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Taurina: effetti e rischi di integratori e bibite energetiche

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Cos’è la taurina?

La taurina è un amminoacido, più propriamente un acido amminoetansolfonico, isolato per la prima volta nel 1827 da due scienziati austriaci, Tiedemann e Gmelin, dalla bile di un toro, da qui il nome attribuitole.

A livello fisiologico la taurina è essenziale per la sintesi degli acidi biliari , sostanze prodotte a livello del fegato, conservate nella bile e fondamentali per la digestione dei grassi e delle vitamine liposolubili. Insieme allo Zinco svolge inoltre un ruolo protettivo per il benessere della vista.

Pur essendo uno dei pochi amminoacidi non incorporati nelle proteine, la taurina è particolarmente concentrata nell’organismo umano a livello del tessuto nervoso, cardiaco e muscolare, nella retina, nei globuli bianchi e nelle piastrine.

La taurina è classificata come amminoacido “condizionatamente essenziale”: a differenza degli essenziali propriamente detti, ossia quelli che dobbiamo necessariamente assumere con la dieta perché incapaci di produrre autonomamente, il nostro corpo è in grado di sintetizzarla a partire da altri due amminoacidi, la metionina e la cisteina (in presenza di vitamina B6), a livello epatico. La taurina inoltre viene assunta con l’alimentazione attraverso i cibi di origine animale (uova, carne, pesce, frutti di mare, latte e latticini); è invece assente negli alimenti di origine vegetale.

In condizioni normali, quindi, non è necessario assumerla con integratori.

Tuttavia, in caso di carenza degli aminoacidi precursori o in particolari condizioni patologiche (malassorbimento, ridotta sintesi per patologie di origine genetica, perdita eccessiva di acidi biliari, come in caso di fibrosi cistica o diarrea da colera, per fare alcuni esempi) può rendersi necessaria l’integrazione, al fine di evitare carenze e ripercussioni sulla salute: studi su animali hanno infatti evidenziato come la carenza di taurina possa portare ad anomalie di diversi sistemi [1,2,3,4]:

  • nervoso,
  • cardiovascolare,
  • riproduttivo,
  • muscolare,
  • immunitario,
  • retina.

Effetti, benefici e potenzialità terapeutiche

Accanto al ben noto ruolo nella sintesi degli acidi biliari, gli studi degli ultimi 20 anni hanno messo in luce l’importanza della taurina in molti altri processi fisiologici, tra cui ricordiamo [1,3]

  • metabolismo lipidico,
  • omeostasi (mantenimento dell’equilibrio) del calcio,
  • protezione cardiaca,
  • controllo dell’ipertensione (pressione alta),
  • regolazione dell’infiammazione e della risposta immunitaria,
  • regolazione del metabolismo del glucosio,
  • azione antiossidante,
  • stabilizzazione della membrana cellulare.

Lo studio dei meccanismi in cui è coinvolta la taurina ha quindi aperto la strada ad un ventaglio di possibili applicazioni terapeutiche:

L’azione citoprotettiva (ossia di protezione cellulare) della taurina contribuisce al mantenimento della salute attraverso vari meccanismi, tra cui l’azione antiossidante, la modulazione neuronale, l’omeostasi del calcio e la regolazione osmotica: è probabilmente la combinazione di questi meccanismi alla base dei miglioramenti evidenziati in caso di patologie, quali i disturbi del sistema nervoso centrale, del cardiocircolatorio, dei muscoli e del metabolismo.

Molte delle patologie a carico del SNC – ictus, malattie neurodegenerative, epilessia, FXS (malattia genetica che comporta ritardo mentale)- infatti, rispondono positivamente all’integrazione di taurina; lo stesso risultato si è evidenziato per le malattie del sistema cardiocircolatorio – ipertensione, infarto, aterosclerosi, aritmie, complicazioni da diabete mellito e da artrite, insufficienza cardiaca congestizia (per la quale l’uso della taurina è già approvato in Giappone); infine buoni risultati si sono avuti per patologie a carico del sistema muscolo scheletrico, come la sindrome Melas, la distrofia muscolare di Duchenne, la sarcopenia [5].

In ultima analisi diversi studi sono ancora in corso e mancano ancora dati consistenti sull’utilizzo a lungo termine, ma il futuro della taurina come integratore a scopo terapeutico sembra davvero molto promettente.

Taurina e sistema cardiocircolatorio

Secondo numerosi studi, condotti sia in vitro che in vivo, la taurina potrebbe avere un ruolo importante nella prevenzione di

  • ipercolesterolemia,
  • ipertensione,
  • infarto,
  • aterosclerosi,
  • cardiomiopatia diabetica.

Uno studio condotto dalla World Health Association su 50 popolazioni (4211 partecipanti, di età compresa tra i 48 e i 56 anni) di 22 nazionalità diverse in tutto il mondo ha evidenziato la correlazione inversa esistente tra taurina e il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari. Il rischio è stato valutato prendendo in considerazione parametri quali pressione sanguigna, livelli di colesterolo, indice di massa corporea, obesità [6,7].

In alcuni studi su animali alimentati con dieta ricca di grassi la taurina ha dimostrato capacità di ridurre il livello di colesterolo: pare che il meccanismo sia quello di aumentare il catabolismo di colesterolo e aumentare l’eliminazione di LDL e VLDL tramite escrezione di acidi biliari. Inoltre, nello stesso esperimento, la somministrazione di taurina per 15 giorni ha prodotto un aumento del cosiddetto colesterolo buono, l’HDL [8,9].

In un esperimento condotto nel 2004, 30 studenti di un college furono divisi a caso in due gruppi: ad uno fu somministrata taurina alla dose di 3 g/die per 7 settimane, all’altro un placebo. Al termine dello studio, condotto in doppio cieco, si evidenziò una riduzione significativa di trigliceridi, indice aterogenico e peso corporeo nel gruppo trattato con taurina, suggerendo così che la stessa possa avere un ruolo importante nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, specialmente in soggetti sovrappeso o obesi [10].

Per quanto riguarda l’effetto antipertensivo, cioè di abbassamento della pressione sanguigna, un recente esperimento condotto in doppio cieco su 120 soggetti con principio di ipertensione, di età compresa tra 18 e 75 anni, ha evidenziato come la somministrazione di 1,6g/die di taurina per 12 settimane diminuisca sia la pressione diastolica che quella sistolica – effetto non evidenziabile nel gruppo trattato con placebo [11].

La taurina nelle bevande energetiche

Bibite energetiche e taurina

iStock.com/gremlin

Il termine “bevande energetiche” si riferisce a bevande non alcoliche dotate di proprietà stimolanti e usate per aumentare le performance fisiche e mentali.

La prima bevanda energetica commercializzata – e forse la più conosciuta ancora oggi – è la Red Bull, immessa sul mercato austriaco nel 1987 e su quello statunitense 10 anni più tardi.

Molte autorità regolatorie in Europa sono state e sono tuttora riluttanti ad autorizzare la vendita di tali bevande (sebbene ormai siano ampiamente diffuse anche in Europa), sia per l’elevato contenuto in caffeina sia per la mancanza di informazioni scientifiche sugli altri ingredienti e le loro possibili interazioni [12,13].

La taurina contenuta nelle bevande energetiche è di derivazione sintetica.

Dall’analisi di 80 differenti “energy drinks”[14] è emerso che il contenuto medio di taurina si aggira intorno 3,2 g/L (con punte di 4 g/L): se si considera che la dose giornaliera di taurina ritenuta sicura è di circa 3 g, si comprende come il contenuto sia considerevolmente elevato e giustifichi un certo grado di preoccupazione – considerato anche il fatto che poco si sa sulle possibili interazioni tra la taurina stessa e gli altri ingredienti presenti nelle suddette bevande [15].

La preoccupazione riguarda anche il fatto che i principali utenti sono persone giovani (18-34 anni) – studenti, adolescenti e giovani atleti. In una ricerca Italiana condotta su studenti di medicina nell’anno accademico 2012-2013 è emerso come il 22% di essi facesse uso regolare di bevande energetiche – associate spesso ad alcool, soprattutto nel fine settimana. Il 45% degli utilizzatori riferiva il manifestarsi di effetti collaterali dopo il consumo, quali palpitazioni, insonnia e irritabilità [16].

Negli ultimi anni sono stati riportati in letteratura numerosi casi di eventi cardiovascolari anche con esito infausto correlabili al consumo eccessivo di bevande energetiche (spesso in associazione con alcolici o droghe, che possono potenziarne l’effetto). La European Cardiac Arrhythmia Society (ECAS) ha espresso preoccupazione per la diffusione e l’abuso di tali bevande e raccomanda cautela nel consumo, specialmente da parte di persone con problemi cardiaci. Sebbene gli effetti collaterali siano maggiormente imputabili al contenuto di caffeina presente in tali bevande, non ci sono studi scientifici sufficienti per poter escludere il ruolo della taurina o delle sue potenziali interazioni nel manifestarsi degli effetti indesiderati. In aggiunta a ciò, l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) sottolinea come non ci siano dati sulla tossicità acuta della taurina né sugli effetti dell’elevata assunzione a lungo termine (oltre i 12 mesi)

Taurina e sport

La taurina è uno degli integratori maggiormente utilizzati da chi desidera implementare le proprie performance sportive (sia nel pre-gara che nel post, per accelerare i tempi di recupero).

Ma funziona davvero?

Che la taurina sia coinvolta nei meccanismi fisiologici di contrazione e rilascio muscolare è cosa nota, così come il fatto che sia in grado di aumentare il volume delle cellule muscolari.

Eppure studi condotti su atleti professionisti non hanno evidenziato un aumento delle performance a seguito della somministrazione di taurina.

In un recente studio, si è evidenziato come una singola dose di taurina abbia effetti del tutto trascurabili su attività come la corsa o il ciclismo in individui allenati e in buona salute. La somministrazione ripetuta per alcuni giorni, invece, sembra migliorare la resistenza alla fatica, ma solo in soggetti non allenati; di nuovo, nessun aumento della performance dopo 8 settimane di assunzione di taurina è stato osservato negli atleti di triathlon o nei nuotatori professionisti.

Sulla base di questi e altri studi, compresi quelli condotti su soggetti infartuati, sembrerebbe che l’integrazione di taurina favorisca le performance fisiche solo in soggetti non allenati: poiché si è visto che i soggetti allenati hanno livelli maggiori di taurina a livello muscolare, probabilmente risultano meno sensibili all’integrazione della stessa [17,18].

Dosaggio, effetti collaterali e interazioni

L’ Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) riporta che, sulla base degli studi tossicologici ad oggi disponibili, non ci sono evidenze di effetti teratogeni, genotossici o cancerogeni derivanti dall’integrazione di taurina – sebbene manchino gli studi di tossicità cronica, ossia a lungo termine [1].

La stessa EFSA riporta inoltre che l’assunzione giornaliera di taurina in dosi da 3 a 6 g fino ad un anno non produce effetti collaterali degni di nota: alla luce di ciò possiamo quindi affermare che di per sé la quantità assunta con un consumo ragionevole di bevande energetiche si potrebbe ritenere relativamente sicura, ma si tenga presente che la considerazione non può essere automaticamente estesa alle altre sostanze presenti e soprattutto alla possibilità di effetti sinergici tra i diversi principi attivi.

Peraltro il più recente studio del 2015 già citato nel capitolo sulle bevande energetiche, sottolinea come l’assenza di effetti collaterali sia evidente con buon grado di certezza solo fino alla dose giornaliera di 3 g [15].

Non sono note interazioni della taurina con farmaci.

Fonti e bibliografia

  1. Taurine, Robin J. Marles, Valerie A. Assinewe, Julia A. Fogg, Milosz Kaczmarek, and Michael C.W. Sek Encyclopedia of Dietary Supplements, 2nd ed – P. Coates, et al., New York, NY: Informa Healthcare; 2010
  2. Review: taurine: a “very essential” amino acid. Ripps H, Shen W. Mol Vis. 2012;18:2673-86.
  3. Taurine: A Regulator of Cellular Redox Homeostasis and Skeletal Muscle Function. Seidel U, Huebbe P, Rimbach G. Mol Nutr Food Res. 2019 Aug;63(16):e1800569.
  4. Taurine is Involved in Energy Metabolism in Muscles, Adipose Tissue, and the Liver. Wen C, Li F, Zhang L et al. Mol Nutr Food Res. 2019 Jan;63(2):e1800536.
  5. Effects and Mechanisms of Taurine as a Therapeutic Agent. Schaffer S, Kim HW. Biomol Ther (Seoul). 2018 May 1;26(3):225-241.
  6. Effects and Mechanisms of Taurine as a Therapeutic Agent. Schaffer S, Kim HW. Biomol Ther (Seoul). 2018 May 1;26(3):225-241.
  7. Taurine in 24-h urine samples is inversely related to cardiovascular risks of middle aged subjects in 50 populations of the world. Sagara, M., Murakami, S., Mizushima, et al. (2015) Adv. Exp. Med. Biol. 803, 623-636.
  8. Dietary taurine potentiates polychlorinated biphenyl-induced hypercholesterolemia in rats. Mochizuki H, Oda H, Yokogoshi H. J Nutr Biochem 2001, 12(2):109–115.
  9. Improving effect of dietary taurine on marked hypercholesterolemia induced by a high-cholesterol diet in streptozotocin-induced diabetic rats. Mochizuki H, Takido J, Oda H, et al. Biosci Biotechnol Biochem 1999; 63:1984–1987.
  10. Beneficial effects of taurine on serum lipids in overweight or obese non-diabetic subjects. Zhang M, Bi LF, Fang JH, et al. Amino Acids 2004; 26(3):267–271.
  11. Taurine supplementation lowers blood pressure and improves vascular function in prehypertension: randomized, double-blind, placebo controlled study. Sun, Q., Wang, B., Li, Y., Sun, F.,et al. (2016) Hypertension 67, 541-549.
  12. European Cardiac Arrhythmia Society Statement on the cardiovascular events associated with the use or abuse of energy drinks. Lévy S, Santini L, Capucci A, Oto A, Santomauro M, Riganti C, Raviele A, Cappato R. J Interv Card Electrophysiol. 2019 Sep 3.
  13. Risk assessment of energy drinks with focus on cardiovascular parameters and energy drink consumption in Europe. Ehlers A, Marakis G, Lampen A, Hirsch-Ernst KI. Food Chem Toxicol. 2019 Aug;130:109-121.
  14. Rapid analysis of taurine in energy drinks using amino acid analyzer and Fourier transform infrared (FTIR) spectroscopy as basis for toxicological evaluation. Triebel S, Sproll C, Reusch H, Godelmann R, Lachenmeier DW. Amino Acids. 2007 Sep;33(3):451-7.
  15. Risk assessment for the amino acids taurine, L-glutamine and L-arginine. Shao A, Hathcock JN. Regul Toxicol Pharmacol. 2008 Apr;50(3):376-99.
  16. Knowledge, Attitudes, and Practices on Energy Drink Consumption and Side Effects in a Cohort of Medical Students. Casuccio A, Bonanno V, Catalano R et al. J Addict Dis. 2015;34(4):274-83.
  17. Taurine: the appeal of a safe amino acid for skeletal muscle disorders. De Luca A, Pierno S, Camerino DC. J Transl Med. 2015 Jul 25;13:243.
  18. Taurine: A Regulator of Cellular Redox Homeostasis and Skeletal Muscle Function. Seidel U, Huebbe P, Rimbach G. Mol Nutr Food Res. 2019 Aug;63(16):e1800569.

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Fobia sociale: cause, sintomi, farmaci e rimedi

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Cos’è la fobia sociale?

La fobia sociale (o disturbo d’ansia sociale) è un disturbo particolarmente diffuso nella società di oggi; fa parte dei cosiddetti disturbi d’ansia, un ampio gruppo di malattie in cui paura e ansia sono le caratteristiche predominanti.

  • Paura: è la risposta emotiva a un pericolo imminente, che può essere reale o percepito.
  • Ansia: è l’anticipazione di una minaccia futura e si manifesta con
    • comportamenti di tensione psicologica e muscolare,
    • vigilanza preparatoria,
    • prudenza
    • e comportamenti di evitamento (ad esempio non partecipare a situazioni che si sanno scatenare l’ansia).

