della pressione intracranica, un’emergenza medica;
  • lesioni della coroide e della retina secondarie a infezioni quali candidosi, toxoplasmosi, istoplasmosi, tubercolosi miliari, infezione da citomegalovirus;
  • danno ai vasi sanguigni come nel caso del diabete (retinopatia diabetica) o un’ipertensione arteriosa mal controllata (pressione alta),
  • glaucoma,
  • distacco della retina,
  • melanoma oculare,
  • cataratta,
  • distacco posteriore del corpo vitreo.

L’esame riveste una certa utilità anche in caso di fattori di rischio e patologie extra-oculari, come ad esempio:

  • ipertensione,
  • diabete
  • altre malattie che colpiscono i vasi sanguigni.

Oftalmoscopio

Lo strumento che permette di svolgere l’esame del fondo oculare è l’oftalmoscopio, un dispositivo dotato di lenti sferiche che permette di oltrepassare le strutture anteriori dell’occhio garantendo una visione di quelle situate posteriormente. Può essere di 2 tipi:

  • diretto, che consente di valutare il fondo oculare dritto e ingrandito di circa 15 volte,
  • indiretto, che permette di valutare il fondo rovesciato e ingrandito dalle 2 alle 5 volte, ma in grado di fornire una visione maggiormente panoramica.

Può essere dotato di una sorgente luminosa di piccole, medie o grandi dimensioni: gli oftalmoscopi di solito hanno 2 o 3 livelli di luminosità da utilizzare a seconda del livello di dilatazione della pupilla:

  • la luce piccola viene utilizzata quando la pupilla è molto ristretta (stanza ben illuminata, in assenza di colliri che dilatino la pupilla),
  • viceversa una di grandi dimensioni quando si utilizzano colliri midriatici (che dilatano la pupilla).

È possibile inoltre sfruttare la presenza di diversi filtri a seconda delle strutture da analizzare:

  • filtro rosso, utilizzato per visualizzare i vasi ed eventuali emorragie in modo più dettagliato migliorando il contrasto (questa impostazione farà apparire la retina in bianco e nero),
  • filtro blu: può essere utilizzato per osservare abrasioni e ulcere corneali dopo colorazione con fluorescina.

Come avviene l’esame?

In prima battuta l’esame può avvenire senza alcuna preparazione, ovviamente a paziente sveglio; per consentire una miglior ispezione attraverso la pupilla, che in presenza di luce tende fisiologicamente a rimpicciolirsi, è tuttavia spesso necessario il ricorso alla somministrazione di un collirio che permette di mantenerla dilatata (midriasi). I colliri utilizzati sono in genere a base di farmaci antagonisti parasimpatici (tropicamide, ciclopentolato, atropina), molecole in grado di paralizzare temporaneamente

  • il muscolo dilatatore della pupilla, determinando midriasi,
  • e il muscolo ciliare, determinando ciclopegia;

vengono somministrate 1-2 gocce circa 15-20 minuti prima dell’esame.

Prima della somministrazione delle gocce il medico ricostruisce la condizione clinica del paziente attraverso una dettagliata anamnesi, valutando eventuali allergie, l’assunzione di altri medicinali, le patologie presenti (esiste il rischio di peggiorare un glaucoma preesistente).

Effetti collaterali

L’esposizione alla luce dello strumento può essere fastidiosa, ma è ovviamente innocua e certamente non dolorosa, così come la leggera pressione esercitata in caso di oftalmoscopia indiretta.

L’esame del fondo oculare di per sé non è un esame invasivo e non comporta quindi alcun tipo di rischio o di effetti indesiderati; in seguito alla somministrazione di colliri la vista può tuttavia risultare offuscata per alcune ore, quindi è consigliabile:

  • indossare occhiali da sole per proteggere gli occhi dalla luce solare ed evitare così danni alle delicate strutture oculari,
  • farsi accompagnare a casa dopo la visita, perché non sarà possibile guidare autonomamente l’automobile.