Tutti abbiamo provato queste sensazioni in alcune circostanze della vita, ma nella fobia sociale queste diventano

  • eccessive: sono scatenate da circostanze non pericolose (ad esempio parlare in pubblico, conoscere nuove persone, andare a cene o feste);
  • permanenti: durano per molti mesi, a volte anni;
  • disabilitanti: ostacolano le normali attività quotidiane e i rapporti sociali.

Nella fobia sociale l’eccessiva paura e ansia derivano dalle interazioni sociali (cene, incontri, conoscere gente nuova, parlare in pubblico) e dal timore di essere osservati, esaminati mentre si parla, mangia, beve, oppure di essere addirittura giudicati, umiliati o rifiutati.

Chi soffre di questo disturbo cercherà il più possibile di evitare i contesti ritenuti “pericolosi” e potrebbe chiedersi come facciano gli altri ad affrontare così serenamente le stesse situazioni.

Uomo nervoso mentre parla in pubblico

iStock.com/fizkes

Sviluppo e decorso

La fobia sociale ha una prevalenza (ossia il numero dei casi in una determinata popolazione presa in esame) media in Europa di circa il 2,3% e si manifesta in età infantile (intorno agli 8-13 anni), raramente negli adulti ed è più comune nel sesso femminile.

Il disturbo ha una durata di molti mesi (più di 6 mesi) e in circa il 60% delle persone non trattate il decorso è di diversi anni o anche maggiore.

Cause e fattori di rischio

Come per i disturbi d’ansia e per gli altri disturbi mentali, le cause esatte della fobia sociale sono sconosciute, ma esistono fattori e caratteristiche che contribuiscono allo sviluppo della malattia; va tenuto presente comunque che la fobia può svilupparsi in maniera più insidiosa di un “semplice” meccanismo causa-effetto.

I più importanti fattori di rischio sono:

  • Fattori biologici: l’amigdala (il centro di gestione delle emozioni nel cervello) è iperattiva nei casi di fobia sociale.
  • Tratti comportamentali: tendenza ad avere un comportamento improntato all’inibizione, alla timidezza e alla paura delle valutazioni negative.
  • Esperienze stressanti o umilianti: storia di abusi, bullismo, maltrattamenti, genitori controllanti e prepotenti.
  • Cambiamenti di vita che richiedono nuovi ruoli sociali: promozione sul lavoro, divorzio.
  • Fattori genetici/familiari: i tratti comportamentali e l’ambiente circostante interagiscono fra loro potendo aumentare di 2-6 volte il rischio di sviluppare la malattia nei parenti di primo grado delle persone con fobia sociale.

Sintomi

I sintomi principali della fobia sociale sono sperimentati in situazioni sociali che prevedono il timore di essere osservati, giudicati negativamente e umiliati; i contesti che scatenano i sintomi possono variare da persona a persona, ma prevedono tutti una schiacciante ansia e paura di:

  • parlare con estranei,
  • parlare in pubblico,
  • partecipare a feste o andare ad incontri,
  • guardare negli occhi gli altri,
  • entrare in stanze piene di gente,
  • paura di andare nei bagni pubblici quando ci sono altre persone (“sindrome della vescica timida”),
  • mangiare davanti agli altri,
  • andare a scuola o a lavoro,
  • avviare le conversazioni.

Ai sintomi di ansia e paura si aggiungono i sintomi fisici tipici dell’”attacco e fuga” (di attivazione di tutto l’organismo al fine di essere pronti, se necessario, o alla lotta contro il nemico o alla fuga) che sono:

Diagnosi

La diagnosi di fobia sociale è clinica, si basa cioè sulla presenza e sulle caratteristiche dei sintomi di ansia e paura.

Per la diagnosi si utilizzano i criteri descritti nel DSM V, il Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali – V edizione, che sono:

  • Paura o ansia marcate per le situazioni sociali nelle quali la persona è esposta all’esame degli altri:
    • Interazioni sociali (conversazioni, incontrare persone sconosciute),
    • Essere osservati (mentre si mangia o si beve),
    • Eseguire una prestazione di fronte agli altri (parlare in pubblico).

    Nei bambini l’ansia deve essere presente sia di fronte agli adulti sia di fronte ai coetanei.

  • La persona teme che manifesterà i sintomi d’ansia (arrossire, tremare, sudare, balbettare e così via) e che questi saranno giudicati in maniera negativa, umiliante, imbarazzante, porteranno al rifiuto o saranno offensivi per altri. Ha paura di essere bollato come debole, stupido, noioso, … Se una persona ha ad esempio paura di tremare eviterà di bere, mangiare, scrivere; se ha paura di sudare eviterà di toccare o stringere la mano a qualcuno; se ha paura di arrossire eviterà di parlare in pubblico, le luci forti o le discussioni accese o intime. Alcune persone hanno paura di utilizzare i bagni pubblici quando sono presenti altre persone (“sindrome della vescica timida”).
  • Le situazioni sociali temute provocano quasi invariabilmente paura o ansia. Nei bambini queste emozioni si possono manifestare con pianto, scoppi di collera, immobilizzazione, aggrappamento, ritiro o non riuscendo a parlare (mutismo).
  • Le interazioni sociali sono evitate o, se non è possibile, sono sopportate con paura e ansia intense. Le strategie di evitamento possono coinvolgere le situazioni simili tra loro (non andare a tutte le feste, evitare la scuola, le cene con estranei) oppure essere meno evidenti (preparare troppo minuziosamente il testo di un discorso, limitare il contatto visivo).
  • Gli adolescenti hanno dei comportamenti di evitamento più estesi rispetto ai bambini più piccoli mentre gli adulti-anziani hanno livelli minori di ansia, ma in un numero più ampio di situazioni che possono riguardare il declino di alcune funzioni come la vista, l’udito o altre condizioni mediche.
  • La paura, l’ansia e l’evitamento:
    • Sono sproporzionati rispetto al reale rischio di essere giudicati negativamente, alle conseguenze e al contesto socioculturale,
    • Persistono per più di 6 mesi,
    • Causano un disagio evidente in ambito sociale, lavorativo e nelle altre aree della vita,
    • Non sono attribuibili agli effetti di una droga, di un farmaco o di un’altra malattia mentale o medica (e anche nei casi in cui fosse presente, la paura, l’ansia o l’evitamento sono chiaramente eccessivi rispetto ad essa).

Esistono altri disturbi che possono avere sintomi simili alla fobia sociale e per i quali è importante fare una corretta diagnosi. Alcuni esempi sono:

  • Timidezza non patologica: in alcune società è anche valutata positivamente.
  • Agorafobia: paura delle situazioni in cui potrebbe essere difficile fuggire o in cui non è disponibile soccorso in caso di necessità.
  • Disturbo d’ansia generalizzata e disturbo di panico: l’oggetto della paura non sono le interazioni sociali.
  • Fobie specifiche: paura degli aghi, degli insetti, dei buchi sono alcuni esempi.
  • Disturbo depressivo maggiore.
  • Disturbo da dismorfismo corporeo: preoccupazioni riguardanti i difetti del proprio corpo che non sono osservabili o comunque che sono di poco conto per gli altri.
  • Disturbo delirante: percezione distorta della realtà, difficoltà a riconoscere ciò che è reale da ciò che non lo è.

Conseguenze

Nonostante la significativa compromissione della vita di tutti i giorni a causa della fobia sociale, solo la metà delle persone chiede aiuto e, mediamente, dopo 15-20 anni di sintomi.

Le ripercussioni sono quindi numerose sulla vita lavorativa, sociale e affettiva, quali ad esempio

  • abbandono scolastico o lavorativo,
  • disoccupazione,
  • diminuzione del benessere e della qualità della vita,
  • carenza o mancanza di relazioni significative e attività ricreative,
  • depressione.

Cura

La cura della fobia sociale si basa prevalentemente sulla psicoterapia, anche se possono essere utilizzati alcuni farmaci ma con il rischio di modificare le capacità cognitive (pensiero, memoria ecc.) che sono invece necessarie a una psicoterapia di successo.

  • Psicoterapia: insegna alle persone a riconoscere e controllare i propri falsi pensieri riguardo alla minaccia percepita e li sostituisce con comportamenti più funzionali. La cosiddetta terapia d’esposizione è una tecnica che consiste nell’esposizione controllata alla situazione che provoca ansia (ad esempio parlare in pubblico) per prendere consapevolezza del fatto che le conseguenze non sono pericolose.
  • Farmaci: alcune classi di antidepressivi e benzodiazepine sono utilizzate per l’ansia. I beta-bloccanti diminuiscono i sintomi fisici di tremori, tachicardia, sudorazione ad esempio nelle situazioni in cui è necessario parlare in pubblico, ma non sono diretti all’ansia.

Fonti e bibliografia

  • DSM V – Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi mentali, quinta edizione
  • Manuale MSD
  • WebMD

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Acromegalia: cause, sintomi e cura

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Cos’è l’acromegalia?

L’acromegalia (dal greco “acros” e “megalos” ,a significare “grandi estremità”) è una rara patologia endocrinologica cronica, derivante dall’esposizione dell’organismo a grandi quantità dell’ormone della crescita GH, prodotto nella stragrande maggioranza dei casi (98%) da un adenoma dell’ipofisi (tumore benigno).

A seconda dell’età in cui si verifica questa ipersecrezione di ormone della crescita si parlerà di:descr

  • gigantismo, quando si verifica nel bambino o adolescente in fase di crescita;
  • acromegalia, quando si verifica nell’adulto dove, per via dell’ormai avvenuta fusione delle cartilagini epifisarie a livello osseo, il soggetto non potrà più crescere in altezza.

L’acromegalia è una malattia relativamente rara, poiché colpisce circa 40 individui su 1 milione, con un rapporto maschi/femmine di 1 a 1. L’incidenza è di circa 4 nuovi casi all’anno ogni milione di abitanti, con una diagnosi che avviene con circa 10 anni di ritardo ad un’età media di 40-45 anni.

Le cause di acromegalia sono da ricercare nella presenza di:

  • adenoma ipofisario che iper-produce GH (nel 95% dei casi),
  • secrezione ectopica di GHRH da parte dell’ipotalamo o di un tumore periferico,
  • secrezione ectopica di GH (molto rara) da parte di un tumore polmonare, pancreatico o di un linfoma.

Il quadro clinico dell’acromegalia è caratterizzata da diversi sintomi piuttosto caratteristici:

  • ingrossamento dei tessuti molli e delle ossa con:
    • prominenza delle arcate sovraorbitarie, della fronte, degli zigomi e della mandibola,
    • ingrossamento del naso e della lingua,
    • ispessimento della cute, ipertricosi e sudorazione eccessiva,
  • comorbidità metaboliche e sistemiche con sviluppo di:
    • ipertensione,
    • cardiopatia congestizia (da cardiomegalia),
    • diabete,
    • dislipidemia e sindrome metabolica,
  • riduzione della normale secrezione ipofisaria con riduzione dei livelli di TRH, ACTH, FSH e LH.
Viso di un uomo affetto da acromegalia

By Philippe Chanson and Sylvie Salenave – Acromegaly. Orphanet Journal of Rare Diseases 2008, 3:17. doi:10.1186/1750-1172-3-17, CC BY 2.0, Link

La diagnosi si basa inizialmente su anamnesi ed esame obiettivo coadiuvati dal controllo biochimico (tramite esami del sangue) di GH ed IGF-1. Come secondo livello è richiesta l’esecuzione di una risonanza magnetica per individuare la causa organica dell’iper-produzione di GH, che in oltre il 90% dei casi è dovuta ad un adenoma a carico dell’ipofisi.

Il trattamento dell’acromegalia prevede la rimozione della causa sottostante, per esempio in caso di adenoma ipofisario è possibile:

  • un approccio farmacologico con gli analoghi della somatostatina che riducono la secrezione e gli effetti del GH,
  • radioterapia (raramente richiesta),
  • intervento chirurgico di asportazione del tumore ipofisario, con conservazione della funzionalità ipofisaria residua.

Oltre al trattamento dell’adenoma risulta fondamentale la gestione e il trattamento delle comorbidità come ipertensione, scompenso cardiaco, insufficienza respiratoria, diabete, dislipidemia con aterosclerosi.

Poiché la condizione è rara e i sintomi compaiono in modo molto graduale, talvolta la condizione richiede molto tempo prima di destare sospetti ed essere riconosciuta; un eccessivo ritardo può tuttavia avere complicazioni notevoli. la prognosi dell’acromegalia dipende infatti dalle possibilità del trattamento, che deve essere impostato precocemente subito dopo aver definito la diagnosi con certezza. In caso di trattamento tempestivo ed efficace è possibile osservare una netta riduzione della mortalità dovuta alla malattia.

Cause

Nel soggetto sano il GH (ormone della crescita) viene rilasciato con picchi secretori che si verificano durante la notte (specie durante la fase REM del sonno), tipicamente nel bambino e nel soggetto in età evolutiva, per consentire la crescita staturale. La secrezione di GH è quindi pulsatile (intermittente) e, al di là di tali picchi, la produzione basale di GH è molto bassa; questi picchi tendono poi a diventare sempre più rari nella vita adulta sino ad avere livelli di GH indosabili.

In caso di acromegalia non si osservano alti livelli di GH, ma ciò che accade è che si verifica una secrezione continua e costante, con assenza di regolazione, poiché essa viene a svincolarsi dai meccanismi neuro-ormonali previsti. La conseguenza è che la quantità di GH in circolo è stabilmente sopra la soglia di 1 ng/mL, valore che permette di discriminare una situazione normale da quella patologica.

La principale causa di tale secrezione non pulsatile persistentemente aumentata è dovuta nel 98% dei casi ad un adenoma ipofisiario, un tumore benigno che potrà essere formato dalle sole cellule somatotrope oppure essere misto (con iperprolattinemia consensuale, ossia una contemporanea eccessiva produzione di prolattina).

L’aumentata produzione di GH stimola la produzione del suo ormone messaggero, attraverso il quale esercita gran parte dei suoi effetti biologici: l’ormone in questione è il IGF-1 (Insuline-like Growth Factor-I), anche detto somatomedina, prodotto a livello epatico.

Dal punto di vista eziologico si distinguono:

  • Forme primitive (98% dei casi):
    • da adenomi ipofisari a cellule somatotrope; di solito si tratta di macroadenomi che superano 1 cm di diametro;
    • adenomi ipofisari misti con secrezione associata di GH e prolattina.
  • Forme secondarie (2% dei casi):
    • da secrezione ectopica di GHRH da carcinoidi o tumore delle isole di Langherans del pancreas;
    • da secrezione ectopica di GHRH (ormone di stimolazione del GH prodotto normalmente dall’ipotalamo) da parte di tumori dell’ipotalamo;
    • da secrezione ectopica di GH da parte di tumori polmonari, pancreatici o di un linfoma.

Sintomi

Dal punto di vista clinico si descrive una sintomatologia suddivisibile in 3 gruppi principali:

  • Sintomi dovuti all’espansione del tumore a livello dell’ipofisi, che può portare allo sviluppo di:
    • cefalea (mal di testa),
    • vomito di tipo centrale a getto e senza nausea,
    • ipertensione endocranica,
    • disturbi visivi (come l’emianopsia bitemporale, che causa la perdita di metà del campo visivo);

    inoltre l’adenoma in crescita tende a danneggiare le cellule ipofisarie contigue che erano normofunzionanti, portando ulteriori alterazioni ormonali (si osserva in particolare un quadro di ipo-pituitarismo con riduzione della secrezione di TSH, FSH e LH (gonadotropine) o ACTH con i relativi sintomi associati.

  • Sintomi dovuti all’effetto diretto del GH in eccesso, che provoca insulino-resistenza e intolleranza ai carboidrati con forma iniziale di diabete secondario.
  • Sintomi dovuti all’IGF-1, responsabile della stimolazione a livello del DNA della proliferazione del tessuto osseo, della cartilagine, dei tessuti molli e degli altri organi portando alle tipiche manifestazioni dell’acromegalia.

Sintomi classici dell’acromegalia

Descriviamo in primis i tipici sintomi “morfologici”:

  • Aumento e ipertrofia dei tessuti molli che interessa prevalentemente il volto e gli arti.
  • Alterazione delle estremità ovvero mani e piedi: tipica è la deformazione “a spatola” delle dita”; molto caratteristica di questo disturbo è anche la necessità dei soggetti affetti di cambiare misura di guanti e scarpe o di allargare anelli e bracciali.
  • Aumento dei seni paranasali frontali con prominenza delle arcate sovra-orbitarie
  • Ingrossamento del naso e della lingua (macroglossia), che modificano il timbro della voce (anche per ispessimento della laringe) e possono portare ad un apnea ostruttiva durante il riposo.
  • Ingrossamento della mandibola con prognatismo (prominenza in avanti della mandibola rispetto all’osso mascellare).
  • Allargamento degli spazi interdentali.
  • Ispessimento della cute (soprattutto del cuoio capelluto) che diventa seborroica, con comparsa di acne e cisti sebacee.
  • Acanthosis nigricans (colorazione nerastra) a livello di ascelle e collo.
  • Ipertricosi (aumento della quantità di peli), soprattutto nelle donne dove è più facilmente. riscontrabile la differenza rispetto ad un quadro di peluria fisiologica.
  • Intolleranza al caldo e iperidrosi (sudorazione eccessiva) per ipertrofia delle ghiandole sudoripare.
  • Dolori articolari (artralgie) e sindrome del tunnel carpale con compressione del nervo mediano a livello dei polsi.

Oltre a questi sintomi dovuti ad ingrossamento dei tessuti molli e delle ossa, si riscontrano anche “sintomi sistemici”:

  • Astenia, malessere generalizzato con sonnolenza ed aumento ponderale.
  • Ipertensione (pressione alta) per la ritenzione di sodio a livello renale.
  • Intolleranza al glucosio per gli effetti insulino-antagonisti del GH.
  • Iperinsulinemia per l’insulina-resistenza provocata sempre dal GH.
  • Quadro di diabete conclamato (più raro).
  • Ipogonadismo (testicoli od ovaie non producono più ormoni a sufficienza.), secondario alla compressione ipofisaria da parte dell’adenoma.
  • Galattorrea (secrezione anomala di latte) da iperprolattinemia nelle donne, ginecomastia negli uomini (aumento delle dimensioni delle ghiandole mammarie).
  • RIduzione del desiderio sessuale, alterazioni del ciclo mestruale nelle donne e disfunzione erettile nell’uomo.
  • Organomegalia generale: ingrossamento di vari organi quali tiroide (con sviluppo di gozzo), cuore (con cardiomegalia e rischio di scompenso), fegato e milza, ghiandole salivari (con scialorrea), prostata.

Complicazioni

Col passare degli anni l’alterato  quadro clinico-ormonale porta allo sviluppo di complicanze notevoli che prevedono la possibile comparsa di:

  • artrite degenerativa e disabilitante, con difficoltà alla deambulazione,
  • aumento del rischio di mortalità dovuto all’aterosclerosi e alla cardiopatia, all’ipertensione e al diabete,
  • aumento dell’incidenza di circa 4 volte delle neoplasie (rischio elevato soprattutto per lo sviluppo di tumore al colon).

Diagnosi

Il percorso diagnostico inizia con l’anamnesi e l’esame obiettivo.

L’anamnesi consiste in una sorta di intervista medico-paziente in cui si ricostruisce l’intera storia clinica recente e remota dell’ammalato. Nel caso dell’acromegalia saranno carpite informazioni quali:

  • tempo trascorso dalla comparsa dei sintomi,
  • necessità di dover cambiare numero di scarpe o guanti,
  • comparsa di intolleranza al glucosio,
  • presenza di patologie sottostanti,
  • utilizzo di farmaci.

Molto utile è la possibilità di visionare eventuali fotografie del paziente di qualche anno addietro, poiché si possono eventualmente osservare le tipiche alterazioni somatiche del volto dovute all’acromegalia.

L’esame obiettivo mira al riconoscimento dei sintomi soggettivi e alla descrizione dei segni oggettivi della malattia.

Lo step successivo prevede il controllo biochimico dei valori di GH e IGF-1: il GH in caso di malattia viene ad avere valori che possono superare i 10 ng/mL, tuttavia il presupposto fondamentale per la diagnosi di certezza è avere un valore basale di GH che non scenda mai al di sotto di 1 ng/mL.

Come ulteriore conferma diagnostica si esegue il carico orale di glucosio (OGTT): nel soggetto normale dopo questo carico di glucosio i livelli di GH si riducono dopo circa 60 min; nel soggetto affetto da acromegalia, il GH è ormai divincolato da questo tipo di regolazione, per cui anche dopo la dose di glucosio orale i suoi valori non scendono mai al di sotto di 1 ng/mL.

Dal punto di vista strumentale come indagine di secondo livello è richiesta l’esecuzione di una risonanza magnetica cerebrale la quale, in oltre il 90% dei casi, mostrerà la presenza di un adenoma ipofisario (di solito si tratta di un macroadenoma che supera l’1 cm di diametro.
Nel caso non venga riscontrato un adenoma ci saranno 2 possibilità:

  • Presenza di iperplasia diffusa dell’ipofisi, il che è sospetto per una produzione eccessiva di GHRH in sede ipotalamica o ectopica da altri tumori.
  • Assenza di lesioni ipofisarie: il che è sospetto per la produzione ectopica di GH che può derivare da un tumore polmonare, pancreatico o un linfoma.

Cura

Il trattamento dell’acromegalia deve essere iniziato precocemente non appena si è giunti ad una diagnosi di certezza. Gli obiettivi sono:

  • controllo biochimico dei valori di GH che deve essere inferiore a 1.0 ng/mL e dell’IGF-1;
  • controllo o la riduzione delle dimensioni del tumore ipofisario, che può avvenire con:
    • terapia farmacologica: ci si avvale degli analoghi della somatostatina, ormone che normalmente inibisce la crescita e la secrezione del GH a livello delle cellule somatotrope. Si utilizzano gli analoghi a lunga durata d’azione Octreotide e Lanreotide. In associazione o in alternativa ad essi si può utilizzare un’antagonista del recettore del GH, il Pegvisomant che permette di ridurre l’azione del GH e lo stimolo alla produzione dell’IGF-1;
    • radioterapia,
    • intervento chirurgico (con asportazione dell’adenoma cercando di conservare la funzionalità ipofisaria residua);
  • conservazione della normale funzione ipofisaria;
  • gestione delle comorbidità della malattia controllando e trattando

Fonti e bibliografia

  • Harrison – Principi Di Medicina Interna Vol. 1 (17 Ed. McGraw Hill)
  • Malattie del sistema endocrino e del metabolismo – di G. Faglia, P. Beck-Peccoz, A. Spada

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Sindrome da svapo: cause, sintomi e pericoli

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Cos’è la sindrome da svapo?

“Sindrome da svapo”, talvolta indicata anche come polmone da svapo, è un termine usato per identificare pericolose condizioni polmonari sviluppate da chi fa uso della sigaretta elettronica; ad oggi, 24 settembre 2019, si contano già diverse centinaia di casi negli Stati Uniti e una decina di morti.

Secondo alcuni Autori la patologia sta acquisendo un andamento epidemico.

Ragazzo che fa uso di sigaretta elettronica

iStock.com/hsyncoban

Quali sono i sintomi?

Il CDC americano riporta che i pazienti colpiti presentano sintomi come:

Alcuni pazienti hanno riferito che i sintomi si sono sviluppati nell’arco di alcuni giorni, mentre in altri casi il decorso è stato più lungo (settimane).

Quali sono le cause?

A collegare i diversi pazienti è l’abitudine all’uso della sigaretta elettronica, ma ad oggi non è ancora stata individuata la sostanza o il fattore direttamente collegato alla comparsa dei sintomi.

La maggior parte dei pazienti esaminati, ma non tutti, hanno riferito di usare sigarette elettroniche contenenti THC (il principio attivo della marijuana); molti hanno riferito l’uso di THC e nicotina e infine, alcuni, della sola nicotina.

Tra le possibili ipotesi al vaglio dei ricercatori:

  • composti aromatizzanti
  • utilizzo con oli a base di tetraidrocannabinolo (THC) o vitamina E,
  • dispositivi non autorizzati acquistati su un mercato non controllato (“in strada”).

La vitamina E, in forma di acetato, è una sostanza normalmente utilizzata in prodotti di consumo topici (da usare sulla pelle) e negli integratori alimentari, ma la letteratura è invece estremamente limitata in termini di effetti e conseguenze a seguito di inalazione.

È possibile che alcuni di questi ingredienti non vaporizzino completamente e raggiungano i polmoni in forma di minuscole goccioline (oleose, nel caso della vitamina E), il cui accumulo potrebbe diventare l’innesco per rare forme di polmonite (polmonite eosinofila acuta, polmonite organizzata, polmonite lipoidea, sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), polmonite da ipersensibilità,  polmonite interstiziale a cellule giganti, …).

Alla luce dei casi attuali è stata, almeno per ora, esclusa un’origine infettiva.

Come si cura?

Essendo una condizione non ancora studiata né perfettamente compresa, non esistono linee guida o indicazioni di trattamento specifiche;

Cortisone ed antibiotici sono stati somministrati in diversi casi, ma se nel primo caso si sono osservati generali miglioramenti della condizione, l’uso esclusivo di antibiotici non ha sortito miglioramenti (per questa ragione è stata esclusa un’origine batterica).

Se adesso non ho sintomi e smetto di farne uso, cosa rischio?

Tutti i casi segnalati ad oggi sono legati ad un utilizzo di svapo nei 90 giorni precedenti, ma è presto per poter dare risposte certe.

Cosa fare?

Gli organismi americani consigliano di rivolgersi immediatamente al proprio medico in caso di comparsa di sintomi respiratori, ma si raccomandano anche di evitare l’acquisto di dispositivi e sostanze correlate alla sigaretta elettronica al di fuori dei canali ufficiali e controllati.

Il CDC americano sottolinea inoltre che, se si è adulti e si fa utilizzo della sigaretta elettronica dopo aver smesso di fumare, ad oggi NON c’è motivo di ricominciare a fumare.

Fonti

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Rottura del tendine d’Achille: cause, sintomi e cura

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Il tendine d’Achille

Il tendine d’ Achille, anche noto come tendine calcaneale, è una struttura costituita da fasci di fibre collagene dure, ma molto elastiche, collocato tra polpaccio e caviglia; è considerato il più robusto e forte del corpo, può ricevere infatti uno stress di carico pari a 3,9 volte il peso del corpo quando si cammina e 7,7 volte il peso del corpo in corsa, ed è indispensabile per lo svolgimento del passo, nonché per la deambulazione, la corsa e il salto.

Nonostante sia un tendine adatto a ricevere numerose sollecitazioni durante il movimento del piede e della gamba, se sottoposto ad uno sforzo eccessivo può lacerarsi e rompersi, come accade specialmente nei soggetti sportivi.

Il sintomo caratteristico è l’improvvisa insorgenza di un forte dolore al tallone, spesso accompagnato da un suono simile ad uno schiocco, che rende quasi impossibile camminare.

L’infortunio si verifica in genere a seguito di un evento traumatico e/o in conseguenza di una tendinite trascurata; la diagnosi si basa in genere sulla clinica (osservazione dei sintomi), supportata da esami di imaging.

Il trattamento può essere chirurgico o più conservativo (gesso) e generalmente è possibile riprendere a caricare gradualmente il peso sul tendine colpito entro 4-6 settimane.

Schematizzazione degli infortuni al tendine d'Achille

iStock.com/medicalstocks

Cause

La rottura del tendine di Achille si verifica in circa 1 soggetto su 10.000 ogni anno, soprattutto nei pazienti che praticano sport come:

  • podismo,
  • ginnastica,
  • danza,
  • basket,
  • tennis
  • e pallavolo.

Le lesioni possono essere favorite da un movimento rapido ed improvviso all’inizio dell’attività, tale da comportare una brusca contrazione del muscolo e uno stress eccessivo per il tendine (come accade, per esempio, ai velocisti, all’inizio delle proprie gare, se non sufficientemente riscaldati).

Una rottura del tendine d’Achille, comunque, può verificarsi anche in caso di:

o essere favorita da alterazioni metaboliche (come diabete, elevato peso corporeo o alti livelli di colesterolo nel sangue) in grado di causare un indebolimento progressivo delle fibre che lo compongono.

La rottura del tendine d’Achille è un’evenienza che riguarda 1 persona ogni 10000 l’anno, sono colpiti principalmente gli uomini di età compresa tra i 30 ed i 40 anni, con un rischio fino a 5 volte maggiore rispetto alle donne; tra gli altri fattori di rischio ricordiamo:

Sintomi

Chi presenta una rottura del tendine d’Achille riferisce in genere i seguenti sintomi:

  • sensazione improvvisa di “colpo alla caviglia”,
  • percezione di “schiocco” durante l’evento lacerativo,
  • dolore acuto nella porzione posteriore della gamba e a livello del polpaccio,
  • difficoltà motorie (specialmente nel camminare),
  • incapacità nel muovere il piede verso il basso,
  • incapacità di alzarsi sulla punta del piede infortunato,
  • ematoma e gonfiore localizzato alla caviglia e al tallone,
  • sensazione di affossamento nel retro della caviglia,
  • rigidità alla caviglia.

Questo tipo d’infortunio risulta tanto più doloroso quanto più è estesa la rottura, che può essere parziale o totale; il dolore, pur essendo molto forte in concomitanza della rottura, può diminuire nel corso del tempo, per questo il trauma può essere sottovalutato e spesso si fa ricorso ad un medico in ritardo, quando la situazione è ormai già peggiorata.

Diagnosi

Per effettuare una diagnosi di rottura del tendine d’Achille è necessaria una visita medica, condotta da un ortopedico, che effettuerà una serie di test specifici, tra cui il test di Thompson. Questa manovra consiste nella compressione del muscolo del polpaccio da entrambi i lati, a paziente sdraiato a pancia in giù, con i piedi oltre il bordo del lettino; in condizioni normali la spremitura delle masse muscolari provoca la flessione plantare del piede mentre, in presenza di una rottura completa del tendine d’Achille, la manovra evocherà intenso dolore, senza alcun movimento del piede.

Il sospetto diagnostico potrà poi essere in seguito confermato da alcuni esami strumentali, come:

Cura

La strategia terapeutica più appropria dipende generalmente da fattori quali:

  • età,
  • livello di attività dell’infortunato,
  • grado di rottura.

L’approccio chirurgico è tuttavia, nella gran parte dei casi, l’opzione più adottata per porre rimedio alla rottura (associata ad un rischio leggermente superiore di complicazioni nell’immediato, ma con una probabilità sensibilmente inferiore di recidiva futura).

Le persone giovani o più attive optano per la riparazione chirurgica di una rottura completa del tendine d’Achille, mediante un intervento svolto in anestesia locale o regionale che prevede un’incisione lungo la parte posteriore della caviglia, lateralmente alla porzione mediana, in modo che le scarpe in seguito non causino attrito sull’area della cicatrice.

È di fondamentale importanza un’attenta gestione della ferita e lo svolgimento di sedute di fisioterapia a seguito dell’intervento per accelerare il tempo di recupero.

In media, l’appoggio del peso avviene dopo circa sei settimane e la ripresa piena dell’attività dopo 4-6 mesi.

In caso di rottura parziale, o nelle persone meno giovani e meno attive, può essere utilizzato un gesso (o un tutore) che includa dei sostegni per tenere il tallone sollevato, in modo da favorire la rimarginazione del tendine che si è lacerato.

Anche in questo caso, è consigliabile sottoporsi ad un programma di fisioterapia, per tornare all’attività quotidiana in circa 4-6 mesi.

È possibile prevenire la rottura?

Molto spesso all’origine della rottura c’è una condizione di infiammazione, nota come tendinite dell’achilleo, i cui sintomi peggiorano con l’attività e includono:

  • dolore lungo il tendine e al muscolo del polpaccio,
  • rigidità mattutina nei movimenti del piede,
  • gonfiore locale,
  • ispessimento del tendine,
  • presenza di speroni ossei (neoformazioni di tessuto osseo localizzate a livello del calcagno).