Raramente i colliri somministrati possono causare reazioni avverse, che possono essere:

L’effetto delle gocce si esaurisce in ogni caso nel giro di poche ore.

Fonti e bibliografia

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Esame del campo visivo: a cosa serve e come avviene

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Introduzione

Il campo visivo è una porzione di spazio vista dall’occhio umano nel momento in cui fissa un punto preciso davanti a sé, in grado di rilevare un’area ristretta di luci, colori e forme.

Si distinguono

  • campo visivo binoculare, ossia ciò che è visibile con entrambi gli occhi,
  • campo visivo monoculare, riferito ad un unico occhio.

I singoli campi visivi monoculari hanno una porzione sovrapposta e comune che, attraverso l’elaborazione del cervello, consiste la percezione della profondità; è curioso notare che le informazioni visive raccolte dall’occhio sinistro vengono elaborate dall’emisfero destro e viceversa.

Visione separata di quanto percepito dai due occhi osservando un panorama

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L’esame che permette di studiare l’integrità delle vie ottiche di un individuo, è il test del campo visivo, che permette di valutare sia la visione centrale che periferica (laterale); permette in particolare di analizzare su ciascun occhio l’eventuale presenza di punti ciechi, chiamati scotomi. Le dimensioni e la forma di uno scotoma possono dimostrare in che modo la malattia dell’occhio o un disturbo del cervello influiscono sulla vista. È un esame soggettivo, quindi il paziente dev’essere in grado di

  • comprendere le istruzioni del test,
  • collaborare pienamente
  • e completare l’esame al fine di fornire tutte le informazioni utili.

A cosa serve?

Il test del campo visivo ha ampi utilizzi, ma viene più frequentemente usato per rilevare segni di danno al nervo ottico a causa di un glaucoma; può tuttavia anche essere utilizzato per il rilevamento di malattie centrali o periferiche della retina, disturbi e patologie correlate al nervo ottico oppure una ptosi palpebrale, quindi un abbassamento della palpebra superiore.

Più ne dettaglio quindi è utile a fini di:

  • Screening per il glaucoma: la perdita di vista periferica è spesso un segno precoce del glaucoma. L’esame è importante per rilevare il calo della vista oltre che per fare diagnosi, mentre i controlli successivi per monitorare il trattamento
  • Valutazione della ptosi palpebrale: permette di valutare la gravità della patologia. Se la perdita del campo visivo è superiore al 40% è necessario l’intervento chirurgico
  • Tossicità di alcuni farmaci, come l’idrossiclorochina, un farmaco somministrato non solo nei pazienti con malaria, ma anche affetti da artrite reumatoide o lupus eritematoso sistemico. Il farmaco può accumularsi a livello della retina centrale portando a un calo della vista.
  • Misurazione dell’estensione di malattie della retina, come la retinite pigmentosa.
  • Diagnosi di patologie che interessano il nervo ottico, come tumori cerebrali o ipofisari, ictus, infiammazioni del nervo ottico (neurite ottica)

Come avviene?

Esistono diversi test per la valutazione del campo visivo, ciascuno dei quali permette di valutare patologie e lesioni di diverso tipo:

  • Test di confronto: prevede che il paziente si posizioni davanti al medico che, posto ad una distanza ravvicinata dal paziente, muoverà le dita della mano destra o sinistra: il paziente dovrà essere in grado di distinguere se si stanno muovendo o meno. Se il test risulta positivo (cioè il paziente è incapace di rispondere correttamente) potrebbe essere presente un’emianopsia, ossia un deficit di metà del campo visivo, come nel caso di pazienti con ictus.
  • Perimetria statica: permette di valutare le intere aree del campo visivo. Al paziente viene mostrata una luce debole, che se non viene individuata, aumenta gradualmente di intensità fino a quando non è in grado di riconoscerla. Tale procedura viene ripetuta in diverse posizioni. Successivamente dei software avanzati, permetteranno di analizzare i diverse dati raccolti, per poter valutare l’intero campo visivo del paziente
  • Perimetria cinetica: vengono mostrati dei segnali luminosi di dimensioni e luminosità costanti a partire dalla periferia (lateralmente) fino a quando, spostandosi centralmente, vengono riconosciuti dal paziente; questo viene eseguito da diverse direzioni in modo tale da mappare l’intero campo visivo che si estende per circa 120° in verticale e quasi 160° in orizzontale. Può essere una valida alternativa alla perimetria statica, per tutti quei pazienti che hanno difficoltà a mantenere una posizione fissa per un certo periodo di tempo oppure che presentano dei deficit cognitivi
  • Test di Amsler: lo specialista fornisce una griglia costituita di linee orizzontali e verticali, con al centro un puntino nero. Verrà richiesto al paziente di guardare con un occhio alla volta il punto centrale: se le linee appaiono distorte o sbiadite molto probabilmente è presente un deficit del campo visivo. È positivo nei pazienti che presentano una degenerazione della macula, la porzione centrale della retina, una condizione spesso legata all’età.
  • Primetria a duplicazione di frequenza: questo test è particolarmente utile nel rilevare precocemente una perdita del campo visivo nei pazienti con glaucoma. Al soggetto viene mostrata una griglia di barre sinusoidali chiare e scure di intensità variabile e posizionate in diverse aeree del campo visivo; una volta individuate, il paziente deve segnalare quando viene rivelato lo stimolo, con un apposito telecomando.

Ad oggi si ricorre in genere a strumenti computerizzati, in grado di presentare stimoli luminosi standardizzati ed elaborare automaticamente i risultati al termine della rilevazione.

Nessuno degli esami elencati è causa di dolore o fastidio, tolto l’impegno richiesto per rispondere alle domande dello specialista.

Durata e difficoltà nell’esecuzione del test

Ciascun test richiede un tempo di esecuzione diverso che può variare e risultare più o meno stressante nei pazienti anziani o debilitati; possono risultare di difficile esecuzione anche nei bambini più piccoli, con disabilità mentale, ritardo dello sviluppo o con scarsa capacità di attenzione. Talvolta risulta essere necessario ripetere il test, perché inconcludente o impreciso.

Di seguito sono riportati i tempi per ciascun occhio (quindi il tempo totale richiesto potrebbe essere doppio) dei test più comuni per la valutazione del campo visivo nei pazienti collaboranti:

  • test di confronto: pochi minuti,
  • perimetria statica: circa 15 minuti,
  • perimetria cinetica: circa 20 minuti,
  • test di Amsler: pochi minuti,
  • perimetria a duplicazione di frequenza: circa 10 minuti.

Non è necessaria alcuna forma di preparazione all’esame, che risulta in ogni caso privo di qualsiasi rischio e può essere svolto da tutti, a patto che il paziente sia collaborante.

Al termine della valutazione è possibile riprendere le proprie attività senza particolari precauzioni o avvertenze.

Fonti e bibliografia

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Scotomi: cause, sintomi e rimedi

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Cosa sono gli scotomi?

Con il termine “scotoma” si indica, in termini medici, un’area di cecità parziale o completa presente nel campo visivo e generalmente attribuibile a varie patologie, lesioni nel tessuto nervoso o a effetti indesiderati correlati all’utilizzo di alcuni farmaci (come per esempio l’antibiotico streptomicina).

Gli scotomi appaiono come macchie scure, colorate o sotto forma di lampi luminosi (scotomi scintillanti) e possono riguardare uno o entrambi gli occhi, interferendo con la visione.

I rimedi variano a seconda della patologia di base; in molti casi la loro comparsa è indicativa di una patologia già sviluppata, per questa ragione è importante ricorrere tempestivamente ad una valutazione medica.