In questo caso è importante porre un limite al perpetuarsi dell’infiammazione, evitando il sovraccarico funzionale ed adottando alcuni accorgimenti come:

  • utilizzo di scarpe adeguate all’attività fisica che si pratica,
  • riscaldamento e allungamento muscolare prima di ogni allenamento o prova sportiva.

Per ridurre la probabilità di lacerazione del tendine d’Achille è inoltre consigliabile:

  1. Allungare e rinforzare i muscoli del polpaccio e il tendine d’Achille mediante lo svolgimento di esercizi specifici e mirati.
  2. Alternare il tipo di attività sportiva svolta, intervallando sport ad alto impatto, come la corsa, con sport a più basso impatto come camminare, nuotare o andare in bicicletta.
  3. Non effettuare esercizi fisici su superfici non idonee, come quelle dure o scivolose.
  4. Aumentare con gradualità l’intensità dei propri allenamenti.
  5. Tenere sotto controllo il proprio peso corporeo e i livelli di colesterolo nel sangue, mediante l’adozione di una dieta sana ed equilibrata.

Fonti e bibliografia

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Dolore all’occhio sinistro o destro: cause e rimedi

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Introduzione

La percezione di dolore a livello oculare è un sintomo che accomuna diverse patologie, che non sempre riguardano solo gli occhi, oltre a rappresentare motivo di serio disagio per chi ne viene interessato.

A prescindere dal fatto che sia il destro o il sinistro, in base alla localizzazione il dolore all’occhio potrà riguardare:

  • le strutture oculari più esterne, in questo caso è descritto come
    • trafittivo,
    • lancinante
    • e acuto;
  • la porzione situata posteriormente o internamente all’occhio, tipicamente riferito come
    • pulsante,
    • opprimente,
    • lancinante
    • e sordo.

Il dolore superficiale è spesso correlato alla presenza di un corpo estraneo nell’occhio o un’infezione, ma la presenza di un dolore particolarmente severo, soprattutto se accompagnato da disturbi della visione (come una riduzione della stessa), deve indurre il paziente a cercare immediata assistenza medica.

Nonostante il fatto che spesso questa condizione clinica si risolva spontaneamente, è sempre opportuno individuare la causa alla base del dolore rivolgendosi ad un oculista, che sarà in grado di stabilire se si tratta di un’irritazione superficiale o di una patologia più seria, da trattare adeguatamente in maniera specifica.

Donna che si tocca l'occhio a causa del dolore

iStock.com/seb_ra

Cause

In numerosi casi questa sensazione dolorosa è transitoria, aspecifica e tende a risolversi in un arco temporale breve; in altri casi possono coesistere, oltre alla sensazione di dolenzia oculare, altre manifestazioni cliniche riguardanti propriamente gli occhi, come:

Questo corteo di sintomi permette di ritenere, verosimilmente, che alla base del disturbo possano esserci patologie che colpiscono direttamente l’apparato visivo, in particolar modo

  • cornea (la membrana trasparente situata davanti iride e pupilla, una struttura ricca di terminazioni nervosa e sensibile agli stimoli dolorosi),
  • congiuntiva (la membrana sottile che riveste dall’interno le palpebre e ricopre la porzione anteriore dell’occhio).
Semplificazione dell'anatomia dell'occhio e della visione

iStock.com/normaals

Potranno quindi causare dolenzia oculare:

Dolore all’occhio e mal di testa

In altri casi, invece, il dolore oculare può essere in realtà una proiezione di una condizione clinica che interessa gli occhi solo secondariamente, come accade nel caso di:

Queste condizioni sono spesso accompagnate da mal di testa, che tuttavia può assumere forme e localizzazioni differenti a seconda dei casi:

  • Trigemino: il dolore interessa solitamente un solo lato del viso e può essere avvertito anche sulle labbra o sulla lingua, talvolta innescato da semplici azioni come lavarsi i denti o masticare. Si presenta in forma di fitte brevi, lancinanti e ripetute.
  • Sinusite: il dolore può essere bilaterale (interessare entrambi i lati del viso) e concentrarsi, oltre che sull’occhio, sugli zigomi e ai lati del naso.
  • Cefalea a grappolo: il dolore alla testa è localizzato su un solo lato e interessa tipicamente l’intera orbita dell’occhio. SI presenta spesso associata con lacrimazione, arrossamento, congestione nasale.
  • Emicrania: il dolore è monolaterale (un solo lato della testa) ed interessa la parte anteriore o il lato; è spesso accompagnata fa fotofobia (fastidio per la luce).
  • Emicrania oftalmica: è una forma non comune, accompagnata da disturbi della visione, tipicamente la perdita temporanea della vista da un occhio.

Quando preoccuparsi

Il dolore oculare può essere spesso attribuito ad un’irritazione superficiale che si manifesta come la percezione di un graffio o sabbia nell’occhio, ma è bene non sottovalutare altri sintomi che potrebbero essere indicativi di una condizione più preoccupante, quali:

  • vomito,
  • febbre,
  • brividi,
  • affaticamento,
  • dolori muscolari,
  • alterata visione alla luce (percezione di aloni ai margini del fascio luminoso),
  • ridotta nitidezza visiva,
  • protrusione di un occhio,
  • incapacità di movimento dell’occhio nelle varie direzioni.

Quando il dolore è particolarmente intenso, la congiuntiva è arrossata e sono presenti uno più dei sintomi elencati, è importante recarsi immediatamente da un oculista che possa individuarne la causa ed intervenire tempestivamente.

In caso di traumi o ustioni è necessario recarsi senza indugio al più vicino pronto soccorso.

Nel caso di dolenzia oculare lieve, senza altri segni o sintomi, è talvolta possibile temporeggiare per 1 o 2 giorni al fine di valutare se si tratti o meno di una condizione transitoria, magari previo parere telefonico del proprio medico.

Diagnosi

La diagnosi è posta generalmente da un oculista, mediante una scrupolosa visita medica che prevede:

  • Raccolta anamnestica: il medico potrà raccogliere informazioni riguardanti insorgenza, qualità, gravità del dolore e storia precedente di episodi analoghi. Oltre alla ricerca di sintomi oculari associati (come alterazioni visive, sensazioni di corpo estraneo, percezioni dolorose con il movimento oculare), saranno ricercati altri reperti indicativi di patologie che possono essere alla base del dolore, quali:
    • presenza di aurea (corteo sintomatologico tipico dell’emicrania);
    • febbre, brividi (reperti che possono essere suggestivi di infezioni in atto);
    • tosse produttiva, rinorrea purulenta (muco nasale con pus), alitosi, sintomi indicativi di un’eventuale sinusite.

    Si terrà conto, inoltre di:

    • patologie note che possono costituire un fattore di rischio per il dolore oculare (malattie autoimmuni, sclerosi multipla, emicrania, infezioni sinusali),
    • uso o abuso di lenti a contatto,
    • esposizione eccessiva alla luce solare,
    • interventi chirurgici agli occhi svolti recentemente,
    • documentate lesioni oculari.
  • Esame obiettivo: l’esame oculare sarà accurato e completo e potrà avvalersi di alcune indagini, come:
    • Esame del campo visivo: viene svolto appoggiando mento e fronte del paziente ad uno strumento computerizzato che invia stimoli luminosi ad un occhio, mentre l’altro viene occluso. La persona sottoposta all’esame deve premere un pulsante ogni volta che vede uno stimolo luminoso nello spazio davanti a sé. Quest’indagine è molto utile nella diagnosi di glaucoma e in alcune patologie della retina, del nervo ottico e del sistema nervoso centrale, ma può risultare insensibile in caso di pazienti non collaborativi.
    • Esame con lampada a fessura: il paziente appoggia mento e fronte ad uno strumento ottico fornito di una lampada in grado di erogare un fascio luminoso in una zona specifica dell’occhio, consentendone l’analisi da parte dello specialista. Si tratta di un esame sicuro, indolore che consente di visualizzare bulbo, annessi oculari, strati corneali, vitreo, camere anteriori, cristallino ed iride, fornendo un’analisi accurata dell’occhio.
    • Tonometria: metodica che consente la misurazione della pressione oculare, mediante l’utilizzo di un tonometro a contatto oppure a soffio.
    • Oftalmoscopia: è un’indagine che prevede l’utilizzo di un oftalmoscopio, in grado fi osservare il fondo oculare e varie strutture che compongono la tonaca retinica del bulbo oculare.

Cura

Il trattamento è ovviamente stabilito in virtù della causa che ha determinato la comparsa di dolore oculare.

In molti casi, possono essere impiegati degli antidolorifici da banco per fermare il dolore (come paracetamolo o farmaci antinfiammatori non steroidei); in presenza di dolore particolarmente intenso potrebbe essere indicata la somministrazione di oppioidi.

Alcuni disturbi che riguardano la cornea possono estendersi indirettamente alla camera anteriore dell’occhio (lo spazio pieno di liquido localizzato tra iride e porzione interna della cornea) e causare uno spasmo del muscolo ciliare (deputato al controllo dell’iride). Quando è presente questo spasmo, un’esposizione alla luce può determinare una brusca contrazione del muscolo con peggioramento del dolore.

I soggetti che presentano dolore per un’uveite anteriore o per patologie della cornea possono utilizzare un collirio con effetto antidolorifico (come il ciclopentolato).

Tale farmaco, infatti, agisce impedendo la contrazione del muscolo ciliare, dilatando la pupilla ed impedendo che si generi dolore con l’esposizione allo stimolo luminoso.

In ogni caso, prima di fare ricorso ai farmaci per alleviare la propria condizione, è sempre meglio consultare un medico che stabilisca il trattamento e la posologia più indicata.

Fonti e bibliografia

  • MSD
  • Toselli C., Miglior M. Oftalmologia clinica. Monduzzi. (1979). ISBN 88-323-1601-3
  • Buratto L. L’Occhio, Le Sue Malattie E Le Sue Cure. Springer
  • Kanski J. Oftalmologia clinica. Elsevier Masso
  • Gislin Dagnelie, Visual Prosthetics: Physiology, Bioengineering, Rehabilitation, Springer Science & Business Media, 21 febbraio 2011, p. 398, ISBN 978-1-4419-0754-7.

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Triptofano e serotonina: alimenti, integratori e benefici

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Cos’è il triptofano?

Il triptofano (L-triptofano) è un amminoacido essenziale, ossia un nutriente che dev’essere assunto con l’alimentazione poiché il nostro corpo non è in grado di produrlo in modo autonomo.

Presente sia nelle proteine animali che in quelle vegetali, una volta assunto viene trasformato in 5-HTP (5-idrossitriptofano) e quindi in

  • serotonina, coinvolta nel ritmo sonno-veglia e nella regolazione del tono dell’umore,
  • melatonina, importante per il sonno,
  • vitamina B3 (nicotinamide), essenziale per il metabolismo [1].
Fotografia di mani che tengono alcune compresse di un integratore e formula chimica del triptofano

iStock.com/AndreaObzerova; Molecola: L’utente che ha caricato in origine il file è stato Paginazero di Wikipedia in italiano – Trasferito da it.wikipedia su Commons., Pubblico dominio, Collegamento

Alimenti: dove si trova?

Le fonti principali [4] di triptofano sono

  • cioccolato,
  • frutta secca (in particolare noci e mandorle),
  • semi (sesamo, girasole, zucca),
  • cereali,
  • legumi,
  • carne (pollo, tacchino),
  • pesce (sogliola, salmone),
  • uova,
  • latticini.

Metabolismo

Una volta introdotto con l’alimentazione viene metabolizzato principalmente attraverso due vie:

  • via delle chinurenine,
  • via del 5-idrossi indolo.

Esiste in realtà anche una terza via, ad opera della flora batterica intestinale, attraverso la quale vengono prodotti metaboliti quali

  • indolo,
  • triptamina,
  • scatolo.

La via delle chinurenine è quella più rilevante, attraverso la quale viene metabolizzato il 95% del triptofano introdotto con la dieta. Per mezzo di questa via metabolica avviene la produzione di vitamina B3 e di altri metaboliti attivi, quali l’acido chinolinico e chinurenico, coinvolti nella neuromodulazione eccitatoria e nella funzione immunitaria, oltre al NAD+, coinvolto nelle reazioni metaboliche di ossidoriduzione [2, 3].

La via del 5-idrossi indolo è invece quella che porta alla formazione della serotonina e della melanina.

Per completezza di informazione, ricordiamo che la serotonina prodotta a livello cerebrale rappresenta solo una piccola frazione della serotonina circolante nel corpo: la maggior parte di essa (il 95%) viene infatti prodotta a livello intestinale (dalle cellule enterocromaffini e da alcuni neuroni del sistema nervoso enterico), dove ha funzione regolatoria delle secrezioni e della motilità. Questo spiega la stretta correlazione tra sistema nervoso centrale e sistema nervoso enterico (riconosciuto ormai anche dalla comunità scientifica come il nostro “secondo cervello”) e la loro interdipendenza; appare quindi chiaro il perché alterazioni a carico di uno dei due abbiano effetti sull’altro (si pensi a come lo stress psicologico abbia spesso effetti importanti a livello intestinale e, viceversa, a come disturbi intestinali abbiano spesso ripercussioni sull’umore).

Triptofano e insonnia

È noto in letteratura che la carenza nutrizionale di triptofano può condurre a sviluppare disturbi del sonno e che, al contrario, gli alimenti che innalzano i livelli plasmatici di triptofano hanno effetto positivo su qualità e durata del sonno.

Il triptofano come integratore si è dimostrato un buon ipnoinducente (sostanza in grado di indurre il sonno) in numerosi studi, riducendo il tempo di attesa del sonno, la durata e le interruzioni notturne.

È tuttavia necessario sottolineare che i meccanismi che regolano il sonno negli esseri umani non sono ancora del tutto noti e lo stesso coinvolgimento di triptofano e serotonina potrebbe essere più complesso di quanto si creda [5,6].

Per questa ragione, secondo quanto riportato sul sito del National center for Complementary and Integrative Health [7], le evidenze scientifiche risultano tuttora insufficienti per raccomandare l’utilizzo del triptofano come rimedio di prima scelta per l’insonnia. Secondo lo stesso ente gli studi esistenti sono ancora troppo limitati e necessitano di ulteriori approfondimenti.

Triptofano e depressione

Il triptofano, essendo precursore biochimico della serotonina, può determinarne un aumento a livello cerebrale: per questa ragione numerosi studi hanno sondato la possibilità di integrare triptofano per agire sulle patologie correlate a una diminuzione dei livelli di serotonina, tra cui la depressione.

Secondo quanto riportato sul sito del National Center for Complementary and Integrative Health [8], alcune ricerche suggeriscono che l’integrazione di un metabolita del triptofano, il 5-HTP (5-idrossitriptofano), possa avere effetti positivi sulla depressione, paragonabili a quelli di alcuni farmaci in uso. Il 5-HTP agirebbe direttamente a livello centrale, aumentando la produzione di serotonina.

Il 5-HTP nei prodotti in commercio viene ottenuto dai semi di una pianta africana, la Griffonia simplicifolia, ed è pubblicizzato per

Le evidenze scientifiche ad oggi disponibili riguardano, come riportato in precedenza, solo la possibile efficacia come antidepressivo, mentre in riferimento alle altre patologie i risultati sono ancora insufficienti.

Secondo un lavoro di revisione pubblicato dalla Cochrane, sia il triptofano che il suo metabolita 5-HTP avrebbero mostrato effetti superiori al placebo nel migliorare i sintomi legati alla depressione in un paio di studi randomizzati controllati. Dato il numero limitato di pazienti (64 in totale) coinvolti nei due studi, tuttavia, i risultati non possono ancora essere considerati conclusivi [9,10].

Dose, effetti collaterali e interazione con farmaci

La dose quotidiana raccomandata per un adulto è stimata intorno ai 250-425 mg, corrispondente a 3,5-6,0 mg/Kg/die [2,11].

Negli ultimi 50 anni, tuttavia, si è registrato un uso di triptofano come integratore in dosi ben superiori al fabbisogno nutrizionale, nel tentativo di aumentare la serotonina a livello cerebrale (di cui, ricordiamo, il triptofano è il precursore) e quindi ottenere un miglioramento del tono dell’umore e/o dell’insonnia. Tuttavia l’ingestione di triptofano non ne aumenta la concentrazione solo a livello cerebrale, ma anche in altri distretti, primo fra tutti quello intestinale e, soprattutto, determina di conseguenza il potenziale aumento dei suoi metaboliti – alcuni dei quali hanno azione eccitatoria o comunque capaci di dare luogo a effetti collaterali indesiderati.

Mentre infatti non si conoscono effetti indesiderati direttamente imputabili al triptofano, la comparsa di

è imputabile all’aumento della produzione di serotonina, con conseguente sovrastimolazione dei recettori ad essa deputati [3].

Secondo quanto riportato sul sito di MedLine [1] si sono verificati anche casi di

Per completezza di informazione segnaliamo che in passato sono stati registrati casi di sindrome eosinofilo-mialgica inizialmente attribuiti all’assunzione di triptofano; la sindrome eosinofilo-mialgica (EMS) è una condizione neurologica che si manifesta con sintomi quali

All’inizio degli anni 90 si era verificata una sorta di epidemia (1500 casi, di cui una trentina con esito fatale) di EMS in pazienti che facevano uso di elevate quantità di triptofano come regolatore del tono dell’umore, tanto che in via precauzionale il prodotto venne ritirato dal mercato. Si scoprì poi in seguito che il responsabile non era il triptofano, ma un agente contaminante: il triptofano venne quindi reintrodotto sul mercato a partire dal 1994 [1, 12].

Si sconsiglia l’uso di integratori di triptofano in gravidanza, salvo diverso parere medico.

Se ne sconsiglia altresì l’uso in associazione con farmaci antidepressivi o sedativo-ipnotici (lorazepam e affini), perché in grado di potenziarne l’effetto o causare un eccessivo aumento dei livelli cerebrali di serotonina, con il rischio di comparsa di sintomi gravi (confusione, tremori, agitazione).

Fonti e bibliografia

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Muco e catarro: colore, sangue ed altre caratteristiche

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Introduzione

Il muco (anche detto “catarro” o più propriamente espettorato o flegma) è un secreto più o meno denso, prodotto dalle ghiandole della mucosa respiratoria allo scopo di:

  1. Lubrificare le membrane epiteliali del sistema respiratorio.
  2. Svolgere una funzione di protezione, intrappolando agenti patogeni per evitarne la penetrazione nell’organismo.
  3. Mantenere la giusta umidità all’interno delle cavità nasali.

Questo secreto, di consistenza viscosa, risulta costituito principalmente da:

  • acqua,
  • sali,
  • lipidi,
  • anticorpi,
  • glicoproteine,
  • enzimi antisettici (in grado di fornire una primaria protezione contro le infezioni).

Il quantitativo di muco prodotto da queste ghiandole può aumentare e assumere colorazioni e consistenze differenti in base all’instaurarsi di molteplici condizioni patologiche; può infatti presentarsi:

  • trasparente (in condizioni di normalità),
  • bianco (può essere presente normalmente, ma anche in corso di allergie, infezioni batteriche, asma, BPCO e irritazioni bronchiali di diversa natura),
  • rosso (in caso avvenga una rottura di capillari con conseguente stravaso emorragico o in corso di bronchiti, varici del setto nasale, riniti e rino-sinuti),
  • verde (se sono presenti infezioni batteriche o infezioni protratte nel corso del tempo),
  • giallo (in corso sinusiti fungine o di infezioni in grado di determinare una congestione nasale medio-intensa).

In presenza di un aumento della secrezione si associano spesso ulteriori sintomi:

Il colore del muco nasale, dunque, insieme a variazioni della sua consistenza o in presenza di odori sgradevoli, può risultare un valido indicatore del nostro stato di salute.

Donna che si soffia il naso

iStock.com/energyy

Muco trasparente

In uno stato di normalità il muco presenta un colore trasparente ed una consistenza piuttosto liquida; questa fluidità gli garantisce la possibilità di svolgere le funzioni di difesa nelle prime vie respiratorie.

Muco di colore bianco

In alcune condizioni cliniche il muco può variare la colorazione e diventare biancastro; a questa mutazione di colore si aggiunge generalmente anche un cambiamento nella consistenza della secrezione, che tende a diventare più densa e schiumosa;ciò è attribuibile al fatto che il muco nasale varia la propria composizione chimica e inizia a svolgere principalmente funzioni anti-infiammatorie.

In questi casi l’aumento della produzione di secreto denso, può comportare un’ostruzione delle vie respiratorie con comparsa di:

come accade principalmente in corso di:

Muco di colore rosso

Una rottura dei capillari (i piccoli vasi sanguigni deputati agli scambi metabolici che avvengono tra il sangue e il fluido interstiziale localizzato tra le cellule) può determinare, soprattutto in presenza di secchezza o scarsa lubrificazione delle pareti interne delle cavità nasali, un colore rosso o rosato del muco.

Ciò accade perché soffiando il naso aumenta la pressione esercita su questi capillari, che possono quindi andare incontro a rottura, determinando un piccolo stravaso emorragico.

Altre condizioni cliniche, più preoccupanti, che possono determinare la comparsa di una secrezione di questo colorito, sono:

  • varici del setto nasale;
  • infiammazioni locali (riniti e rino-sinusiti).

Muco di colore verde

Il colore verdognolo del muco nasale, in presenza di una consistenza appiccicosa e di odore sgradevole e pungente, può essere indicativo, in primo luogo, della presenza di:

  • infezioni virali o batteriche,
  • infiammazioni protratte nel corso del tempo,
  • gocciolamento retronasale.

Il colore è legato alla presenza di una sostanza rilasciata dai globuli bianchi in difesa dell’organismo e, a differenza di quanto spesso si è portati a pensare, non sempre una colorazione verde è indicativa di un’infezione batterica.

Il pus prodotto nel corso di queste condizioni cliniche può infatti ristagnare nel tratto bronchiale ed entrare in contatto con il catarro, conferendogli questa colorazione e questo odore fetido.

Questa secrezione muco-purulenta è tipica, per esempio, di:

  • bronchite putrida,
  • ascesso polmonare,
  • gangrena polmonare.

Muco di colore giallo

Il colore giallo del muco nasale può essere attribuibile a diverse patologie che determinano, anche in questo caso, una variazione della sua consistenza (tende infatti a diventare più denso e, in alcuni casi, ad avere un odore sgradevole).

Si configurano, dunque, quadri clinici di differente gravità, che sono in grado di conferire alla secrezione questa colorazione.

Ricordiamo ad esempio:

  • Rino-sinusite, determinata da diversi fattori, ma principalmente da funghi, virus o batteri che sono presenti nell’ambiente e che determinano un aumento del quantitativo di ferro presente nella composizione del muco (e a cui si deve il colore giallognolo del muco).
  • Congestione nasale medio- intensa, dovuta ad un’influenza o raffreddori protratti nel corso del tempo, che determino una sovrapproduzione di muco di questo colore.
  • Costipazione delle vie aeree e delle cavità nasali (in questo caso potrà essere presente anche tosse grassa, con l’obiettivo da parte dell’organismo di rimuovere il catarro in eccedenza).

Rimedi

A prescindere dalla causa, per favorire l’espulsione del muco possono essere adottati alcuni rimedi:

  • Inalazione di vapori: inalare i vapori di acqua bollente (suffumigi), a cui possono essere aggiunti oli essenziali (soprattutto di pino, mugo, eucalipto e timo) può avere un effetto disinfettante e favorire lo scioglimento del catarro.
  • Assumere liquidi e favorire il mantenimento della corretta idratazione; sono consigliate, in particolar modo, bevande calde come:
    • caldo con miele e limone (aiuta a lenire l’infiammazione delle vie aeree e svolge funzioni antisettiche e di rafforzamento delle difese immunitarie, grazie al contributo della vitamina C ricavata dal limone).
    • Acqua calda con zenzero e cannella (anche lo zenzero ha proprietà antibatteriche).
    • Latte e curcuma (bevanda con proprietà antisettiche e di rafforzamento del sistema immunitario).
    • Tisane a base di erbe dalle proprietà espettoranti, come:
      • liquirizia,
      • timo,
      • lavanda
      • e menta.
  • Effettuare gargarismi a base di acqua e sale: il sale disciolto nell’acqua calda può lenire e contribuire all’attività anti-batterica in corso di infezioni alla gola.
  • Effettuare sciacqui/irrigazioni nasali (sempre a base di soluzioni saline).
  • Soffiare il naso regolarmente (per evitare il ristagno delle secrezioni), senza mai applicare eccessiva pressione per evitare la rottura di capillari ed ottenere un effetto rebound di congestione.
  • Evitare di fumare (è noto, infatti, che il fumo favorisca ulteriormente l’irritazione e l’infiammazione delle vie respiratorie).
  • Tenere conto delle variazioni ambientali (il sole forte e il freddo pungente possono infatti contribuire all’irritazione delle vie respiratorie, mentre è consigliabile stare al caldo, in un ambiente non umido, ma asciutto).

Trattamento

Prima di attuare qualunque tipo di trattamento, in presenza di variazioni nel colore, nell’odore o nella consistenza del muco nasale, è sempre opportuno rivoglersi ad un medico, che sarà in grado di stabilire la causa alla base di questa condizione e quindi l’intervento terapeutico più appropriato.

Nella maggior parte dei casi, infatti, colorazioni gialle o verdastre di questa secrezione, sono attribuibili ad un’infezione respiratoria oppure a sinusiti ed è opportuno stabilire se è la causa sia di natura virale o batterica, prima di assumere antibiotici o altri farmaci che potrebbero rivelarsi altrimenti poco efficaci.

Fonti e bibliografia

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Iniezioni, le domande più frequenti

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Come fare per ridurre al minimo il dolore durante un’iniezione?

Per ridurre il disagio per il paziente durante un’iniezione si consiglia di:

  • Riscaldare leggermente la fiala del farmaco tenendola tra le mani prima di aspirare il farmaco nella siringa.
  • Nel caso di un’iniezione intramuscolare rimuovere tutte le bolle d’aria nella siringa prima dell’iniezione.
  • Attendere che la soluzione disinfettante usata per la pulizia della cute si sia asciugata completamente (almeno 5 secondi).
  • Inserire l’ago con un movimento rapido e deciso.
  • Mantenere per quanto possibile rilassati i muscoli nel distretto d’iniezione.
  • Non cambiare la direzione dell’ago mentre si entra o si esce.
  • Non riutilizzare lo stesso ago più volte (o a evidenti ragioni igieniche, la punta viene rovinata durante l’iniezione, rendendo quindi l’iniezione successiva più dolorosa).

Nel caso di bambini è eventualmente possibile (a giudizio del pediatra) fare un preventivo uso di creme anestetiche, per desensibilizzare l’area d’iniezione.

Cosa significa se si forma un livido nel sito di iniezione?

La formazione di un piccolo livido a seguito d’iniezione è una delle complicanze più comuni, ma tendenzialmente non è associata a problemi o rischi di sorta; generalmente si manifesta in seguito alla rottura di un vaso sanguigno causata dalla penetrazione dell’ago. Si tratta di una complicanza particolarmente frequente nei pazienti che assumono terapia anticoagulante.

Per ridurre la possibile comparsa di lividi, si consiglia di applicare una leggera pressione sul sito con un pezzo di garza o di cotone per qualche minuto dopo l’iniezione, ma senza sfregare.

Cosa succede se non si espelle l’aria dalla siringa?

Iniezioni sottocutanee

Le siringhe preriempite di farmaci atti alla somministrazione sottocutanea contengono, in alcuni casi, una bolla d’aria all’interno del cilindro. Quest’ultima ha un ruolo ben preciso, che consiste nello scollare adeguatamente i tessuti sottocutanei al fine di garantire il corretto assorbimento del farmaco iniettato.

Nel caso in cui, prima di effettuare un’iniezione sottocutanea, venisse espulsa l’aria dalla siringa preriempita, nel tessuto sottocutaneo non verrebbe a crearsi lo spazio necessario all’adeguato assorbimento del farmaco somministrato. Il rischio in questo caso consiste nella formazione di ecchimosi o lievi ematomi nel sito di iniezione.

Cercando di eliminare l’aria presente nella siringa si rischia inoltre di espellere accidentalmente anche parte del farmaco, alterandone così la dose; mantenendo invece la bolla d’aria contenuta nel cilindro della siringa preriempita è possibile garantire l’adeguato scollamento dei tessuti, così da permettere l’assorbimento completo e senza complicanze della corretta dose del farmaco.

È necessario tuttavia porre attenzione ad un particolare: non tutti i farmaci somministrabili per via sottocutanea necessitano della somministrazione contemporanea di una bolla d’aria; le siringhe preriempite di insulina (usate dai pazienti diabetici di tipo 1 e da alcuni di tipo 2), ad esempio, non contengono bolle d’aria, poiché il quantitativo di farmaco somministrato è minimo e non necessita di scollamento dei tessuti per essere assorbito correttamente. È dunque molto importante ricordare che non è necessario aspirare aria in maniera arbitraria quando nella siringa preriempita essa non è presente.

Iniezioni intramuscolari

Iniettare per errore piccole quantità di aria all’interno del muscolo non espone in genere il paziente a particolari rischi di salute; iniettando pochi millilitri di aria questa si localizzerà principalmente tra le fibre muscolari, causando una sensazione di piccoli scoppiettii dovuta alla compressione delle bollicine durante la contrazione muscolare.

Nel caso di quantità più importanti i rischi sono invece maggiori:

  • Il gas potrebbe essere trattenuto all’interno del muscolo, causando un pericoloso aumento di pressione che può ridurre l’afflusso di sangue innescando la cosiddetta sindrome compartimentale, a cui può seguire la morte del tessuto ed altre pericolose complicanze;
  • in alternativa il gas potrebbe farsi strada lungo il foro aperto dall’ago, fino a penetrare in circolo (vedi paragrafo dedicato all’iniezione endovenosa di aria).

Nel caso di siringhe preriempite (per esempio il vaccino antinfluenzale) non è invece mai presente aria, in quanto il farmaco iniettato si infiltra tra le fibre muscolari e non risulta necessario creare spazio tra queste con l’iniezione di aria.

Iniezioni endovenose

Iniettare grandi quantità di aria in vena può esporre il paziente a gravi rischi per la salute, a volte anche potenzialmente fatali.

Se minime quantità di aria non sono in grado di causare danni ostruendo il circolo (come le micro–bolle che possono formarsi nel deflussore di una flebo), all’aumento della quantità di aria iniettata e della velocità d’iniezione, crescono invece i rischi di sviluppare un embolismo venoso, una condizione potenzialmente fatale caratterizzata dall’ostruzione di un vaso sanguigno causata dalla presenza di una bolla d’aria; nel caso di pazienti con problemi cardiaci (congeniti o acquisiti) la dose tollerata può diminuire sensibilmente.

Devo verificare di essere in vena con l’aspirazione?

L’aspirazione durante la manovra di iniezione, nota anche come manovra di Lesser, è l’applicazione di pressione negativa prima dell’iniezione ed è descritta come l’azione di retrarre lo stantuffo della siringa per 5-10 secondi con lo scopo di garantire che il farmaco non sia inavvertitamente somministrato per via endovenosa (Dougherty & Lister 2011).

Ad oggi la manovra di Lesser non risulta avere sufficienti evidenze a suo supporto nella letteratura scientifica.

Risulta necessario, tuttavia, effettuare alcune precisazioni:

  • La manovra di Lesser risulta superflua e a volte anche lesiva nel caso di iniezione sottocutanea, in quanto il tessuto adiposo sottocutaneo è poco vascolarizzato e risulta dunque particolarmente raro poter pungere un vaso.
  • Nel caso invece di iniezione intramuscolare la manovra di aspirazione dovrebbe essere effettuata solo nel caso in cui si scelga come sede di iniezione la zona dorsogluteale, poiché in questa sede decorrono vasi di grande calibro, motivo per cui la probabilità di iniettare il farmaco in un vaso risulta molto più elevata. Per quanto riguarda le altre sedi di iniezione intramuscolare, non vi è evidenza che l’aspirazione con o senza il ritorno di sangue confermi la posizione dell’ago ed elimini la possibilità dell’iniezione intramuscolare all’interno di un vaso sanguigno.