Rappresentazione grafica dello scotoma scintillante

Esempio di scotoma scintillante (Di KronosOpera propria, CC BY-SA 3.0, Collegamento)

Cenni di fisiologia oculare

Tre componenti principali garantiscono il funzionamento dell’occhio:

  • Cornea e cristallino: sono posizionati nella porzione frontale del bulbo oculare e hanno il compito di concentrare la luce proveniente dall’esterno, consentendo la proiezione delle immagini sulla retina.
  • Retina: è costituita da un tessuto fotosensibile a luce e colore e si trova nel fondo dell’occhio; svolge la funzione di convertire gli impulsi visivi in segnali elettrici, permettendone la trasmissione nervosa. La zona centrale della retina è detta macula e ne rappresenta la porzione principale.
  • Nervo ottico: trasmette i segnali elettrici dalla retina al cervello, il quale li interpreterà e consentirà la comprensione delle informazioni su luci e colori, ricevute dall’occhio.
Semplificazione dell'anatomia dell'occhio e della visione

iStock.com/normaals

Quali sono le cause?

Gli scotomi possono essere causati da differenti patologie, tra cui:

  • patologie della macula,
  • distacco di retina,
  • retinopatia diabetica,
  • retinoblastoma,
  • alterazioni del nervo ottico (glaucoma, otticopatie, neuriti),
  • lesioni che coinvolgono le vie ottiche (dalla retina ai centri visivi corticali),
  • problemi di natura vascolare (spasmi dell’arteria retinica, emorragie retiniche),
  • emicrania,
  • assunzione di alcuni farmaci (ad esempio la streptomicina),
  • cataratta nucleare (opacità centrale del cristallino).

Nelle donne incinta gli scotomi si possono presentare come sintomo di una grave preeclampsia, una pericolosa forma di pressione alta indotta dalla gravidanza.

Classificazione

Gli scotomi si presentano nel campo visivo quando la retina perde di sensibilità e possono essere di due tipi:

  • Scotomi negativi: si presentano come macchie nere che non permettono la visione nitida delle immagini, o la consentono solo in parte.
  • Scotomi positivi: appaiono come aree di colore variabile o zone del campo oculare dotate di luminosità intermittente.

A seconda della patologia che ne è causa, possono poi essere classificati in:

  • Scotoma fisiologico: (detto anche macchia cieca di Mariotte) corrisponde ad una zona priva di visione localizzata in corrispondenza del nervo ottico;
  • Scotoma centrale: coinvolge la zona centrale del campo visivo, ossia quella che si utilizza per fissare gli oggetti; si può presentare in caso di una degenerazione maculare legata all’età (ADM) oppure per situazioni infettive come la toxoplasmosi, focolai di corioretinite oppure, ancora, in caso di alterazioni della conduzione nervosa (otticopatie);
  • Scotoma paracentrale: interessa l’area paracentrale, ossia la porzione situata intorno alla macula che può essere interessata da una riduzione parziale o completa della sensibilità luminosa; si presenta in caso di patologie che coinvolgono la macula o il nervo ottico;
  • Scotoma periferico: è in genere correlato a patologie retiniche o corioretinopatie;
  • Scotoma centrocecale: è uno scotoma inizialmente piccolo, ma che gradualmente si allarga, coinvolgendo la macula e la macchia cieca; si manifesta nelle patologie del nervo ottico e nelle patologie metaboliche da accumulo;
  • Scotoma anulare: è dovuto generalmente ad una retinite pigmentosa e si presenta sottoforma di un’area circolare cieca del campo visivo;
  • Scotoma arciforme: corrisponde ad un’area cieca del campo visivo di forma arcuata a causa di un problema del nervo ottico;
  • Scotoma scintillante: si presenta davanti agli occhi con una macchia scura che causa la percezione di strisce colorati o scintillanti, tipicamente nell’emicrania.

Come si manifestano?

A seconda dei casi gli scotomi possono determinare la percezione di

  • macchie scure,
  • macchie colorate,
  • scintille luminose,

In grado di interferire notevolmente con la visione.

Di norma alla sintomatologia visiva non si associano altri disturbi, tanto che in alcune patologie (come ad esempio il glaucoma), ci si rende conto della sua presenza solo nei casi di grave compromissione e restringimento del campo visivo.

Per limitare l’eventuale comparsa di danni permanenti è opportuno consultare un medico già agli esordi di questo disturbo.

Scotomi scintillanti

Gli scotomi scintillanti sono manifestazioni tipiche dell’aura, una sindrome che in alcuni pazienti precede la comparsa dell’emicrania.

Possono presentarsi in modi variabili, ma tipicamente si manifestano come scie di luce che interferiscono con la vista; colpiscono di norma entrambi gli occhi e, a differenza degli scotomi negativi, l’area interessata non è scura.

Quando rivolgersi al medico?

Si raccomanda di segnalare tempestivamente al medico la percezione di scotomi, perché spesso sono la manifestazione di danni progressivi causati da una malattia in stato più o meno avanzato, che può beneficiare di una diagnosi il più rapida possibile.

Fanno eccezione gli scotomi scintillanti legati all’emicrania che, una volta riconosciuti e diagnosticati con certezza, non sono legati a complicazioni specifiche (salvo ovviamente l’impatto sulla visione durante la loro presenza, che potrebbe esporre il paziente a rischi nel caso di guida, uso di strumenti pericolosi, …).

Diagnosi

La presenza dello scotoma è in genere confermata durante una visita oculistica nel corso della quale è eseguito un esame del campo visivo, condotto appoggiando il mento e la fronte del paziente ad uno strumento che invia uno stimolo visivo e consente in tal modo la misurazione della visione dello spazio che circonda l’occhio.

A questo esame potrebbero seguire ulteriori accertamenti, come:

  • OCT (tomografia ottica computerizzata) papilla e macula: è un esame non invasivo che fornisce immagini ad elevata risoluzione delle strutture oculari e fornisce informazioni sulle alterazioni strutturali della retina, identificandone con precisione la sede,
  • visita neurologica.

Rimedi e cura

Il trattamento è correlato alla cura della patologia di base, ad esempio:

  • Nel glaucoma è opportuno l’utilizzo di colliri che abbassano la pressione dell’occhio, prevenendo in tal modo la comparsa di lesioni al nervo ottico.
  • Quando la causa degli scotomi è attribuibile ad una patologia del cristallino (come una cataratta), può essere indicato un intervento chirurgico per applicare una lente artificiale intraoculare.
  • Farmaci anticoagulanti, antiaggreganti e trombolitici possono essere utilizzati, sotto consiglio medico, in caso di patologie vascolari retiniche (come occlusioni vascolari arteriose o venose); eventuali terapie laser sono invece da impiegare in caso di complicanze.
  • In caso di emicrania potrebbero essere impiegati, a seconda dei casi: FANS (per controllare principalmente il dolore), ergotamina e triptani (soprattutto in caso di emicrania oftalmica attribuibile a vasodilatazione), beta-bloccanti e farmaci calcio-antagonisti (per favorire il rilassamento dei vasi cerebrali), farmaci antidepressivi o anticonvulsionanti (in profilassi, per ridurre l’insorgenza delle crisi).
  • Nelle patologie retiniche come la degenerazione maculare senile (ADM) è fondamentale stabilire la forma di maculopatia (secca\atrofica o umida\essudativa) per elaborare una terapia opportuna (potrà infatti variare e comprendere iniezioni intravitreali e terapia fotodinamica nelle forme essudative e l’utilizzo di integratori a base di luteina, zeaxantina, acidi grassi polinsaturi omega-3 e vitamine per migliorare l’apporto nutritivo nelle forme atrofiche).
  • Nel distacco di retina, infine, l’approccio è chirurgico e viene utilizzato per riportare la retina nella sua posizione originaria.

Fonti e bibliografia

 

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