Esistono ancora le siringhe di vetro riutilizzabili?

L’utilizzo di dispositivi in vetro riutilizzabili, ad oggi, non è raccomandato.

Esistono infatti numerose tipologie di dispositivi monouso in plastica che permettono di prevenire in maniera efficace il rischio infettivo, sostanzialmente più elevato nel caso in cui si utilizzi un dispositivo in vetro riutilizzabile il quale necessita di processi di sterilizzazione ripetuti.

Le siringhe in vetro riutilizzabili non sono più presenti sul mercato, ad esclusione di quanto riguarda il settore del collezionismo.

Esistono ancora i dispositivi per autosomministrarsi le iniezioni intramuscolo?

Ad oggi non sono presenti in commercio dispositivi per l’autosomministrazione di farmaci per via intramuscolare. Sono invece presenti in commercio penne predosate per la somministrazione sottocutanea di alcuni farmaci, tra cui l’insulina, per il trattamento del diabete insulinodipendente, e la follitropina, ormone utilizzato per la stimolazione ovarica nel trattamento dei disturbi della fertilità.

Lo scopo di questi dispositivi è quello di rendere più agevole, precisa e sicura la procedura di iniezione sottocutanea quando questa necessita di essere effettuata in maniera ripetuta e autonoma da parte del paziente.

Le iniezioni intramuscolari non hanno questa caratteristica, in quanto il loro impiego è generalmente limitato ad un breve periodo di tempo, motivo per il quale non sono presenti in commercio dispositivi per l’autosomministrazione.

Ci si può fare da soli un’iniezione sottocutanea in pancia?

La procedura di iniezione sottocutanea in sede addominale può essere eseguita in completa autonomia.

Un esempio di farmaco che viene generalmente autosomministrato in sede addominale è l’eparina a basso peso molecolare, farmaco utilizzato per la prevenzione degli eventi trombotici post chirurgici; una volta dimesso al domicilio, il paziente sottoposto ad intervento chirurgico deve generalmente proseguire per alcune settimane la terapia con eparina, che può essere autosomministrata in sede addominale periombelicale.

La tecnica più semplice da utilizzare per l’autosomministrazione è la tecnica della plica cutanea che, oltre ad essere di semplice esecuzione, è anche particolarmente sicura, poiché garantisce la corretta iniezione del farmaco nel tessuto sottocutaneo senza correre il rischio di raggiungere il tessuto muscolare.

Un'infermiera addestra un paziente all'autoniezione

iStock.com/Shinyfamily

Un’iniezione sottocutanea in pancia durante la gravidanza è pericolosa?

L’iniezione sottocutanea in sede addominale durante la gravidanza non è pericolosa, purché venga effettuata nella maniera corretta. Anche in questo caso la tecnica più adeguata è quella della plica cutanea.

È tuttavia possibile che, nelle fasi avanzate della gravidanza, risulti particolarmente difficile “pizzicare” la cute a causa del suo elevato grado di stiramento; in questo caso risulta più opportuno scegliere un’altra sede di iniezione, come ad esempio la zona antero – laterale della coscia, più facilmente accessibile e meno problematica per l’esecuzione della plica cutanea.

Posso disinfettare un ago e riutilizzarlo?

Gli aghi in commercio sono dispositivi monouso e pertanto non possono e non devono essere per alcuna ragione riutilizzati. La disinfezione, infatti, non è sufficiente a garantire la prevenzione del rischio infettivo nel caso in cui si riutilizzi un dispositivo monouso.

Inoltre, riutilizzare lo stesso ago comporta un’alterazione della sua struttura esterna poiché la punta tende a perdere l’affilatura e a piegarsi, assumendo una conformazione ad uncino. Ciò comporta un aumento della sensazione dolorosa durante l’iniezione e, in molti casi, anche la perdita di efficacia dell’iniezione stessa, poiché riutilizzando lo stesso ago si corre il rischio che il farmaco residuo dall’iniezione precedente cristallizzi nella porzione cava dell’ago, impedendo così la fuoriuscita della nuova dose.

Se cambio l’ago posso riutilizzare la stessa siringa?

Anche in questo caso parliamo di dispositivi rigorosamente monouso. Pur sostituendo l’ago, l’utilizzo di una siringa precedentemente utilizzata comporta un aumento esponenziale del rischio infettivo poiché viene a mancare il principio di sterilità che caratterizza i dispositivi monouso. Inoltre, riutilizzare la stessa siringa con farmaci diversi comporta interazioni tra molecole farmacologiche che in alcuni casi possono risultare dannose per la salute.

Fonti e bibliografia

  • L. White, G. Duncan, W. Baumle, Fondamenti di Infermieristica, principi generali dell’assistenza infermieristica, II edizione, Edises, 2013
  • L. Saiani, A. Brugnolli, Trattato di cure infermieristiche, II edizione, Idelson Gnocchi, 2014ù
  • S. Frassini, A. Silvestrini, S. Nicoletti, F. Riminucci, Aspirare o non aspirare durante l’esecuzione dell’iniezione intramuscolare: rituale o evidence-based?, Centro studi EBN Bologna, 2015
  • Dougherty, L. and Lister, S., The Royal Marsden Hospital Manual of Clinical Nursing Procedures, 8th Editi. John Wiley & Sons, 2011
  • P. Ferri, F. Davolio, N. Panzera, L. Corradini, D. Scacchetti, La somministrazione sottocutanea di eparina: semplice procedura operativa, numerose variabilità, Evidence GIMBE Foundation, 2012

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Moringa oleifera: benefici e controindicazioni

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Moringa oleifera, una piante dalle mille proprietà

La Moringa oleifera, nota anche come albero del rafano o albero delle bacchette (drumstick tree, per via della forma caratteristica dei suoi frutti), è una pianta originaria del nord est dell’India, poi diffusasi nelle regioni tropicali e subtropicali di Africa, sud-est asiatico, sud America e isole caraibiche.

Appartiene al genere delle Brassicacee, la stessa dei broccoli, con i quali condivide molte delle proprietà benefiche per la salute: oltre ad essere un cibo d’uso quotidiano nelle regioni d’origine, infatti, la Moringa è utilizzata da secoli per le sue proprietà curative (è conosciuta come “l’albero dei miracoli”). E ciò che è stato tramandato da queste culture sta diventando ora oggetto di ricerca scientifica, con le prime conferme sulle potenzialità curative di questa pianta.

Pianta Moringa oleifera con le tipiche bacchette

iStock.com/Gwengoat

La Moringa era nota già nelle civiltà più antiche: Egitto, Grecia, Roma e nella medicina ayurvedica indiana, solo per citarne alcune. Si narra che in India i guerrieri Maurian riuscirono ad opporsi all’avanzata delle truppe di Alessandro Magno nel 326 a.C., grazie alla forza derivante dall’uso quotidiano di un estratto di foglie di Moringa.

Dal punto di vista della composizione, la Moringa oleifera ha un profilo nutrizionale di tutto rispetto, tanto da meritarsi la definizione di “pianta più ricca di nutrienti mai scoperta” [1,2]: è infatti un’eccellente fonte di

  • proteine (30% nelle foglie essiccate, che contengono tutti gli amminoacidi essenziali),
  • acidi grassi (44% di acido alfa-linolenico),
  • vitamine (A, alcune del gruppo B, C, D, E, K),
  • minerali (Calcio, Ferro, Potassio, Magnesio, Manganese, Zinco),
  • fenoli,
  • steroli vegetali (beta-sitosterolo),
  • flavonoidi (quercetina),
  • isotiocianati (moringina).

Nella seguente tabella è riportato il contenuto di alcune vitamine e sali minerali nelle foglie fresche o essiccate di Moringa, confrontato con quello degli alimenti di riferimento più conosciuti: come si può vedere, il valore nutrizionale è indubbiamente elevato – e in misura maggiore nelle foglie essiccate, con la sola eccezione della vitamina C [2,4,8].

Foglie fresche Foglie essiccate Alimento di riferimento
Vitamina A 6,8 mg 18,9 mg Carote: 1,8 mg
Vitamina C 220 mg 17,3 mg Arance: 30 mg
Calcio 440 mg 2003 mg Latte: 120 mg
Potassio 259 mg 1324 mg Banana: 88 mg
Proteine 6,7 g 27,1 g Yogurt: 3,1 g
Tabella 1. Contenuto di nutrienti in 100 g di foglie fresche o essiccate di Moringa oleifera, confrontato con il contenuto in 100 g dell’alimento di riferimento comune

L’isotiocianato più caratteristico della moringa è la moringina (nome chimico: 4- (alfa-L-ramnopiranosilossi) benzil isotiocianato), che, al pari del sulforafano dei broccoli, possiede potenti effetti antinfiammatori e di protezione cellulare. Altro componente in comune con i broccoli è la quercetina, un flavonoide con attività antinfiammatoria, antivirale e antistaminica.

Moringa e malnutrizione: un’opportunità da sviluppare

Sin dalla fine degli anni ‘90 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) ha promosso la Moringa come integrazione alimentare per combattere il problema della malnutrizione [2]: tutte le parti della pianta sono edibili e ricche di nutrienti (foglie, radici, semi, corteccia, gemme, fiori e frutti); la Moringa presenta inoltre il grande vantaggio di fiorire durante la stagione secca, quando tutti gli altri vegetali diventano scarsamente reperibili [3].

Le foglie in particolare, ricche di vitamine, minerali e aminoacidi essenziali, sono raccomandate per le donne in gravidanza o in allattamento e per i neonati nelle zone ad elevato rischio di malnutrizione [4,5].

Nelle Filippine la Moringa è conosciuta come “Migliore amica delle mamme” per la sua capacità di aumentare la gettata lattea nelle donne in allattamento.

Una ricerca condotta in Burkina Faso nel 2013 ha evidenziato un significativo aumento di peso nei bambini malnutriti dopo somministrazione di un estratto secco in polvere di foglie di Moringa, rispetto al gruppo di controllo [6]. In un’altra ricerca condotta in India è stato somministrato un estratto secco di foglie di Moringa (da 15 a 30 g al giorno per 2 mesi) a bambini con grado I o II di malnutrizione: il 70% dei bambini al II stadio di malnutrizione è passato al primo (meno grave) e il 60% di quelli al primo stadio ha beneficiato di un significativo miglioramento della precedente carenza nutrizionale [7].

Benefici

Esistono innumerevoli testimonianze nella medicina tradizionale sul potere curativo della Moringa oleifera e un altrettanto elevato numero di ricerche scientifiche che, a partire dagli anni ’50, hanno cercato di approfondire e verificare tali proprietà. La Moringa è stata studiata per le sue applicazioni come

  • antibiotico,
  • antifungino,
  • antinfiammatorio,
  • antiepilettico,
  • antiossidante,
  • diuretico,
  • antipertensivo (contrasto alla pressione alta),
  • antiulcera (per l’ulcera peptica),
  • ipocolesterolemizzante (per abbassare il colesterolo alto),
  • ipoglicemizzante (per abbassare la glicemia),
  • epatoprotettore (a beneficio della salute del fegato),
  • stimolante cardiaco e circolatorio,
  • antitumorale.

Sfortunatamente molti di questi studi non sono stati condotti in modo sufficientemente rigoroso (randomizzati, contro placebo), oppure sono stati pubblicati su riviste semi-sconosciute – e quindi sfuggiti all’attenzione internazionale – oppure ancora si sono fermati alla sperimentazione in vivo su animali ma non sono proseguiti sull’uomo. Questo spiega anche la scarsa conoscenza della Moringa nella pratica medica occidentale, nella cui tradizione tale pianta è completamente assente.

Esistono tuttavia applicazioni per le quali la ricerca scientifica ha fornito prove tutto sommato solide: l’attività antibiotica è una di queste. Negli anni ‘50 tre università indiane identificarono nella Moringa un composto che chiamarono pterigospermina, in grado di dissociarsi dando origine in vivo a due molecole di benzil isotiocianato: quest’ultimo era un composto già noto all’epoca per le sue proprietà antibiotiche. Il gruppo di ricercatori non si fermò all’identificazione della pterigospermina, ma ne studiò l’attività antimicrobica, dando il via a una serie di studi successivi che portarono a confermare l’attività della Moringa contro una serie di batteri e funghi, compreso il ben noto Helicobacter Pylori, causa di gastriti e ulcere duodenali e fattore predisponente per il cancro allo stomaco [9].

L’attività antiepilettica dell’estratto etanolico delle foglie di Moringa è stata dimostrata in vivo su animali e così anche l’attività antidiabetica [10]. Per quest’ultimo potenziale impiego sono stati condotti anche studi sull’uomo, ma in numero ancora troppo limitato per poter trarre conclusioni. Stesso discorso per l’efficacia nel ridurre colesterolo e trigliceridi e per l’attività antiossidante e antitumorale [10, 11,12].

In definitiva, gli studi finora condotti non escludono le potenzialità terapeutiche della Moringa oleifera (anzi, quelli in vitro e su animali le confermano), ma richiedono approfondimenti e conferme attraverso la realizzazione di studi sull’uomo, che diano robustezza ai risultati preliminari finora ottenuti (e a quanto tramandato dalla medicina tradizionale) e possano aprire la strada all’utilizzo terapeutico degli estratti di Moringa [13].

Moringa, tra cosmetica ed ambiente

Esistono applicazioni interessanti della Moringa in altri campi oltre a quello nutrizionale-farmaceutico [14,15]:

  • in campo cosmetico, soprattutto come olio nei prodotti per capelli e in crema come antiossidante per la pelle e protettivo contro i raggi UV,
  • in campo ambientale per la purificazione delle acque: la farina di semi di Moringa, infatti, adsorbe batteri e contaminanti (compresi i metalli pesanti) inglobandoli in “fiocchi”, che poi precipitano al fondo e possono così essere facilmente allontanati. Una curiosità: nella valle del Nilo la moringa era conosciuta come “Albero che purifica”.

Controindicazioni ed effetti collaterali

Sulla base degli studi in vitro e in vivo (su animali e sull’uomo) le preparazioni a base di foglie di Moringa oleifera risultano sicure quando assunte secondo le modalità e i dosaggi comunemente utilizzati [16, 18].

Segnaliamo tuttavia che agli estratti di radice di Moringa sono attribuiti potenziali effetti abortivi: per questa ragione l’uso di radici e loro derivati è fortemente sconsigliato durante la gravidanza [17].

Come si usa?

Le foglie fresche si possono utilizzare crude come qualunque tipo di verdura per accompagnare le pietanze oppure si possono cuocere come si fa con gli spinaci.

I frutti si cucinano come i legumi o gli asparagi.

Moringa foglie e frutti

iStock.com/SUSANSAM

L’estratto secco di foglie in polvere (1 cucchiaino) si può aggiungere alle bevande o utilizzarlo per fare una sorta di tè. In alternativa può essere formulato in capsule o compresse (il dosaggio giornaliero è in genere di circa 5g di estratto secco).

Moringa il foglie ed in polvere

iStock.com/marilyna

È infine disponibile in forma d’integratore.

Fonti e bibliografia

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  8. Trees for Life International
  9. Moringa oleifera: A Review of the Medical Evidence for Its Nutritional, Therapeutic, and Prophylactic Properties. Part 1. Jed W. Fahey, Sc.D.
  10. Phytochemistry and Pharmacology of Moringa oleifera Lam. Paikra BK, Dhongade HKJ, Gidwani B. J Pharmacopuncture. 2017 Sep;20(3):194-200..
  11. Therapeutic Potential of Moringa oleifera Leaves in Chronic Hyperglycemia and Dyslipidemia: A Review. Mbikay M. Front Pharmacol. 2012 Mar 1;3:24
  12. The In Vitro and In Vivo Anticancer Properties of Moringa oleifera. Khor KZ, Lim V et al. Evid Based Complement Alternat Med. 2018 Nov 14
  13. Moringa oleifera: A review on nutritive importance and its medicinal application L. Gopalakrishnan, K. Doriya, D. SanthoshKumar. Food Science and Human Wellness Vol. 5, Issue 2, June 2016, Pages 49-56
  14. Moringa oleifera Seeds and Oil: Characteristics and Uses for Human Health A. Leone, A. Spada, A. Battezzati et al. Int J Mol Sci. 2016 Dec; 17(12): 2141.
  15. Moringa oleifera Leaf Extracts as Multifunctional Ingredients for “Natural and Organic” Sunscreens and Photoprotective Preparations. Baldisserotto A, Buso P et al. Molecules. 2018 Mar 15;23(3).
  16. Review of the Safety and Efficacy of Moringa oleifera. Stohs SJ, Hartman MJ. Phytother Res. 2015 Jun;29(6):796-804.
  17. PDR for Herbal Medicines, Fourth Edition
  18. Trees fo Life

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Crisi ipertensiva: cause, sintomi, pericoli. Cosa fare?

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Introduzione

Una “crisi ipertensiva” è una condizione caratterizzata da un brusco rialzo della pressione arteriosa che può instaurarsi ex novo, cioè improvvisamente, oppure complicare un’ipertensione arteriosa (pressione alta) persistente e pregressa, come si verifica nella maggior parte dei pazienti.

Questo marcato innalzamento pressorio non deve mai essere sottovalutato, specialmente nel caso in cui la pressione sistolica massima sia uguale o maggiore a 180 mmHg e/o quella diastolica superi i 120 mmHg, in quanto potrebbero venire danneggiati i vasi sanguigni, con conseguente incremento del rischio d’infarto cardiaco o eventuali danni d’organo.

In base all’entità del rialzo pressorio e alle sue conseguenze è possibile suddividere le crisi ipertensive in due grandi gruppi:

  • emergenze, ossia un evento improvviso ed imprevisto, la cui gravità espone il paziente ad un rischio fatale (in questo ultimo caso la pressione può raggiungere valori uguali o maggiori a 220\140 mmHg),
  • urgenze, condizioni di sofferenza ma che non espone ad un rischio immediato.

La differenza tra emergenza e urgenza è di grande rilevanza nella scelta dell’approccio terapeutico, che quindi varia a seconda dei singoli casi; un monitoraggio costante della pressione arteriosa e la corretta assunzione dei farmaci, in associazione ad una dieta sana e ad uno stile di vita equilibrato, possono tuttavia ridurre notevolmente l’insorgenza delle crisi ipertensive.

Una crisi ipertensiva è caratterizzata da valori superiori a 180/120.

iStock.com/Ralf Liebhold

Cause

Buona parte delle crisi ipertensive si osservano in pazienti che presentano una storia già nota di ipertensione (essenziale o senza causa apparente, ma anche secondaria ad altre malattie, principalmente vascolari o renali).

Tra le cause di crisi ipertensiva, vanno ricordate anche:

  • uso occasionale o abituale di droghe (anfetamine, cocaina, LSD, ecstasy),
  • ingestione di cibi contenenti tiramina (formaggi stagionati, vino rosso),
  • assunzione di alcuni farmaci impiegati nel caso di ansia o depressione (antidepressivi triciclici associati ad inibitori delle monoaminoossidasi),
  • autosospensione o riduzione di farmaci utilizzati dal paziente e prescritti per curare un’ipertensione già diagnosticata,
  • tumori del surrene (quali l’adenoma surrenalico o il feocromocitoma) non ancora diagnosticati,
  • sindrome di Cushing (come conseguenza dell’aumento dei livelli di cortisolo),
  • glomerulonefriti (malattie infiammatorie dei reni),
  • vasculiti,
  • porpora trombotica trombocitopenica,
  • stenosi delle arterie renali,
  • intossicazione da piombo.

Urgenze ed emergenze

Indipendentemente dalla causa, è possibile distinguere, nell’ambito delle crisi ipertensive, le urgenze dalle emergenze:

  • Nel caso di un’urgenza la pressione arteriosa può essere molto elevata (per esempio la pressione diastolica maggiore di 120\130 mmHg) senza tuttavia presentare segni di danno d’organo. Questo tipo di evenienza si verifica frequentemente in pazienti molto ansiosi o che dormono poco e non necessita, generalmente, di un intervento medico immediato per la riduzione dei valori di pressione arteriosa, nonostante sia auspicabile un costante monitoraggio del paziente.
  • Nel caso delle emergenze i valori pressori sono maggiori o uguali a 220\140 mmHg ed è molto più probabile l’istaurarsi di un danno d’organo acuto e progressivo (specialmente a carico di cuore, reni e cervello) che richiede un intervento immediato, mediante la somministrazione di farmaci che consentano la risoluzione immediata della crisi ipertensiva.

Sintomi

I sintomi che caratterizzano una crisi ipertensiva sono molteplici e possono variare, specialmente in relazione alle caratteristiche di urgenza/emergenza (e quindi ai valori pressori).

Nel caso la crisi ipertensiva abbia carattere di urgenza (almeno uno dei due valori superiore a 180/120 mmHg) potrebbero essere presenti:

  • mal di testa di intensità variabile,
  • vertigini,
  • dispnea (fame d’aria, fiato corto),
  • cardiopalmo (palpitazioni),
  • ansia,
  • angoscia,
  • arrossamento cutaneo,
  • oliguria (diminuzione della produzione di urine).

Le emergenze ipertensive (valori superiori a 220/140 mmHg) sono un’evenienza più rara ed interessano principalmente pazienti ipertesi che non seguono un’adeguata terapia, oppure possono essere la prima manifestazione di un feocromocitoma (tumore delle cellule cromaffini del surrene secernenti catecolamine) non ancora diagnosticato.

Nel caso di una crisi ipertensiva con carattere di emergenza possono insorgere complicazioni molto gravi (talvolta letali) come:

La gestione del paziente in questi casi è più complessa ed è necessario ridurre i valori di pressione arteriosa nel più breve tempo possibile.

Diagnosi

La diagnosi di una crisi ipertensiva è posta attraverso l’anamnesi e l’esame obiettivo del paziente; è necessario inoltre controllare:

  • valori pressori (per escludere immediatamente che si tratti di un’emergenza),
  • esami ematici (elettroliti, markers di danno renale e di danno cardiaco),
  • sedimento urinario,
  • ECG (tracciato elettrocardiografico),
  • TC encefalo (in pazienti con sintomi o segni neurologici).

Mediante l’esecuzione di questi approfondimenti diagnostici il medico può stabilire la strategia terapeutica più appropriata, tenendo conto principalmente della natura della crisi ipertensiva e della possibilità che abbia comportato un danno d’organo, comprendente, ad esempio:

  • encefalopatia ipertensiva,
  • preeclampsia ed eclampsia,
  • insufficienza ventricolare sinistra con edema polmonare,
  • dissezione aortica acuta,
  • insufficienza renale.

Cosa fare?

Secondo l’American Hear Association:

  • Se la pressione del sangue è 180/120 o superiore, attendere circa cinque minuti e riprovare. Se la seconda lettura è altrettanto elevata e non si verificano altri sintomi associati di danni agli organi bersaglio come dolore toracico, mancanza di respiro, mal di schiena, intorpidimento/debolezza, alterazioni della vista o difficoltà a parlare, si tratta di un’urgenza ipertensiva, che richiede di contattare immediatamente il medico per un aggiustamento dei farmaci in uso o una prima prescrizione; raramente richiede il ricovero in ospedale.
  • Se la lettura della pressione sanguigna è 180/120 o superiore e si verificano altri sintomi associati di danno agli organi bersaglio come dolore toracico, mancanza di respiro, mal di schiena, intorpidimento/debolezza, alterazioni della vista o difficoltà a parlare si tratta di emergenza ipertensiva, che richiede di rivolgersi immediatamente ad un Pronto Soccorso (chiamando il numero unico delle emergenze e non mettendosi alla guida).

Il trattamento, nel caso di un’urgenza, prevede l’attuazione di un regime di vigile attesa (possono non essere somministrati farmaci e si monitora il paziente attraverso controlli seriati della pressione arteriosa). E’ assolutamente da evitare una gestione autonoma da parte del paziente che preveda modifiche della terapia anti-ipertensiva in atto (ad esempio variazioni nell’orario di assunzione o nella dose dei farmaci presi abitualmente).

Nel caso di un’emergenza è invece previsto un intervento terapeutico volto a ridurre la pressione arteriosa media dal 20 al 25% in 1-2 ore; il raggiungimento di questo obiettivo prevede:

  • ricovero in unità di terapia intensiva;
  • utilizzo di farmaci endovena a breve durata d’azione (nitrati, fenoldopam, nicardipina, labetalolo). I farmaci orali non sono consigliati perché l’inizio della loro azione è variabile e la loro titolazione più difficoltosa.

Prevenzione

Non è sempre possibile prevenire l’insorgenza di una crisi ipertensiva, ma è fondamentale, per ridurre la possibilità che si verifichi,

Qualora si verifichino anomale variazioni della pressione arteriosa è bene non sottovalutare alcun sintomo e consultare al più presto un medico, affinché possa consigliare qual è la strategia terapeutica da adottare in base al singolo caso in esame.

Fonti e bibliografia

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Guaranà, a cosa serve? Proprietà ed effetti collaterali

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Cos’è il Guaranà?

La Paullinia Cupana, meglio nota come Guaranà, è una pianta nativa delle regioni del Sud America, in particolare delle regioni amazzoniche del Brasile, dove è conosciuta e utilizzata da centinaia di anni dalle popolazioni indigene come pianta curativa ed “elisir” di lunga vita.

La prima testimonianza sull’uso del Guaranà risale al 1669, quando, durante una spedizione in Amazzonia, il missionario gesuita João Felipe Bettendorf osservò che le popolazioni indigene facevano uso di una bevanda stimolante con effetti diuretici e proprietà terapeutiche contro

Il primo a descrivere il Guaranà come un vero e proprio farmaco fu il chimico e farmacista francese Louis Claude Cadet de Gassicourt, che nel 1817 pubblicò un articolo dove ne riportava gli effetti

  • per lo stomaco,
  • antipiretici,
  • antidiarroici,
  • afrodisiaci.

Successivamente il Guaranà fu introdotto nelle Farmacopee di Brasile, Messico, Stati Uniti e diversi Stati europei.

La parola guaranà significa “vite” in molti dialetti indigeni e si riferisce allo sviluppo caratteristico a “liana” di questa pianta in presenza di tronchi che le facciano da supporto; può raggiungere fino ai 10 m di altezza.

Circa il 70% della produzione di Guaranà del Brasile viene utilizzato per la preparazione di succhi e di bevande energetiche, mentre dal restante 30% si ricava la polvere di Guaranà, utilizzata in forma di capsule o soluzioni acquose per l’industria farmaceutica e cosmetica.

I semi di Guaranà essiccati e tostati contengono dal 2,5 al 6% di caffeina (da 2 a 5 volte più dei semi di caffè Arabica); negli estratti acquosi il contenuto è ancora maggiore, dal 9 all’11%. Nelle bevande gassate a base di estratto di Guaranà, il contenuto di caffeina varia da 8 a 56 mg per 100 ml (un espresso ne contiene mediamente 50-60 mg) [1].

Oltre alla caffeina e alle altre metilxantine (teofillina e teobromina), il guaranà contiene

  • tannini,
  • saponine,
  • catechine,
  • epicatechine,
  • proantocianidine,

in composizione molto simile a quella del tè verde e della yerba mate[2].

Frutto del guaranà

iStock.com/diogoppr

Proprietà terapeutiche

Il Guaranà è particolarmente noto per le sue proprietà tonico-stimolanti (dovute principalmente all’elevato contenuto di caffeina), ma accanto ad esse esistono altre interessanti proprietà terapeutiche oggetto di studio da parte della comunità scientifica. Diversi studi hanno infatti evidenziato come il Guaranà sia positivamente associato a

  • metabolismo lipidico (dei grassi),
  • perdita di peso,
  • aumento dell’energia basale,
  • effetti cardioprotettivi.

Obesità e sindrome metabolica

Alcuni studi hanno evidenziato come il Guaranà eserciti un effetto positivo sul metabolismo lipidico e sulla resistenza all’insulina (condizione predisponente allo sviluppo del diabete di tipo 2), aumentando il metabolismo basale e la perdita di peso: potrebbe quindi essere un buon candidato per la terapia dell’obesità.

In uno studio in vitro pubblicato nel 2017 [2] è stato evidenziato l’effetto del Guaranà sui geni coinvolti nel meccanismo dell’obesità: l’estratto ha dimostrato azione inibente nei confronti dei geni favorenti l’adipogenesi (Ppar-γ e Creb1) e stimolante nei confronti dei geni antiadipogenici (FoxO1, Gata3, Dlk1). In più l’estratto non si è dimostrato citotossico in nessuna delle concentrazioni utilizzate nello studio.

In uno studio in vivo su animali pubblicato nel 2019 [3] i ricercatori hanno seguito un campione di ratti Wistar per 18 settimane, alimentati con dieta a basso tenore di grassi o con quella standard occidentale, con o senza l’aggiunta di Guaranà: nel gruppo alimentato con dieta occidentale e Guaranà si è evitato l’aumento di peso e la resistenza all’insulina, rispetto a quanto avvenuto nel gruppo alimentato con la sola dieta occidentale. Il risultato pare sia dovuto all’azione diretta dell’estratto sul tessuto adiposo bruno – responsabile della termoregolazione e del controllo del peso.

Nel 2011 fu pubblicato il primo studio epidemiologico sugli effetti protettivi dell’assunzione cronica di Guaranà [4]. Lo studio riguardava 637 soggetti anziani (di età maggiore di 60 anni) della regione amazzonica, di cui 421 facevano abitualmente uso di bevande a base Guaranà, mentre i restanti 239 non ne avevano mai assunte. Il risultato dello studio fu l’osservazione di una minore incidenza di

nel gruppo dei consumatori abituali della pianta.

Inoltre, negli uomini si evidenziò una ridotta circonferenza addominale e nelle donne livelli di colesterolo (totale e LDL) più bassi, rispetto al gruppo che non faceva uso di Guaranà.

Malattie cardiocircolatorie, colesterolo e proprietà antiossidanti

Diversi studi epidemiologici hanno associato l’assunzione abituale di Guaranà ad una minore incidenza di malattie cardiovascolari e ad un effetto positivo sul metabolismo dei lipidi, soprattutto per quanto concerne il livello di colesterolo LDL (colesterolo cattivo) e il suo grado di ossidazione, che costituisce uno degli eventi iniziali del processo di aterosclerosi (processo di irrigidimento delle arterie) [5,10].

In uno studio brasiliano del 2013 sono stati usati campioni di sangue di soggetti anziani in buona salute, consumatori abituali di guaranà oppure non consumatori, per valutare se ci fossero differenze nel livello di ossidazione delle LDL: nel sangue dei consumatori abituali di Guaranà l’ossidazione delle LDL risultò inferiore del 27% rispetto ai non consumatori [6].

L’effetto antiossidante del Guaranà è probabilmente dovuto alla presenza di xantine (caffeina, teobromina, teofillina) e polifenoli (catechine, tannini) in modo analogo a quanto già ampiamente evidenziato negli studi epidemiologici sul consumo di tè verde, simile per composizione qualitativa [7].

È doveroso sottolineare che lo studio riportato, a detta degli stessi ricercatori, presenta un limite intrinseco, dovuto alla non conoscenza delle quantità di Guaranà assunte dagli individui oggetto dello studio, né dell’eventuale compresenza nella dieta di altri alimenti ad azione antiossidante.

Altri studi hanno evidenziato, sia in vitro che in vivo, la capacità antiaggregante piastrinica degli estratti di Guaranà [8,9]: anche in questo caso l’effetto è stato attribuito alle xantine e alle catechine presenti nella pianta.

Infine uno studio del 2016 ha evidenziato in vivo su animali la capacità di riduzione del colesterolo LDL da parte dell’estratto di Guaranà, in maniera paragonabile alla Simvastatina, uno dei farmaci più utilizzati in caso di ipercolesterolemia [11].

Aumento delle capacità fisiche e cognitive

Alcuni studi hanno evidenziato le capacità del Guaranà, da solo o in combinazione con il Ginseng, nel migliorare

  • attenzione,
  • memoria,
  • umore;

questo effetto potrebbe non essere dovuto solo alla presenza di caffeina, ma anche alle altre sostanze potenzialmente attive presenti nella pianta, tra cui

  • flavonoidi,
  • saponine
  • e tannini [1,12,13].

Diverse pubblicazioni sull’aumento delle performances sportive hanno altresì evidenziato effetti positivi del Guaranà, sebbene in questi studi non venga mai somministrato da solo ma in combinazione con complessi minerali o multivitaminici, rendendo così complicato isolare gli effetti dei singoli componenti.

Infine, studi recenti, alcuni dei quali realizzati in doppio cieco, hanno sottolineato come il Guaranà possa avere effetti positivi sulle abilità cognitive, in particolare su

  • capacità decisionali,
  • prontezza mentale,
  • memoria [12,13,14,15,16].

Supporto nella terapia antitumorale

La sindrome da stanchezza cronica (cancer-related fatigue o CRF in inglese) è un insieme di sintomi fisici e psichici che affligge un numero significativamente elevato (70-80%) di persone sottoposte a terapia antitumorale; la condizione può derivare dal tumore stesso oppure dagli effetti collaterali dei chemioterapici (anemia, disordini del metabolismo, difficoltà a nutrirsi, disturbi del sonno) o ancora essere legata allo stress psicologico conseguente la diagnosi e la terapia [22].

Sulla base dei risultati riportati in letteratura riguardanti l’effetto favorevole del Guaranà su umore e performance fisiche e cognitive, alcuni ricercatori hanno sperimentato l’impiego della pianta su pazienti con cancro al seno, sottoposte a chemioterapia e con sindrome da affaticamento. Lo studio [17] è stato realizzato in modo randomizzato, in doppio cieco versus placebo, su 75 pazienti, alla dose di 50 mg al giorno di estratto, per 21 giorni: il Guaranà si è dimostrato efficace nel trattamento a breve termine della CRF, unitamente al vantaggio dell’assenza di effetti collaterali avversi (disturbi del sonno, ansia o depressione).

Il Guaranà, tuttavia, possiede molecole che potrebbero interferire con la terapia farmacologica in atto, soprattutto la caffeina e le catechine: mentre per queste ultime esistono diversi studi che ne descrivono il potenziale effetto antitumorale in caso di cancro al seno, per la caffeina i risultati sono più controversi. Per questa ragione alcuni ricercatori hanno testato in vitro l’effetto del Guaranà su 7 differenti farmaci chemioterapici per la terapia del cancro al seno [18]. L’esperimento è stato condotto sulle cellule MCF-7, una linea cellulare altamente invasiva del carcinoma mammario umano, esposte a concentrazioni crescenti di Guaranà, con o senza la contemporanea presenza del farmaco antitumorale (nello studio sono stati analizzati gemcitabina, vinorelbina, metotrexate, 5-fluorouracile, paclitaxel, doxorubicina e ciclofosfamide). I risultati ottenuti hanno evidenziato un effetto antiproliferativo del Guaranà da solo e un altrettanto significativo aumento dell’attività del farmaco in presenza di Guaranà (con diminuzione di più del 40% di cellule tumorali dopo 72h).

Chiaramente questi risultati necessitano di conferme in vivo, ma sono da ritenersi senza dubbio incoraggianti, soprattutto in termini di eventuale riduzione del dosaggio del chemioterapico (e, di conseguenza, dei suoi effetti collaterali).

Dosi e precauzioni d’uso

L’FDA, l’ente regolatorio americano per la sicurezza di farmaci e alimenti, riconosce in generale il Guaranà come sicuro, anche se non ci sono informazioni specifiche sul dosaggio (se non quelle delle linee guida generali sul consumo di caffeina) e, soprattutto, molto spesso non se ne conosce il reale contenuto nei prodotti in commercio, bevande energetiche in primis [19].

A livello regolatorio non c’è unanimità nei vari paesi del mondo:

  • l’EMA (Agenzia Europea dei Medicinali) raccomanda un’assunzione giornaliera massima di 2 g di Guaranà in polvere;
  • l’ente regolatorio del Canada si spinge fino a 3 g;
  • l’FDA americana si riferisce solo al consumo di caffeina, raccomandando di non superare i 400 mg al giorno [21].

In seguito a ingestione eccessiva [20] di estratti di Guaranà sono stati riportati episodi di

È importante tenere presente che il contenuto di caffeina del Guaranà va a sommarsi a quello della caffeina già presente nelle bevande stesse: non di rado si verificano casi di eventi cardiovascolari o cerebrali avversi, successivi all’ingestione di elevate quantità di bevande energetiche. Per questa ragione è vivamente sconsigliata l’assunzione da parte di individui

  • ipertesi,
  • con patologie cardiache,
  • in cura con farmaci con azione sul sistema nervoso centrale (anticonvulsivanti, antiepilettici).

Fonti e bibliografia

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Sindrome di Tietze: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

La sindrome di Tietze è una patologia infiammatoria articolare benigna caratterizzata dalla presenza di dolore toracico e gonfiore della cartilagine attorno alle costole, in particolare nel punto di congiunzione con lo sterno; è una malattia rara, descritta per la prima volta nel 1921 dal chirurgo tedesco Alexander Tietze (1864–1927).

I segni e sintomi esordiscono in genere in pazienti con meno di 40 anni e, se in alcuni casi la sindrome può risolversi spontaneamente senza trattamento, altri soggetti lamentano fasi d’infiammazione alternate a periodi di completo sollievo.

I possibili approcci terapeutici prevedono tra le diversi opzioni

  • modifiche allo stile di vita (riduzione dell’attività fisica nelle fasi acute),
  • terapia del caldo/freddo,
  • farmaci antinfiammatori.

In quasi tutti i pazienti la prognosi è ottima, in particolar modo per coloro che si siano sottoposti a cure adeguate; qualora ciò non avvenga esiste il rischio che i pazienti alla lunga possano sviluppare un dolore persistente cronico e, in tal caso, trattare la patologia risulterebbe più difficoltoso e i tempi di guarigione molto più lunghi.

Cause

La sindrome di Tietze si sviluppa, solitamente, prima dei 40 anni, coinvolgendo indistintamente uomini e donne.

La causa alla base della comparsa della sindrome di Tietze è ad oggi sconosciuta, ma sono ovviamente state formulate diverse ipotesi; la teoria più accreditata suppone che piccoli traumi (i cosiddetti microtraumi) alla parete toracica, nel tempo, possano causare danno e conseguente infiammazione alle costole.

Questi microtraumi, non abbastanza severi per poter essere evidenziati visivamente, possono derivare da un evento improvviso, come un incidente d’auto o un intervento chirurgico, oppure svilupparsi in seguito a uno sforzo eccessivo come tosse e vomito ripetuti nel tempo.

In alcuni pazienti si è pensato che possa essere secondaria a infezioni virali o batteriche delle vie aeree superiori (faringite, laringite).

Non è considerata una patologia ereditaria.

Sintomi

I sintomi più comuni sono

  • il dolore,
    • graduale o improvviso,
    • variabile di intensità,
    • che può irradiarsi alla spalla e al braccio;
  • il gonfiore a livello della cartilagine articolare coinvolta, che può peggiorare con i colpi di tosse persistenti, starnuti o con l’esercizio fisico.

Talvolta, possono essere presenti anche segni dermatologici come arrossamento e prurito.

I sintomi riguardano la cartilagine delle articolazioni sternocostali (che collegano le prime sette costole alle sterno) e sterno-clavicolare (che collega una porzione della clavicola e la 1° costola con il manubrio dello sterno). Non tutte le zone vengono tuttavia interessate in egual modo dal processo infiammatorio, l’area maggiormente colpita è quella compresa tra la 2° e la 3° costola.

Gabbia toracica ed articolazioni costali

iStock.com/Graphic_BKK1979

Nella maggior parte dei casi il dolore si attenua dopo alcune settimane o mesi, mentre il gonfiore può persistere per più tempo.

Diagnosi

La diagnosi si basa principalmente sulla sintomatologia del paziente e su un accurato esame obiettivo, volto a fornire indicazioni più precise atte ad escludere altre patologie.

In caso di dolore toracico è necessario valutare

  • la modalità di insorgenza,
  • l’irradiazione in altre sedi anatomiche,
  • l’eventuale presenza di fattori o posizioni che favoriscano la comparsa o l’aumento del dolore (o che viceversa che lo riducano).

Spesso l’area infiammata è visibile, arrossata e dolente, ma l’aspetto più caratteristico è la presenza di gonfiore, che permette di escludere numerose patologie, tra cui la costocondrite.

Qualora la clinica non sia sufficiente ad identificare la causa precisa, il passo successivo prevede l’utilizzo d’indagini strumentali:

  • Elettrocardiogramma (ECG): eseguito per escludere un’eventuale malattia cardiaca, come un infarto del miocardio, per esempio.
  • Radiografia del torace: può escludere diverse patologie, ma che tuttavia spesso non fornisce informazioni sufficienti per identificare la sindrome di Tietze.
  • Ecografia: probabilmente l’esame più accurato e allo stesso tempo meno invasivo, che permette di evidenziare il gonfiore dei tessuti molli laddove il processo infiammatorio sia in corso.

Nel caso in cui persistano dubbi, in particolare nella differenziazione tra sindrome di Tietze e costocondrite, si può ricorrere alla risonanza magnetica (RM) che mostra in modo accurato la natura del processo infiammatorio, riuscendo a distinguere con precisioni tutte le strutture anatomiche coinvolte.

Diagnosi differenziale

Diverse sono le patologie che possono causare dolore toracico, che tuttavia può assumere caratteristiche diverse e, soprattutto, essere associato a rischi di diversi entità.

La malattia che più si avvicina alla sindrome di Tietze è la costocondrite, un’infiammazione a carico delle cartilagini costali che si manifesta con dolore a livello toracico, ma che tuttavia presenta alcune importanti differenze:

Costocondrite Sindrome di Tiezte
Prevalenza Più frequente, tende anche a svilupparsi dopo i 40 anni Compare in genere prima dei 40 anni
Gonfiore Assente Presente
Articolazioni coinvolte, solamente un’articolazione, invece, nella sindrome di Tietze. Multiple, ma da un solo lato Solo una

Tra le ulteriori malattie in grado di causare sintomi simili a quelli osservati nella sindrome di Tietze sono:

  • spondiloartropatie sieronegative (artriti infiammatorie che si sviluppano in individui geneticamente predisposti),
  • fibromialgia,
  • tumori (il linfoma può causa dolore toracico e gonfiore).

Se ad esordire è un un dolore molto intenso e improvviso la condizione entra infine in diagnosi differenziale con un infarto del miocardio, per tale motivo, nel momento in cui la clinica e l’esame obiettivo al paziente non risultino sufficienti, sono necessari ulteriori approfondimenti mediante esami strumentali.

Rimedi e terapia

Non esistono ad oggi linee guida cui fare riferimento per l’individuazione di terapia univoca per la sindrome di Tietze; per il sollievo dal dolore vengono innanzi tutto utilizzati i cosiddetti metodi di trattamento conservativo, che includono il riposo per un breve periodo di tempo con astensione dall’attività fisica.

In associazione possono essere prescritti farmaci analgesici come il paracetamolo (Tachipirina) o farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), come l’ibuprofene, il naprossene o l’aspirina. Anche l’utilizzo di impacchi di ghiaccio da apporre sulla zona coinvolta, possono essere utili ad alleviare il dolore.

Nel caso in cui i suddetti farmaci non dovessero portare i benefici sperati, si può optare per altre soluzioni, una delle più efficaci si è dimostrata essere l’iniezione di lidocaina (utilizzato come anestetico locale) in associazione ai corticosteroidi. Quest’ultimi, nonostante siano tra i farmaci più efficaci se assunti per via orale, posso presentare, soprattutto se utilizzati per lunghi periodi, diversi effetti collaterali, in particolar modo per soggetti già colpiti da altre patologie croniche. Per questa ragione si tende quindi a preferirne l’utilizzo tramite iniezione locale.

La durata della terapia non è quantificabile ed è variabile in ogni paziente.

Se il dolore si riduce nel giro di diversi giorni/settimane, il gonfiore può persistere per più tempo.

Fonti e bibliografia

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Gastrite atrofica autoimmune e da HP: sintomi e cura

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Cos’è la gastrite atrofica?

La gastrite atrofica è un’infiammazione cronica della mucosa dello stomaco, accompagnata da riduzione fino a scomparsa delle ghiandole gastriche ossintiche dello stomaco e la loro graduale sostituzione

  • con tessuto fibroso (non metaplasia) e/o
  • con ghiandole normalmente presenti nell’intestino o nel piloro (metaplasia intestinale o pseudopilorica).

Tale evento si verifica in un lasso di tempo lungo.

Analizziamo un pezzo alla volta la definizione, per comprenderne meglio il significato:

  • cronica: significa che l’infiammazione si protrae per tempi lunghi, tipicamente per sempre o quasi;
  • scomparsa delle ghiandole gastriche ossintiche: queste cellule sono responsabili della produzione di acidi gastrici ed altri fattori digestivi; la loro sostituzione con altri tipi di tessuto è la ragione alla base della comparsa dei sintomi della condizione.

La gastrite atrofica può essere di grado

  • lieve,
  • moderato
  • o severo

e può localizzarsi

  • nell’antro (parte terminale),
  • nel corpo (parte centrale)

o in entrambe le sedi dello stomaco (si parlerà in questo caso di pangastrite).

L’infiammazione della mucosa gastrica può essere la conseguenza di un’esposizione a diversi insulti di varia natura: l’infezione da Helicobacter pylori (HP) è la più comune, seguono con minor frequenza reazioni autoimmunitarie o di ipersensibilità.

Come funziona lo stomaco

Lo stomaco è un organo mobile, posto al di sotto del diaframma, distinto in 5 parti:

  • cardias,
  • fondo,
  • corpo,
  • antro,
  • ed infine piloro.
Anatomia semplificata dello stomaco

iStock.com/ttsz

Se analizziamo il tipo di tessuto scopriamo che è formato da:

  • epitelio di superficie, distribuito in tutto lo stomaco, costituito da cellule che producono muco e bicarbonati,
  • ghiandole gastriche che variano in rapporto alle diverse regioni dello stomaco, in particolare:
    • le ghiandole cardiali producono muco e si trovano nell’antro,
    • le ghiandole ossintiche si trovano nel fondo e nel corpo e sono formate da vari tipi di cellule, cioè
      • cellule parietali (producono acido cloridrico e fattore intrinseco),
      • cellule principali (producono pepsinogeno)
      • e cellule enterocromaffini (producono istamina),
    • le ghiandole antrali, costituite da cellule G (producono gastrina) e cellule D (producono somatostatina) e si trovano nell’antro.

Lo stomaco inoltre è composto da

  • muscoli, distribuiti in 3 strati,
  • e da una fitta rete di vasi sanguigni e nervi regolati da un’area pacemaker costituita dalle cellule interstiziali di Cajal con attività elettrica autonoma che si trovano nel corpo.

Grazie a questa complessa struttura, il nostro stomaco svolge 3 importanti funzioni:

  • attività secretiva,
  • attività motoria,
  • attività antibatterica.

Cause

La gastrite atrofica può essere classificata in

  • gastrite atrofica di tipo A su base auto-immunitaria,
  • gastrite atrofica di tipo B su base infettiva (correlata all’infezione da Helicobacter Pylori).

La gastrite atrofica di tipo A è essenzialmente presente nel corpo e nel fondo dello stomaco; è causata da un processo autoimmune, per cui le cellule parietali gastriche subiscono un’aggressione da parte di auto-anticorpi, proteine prodotte dall’organismo che attaccano per errore le cellule gastriche. Tale forma di gastrite atrofica può avere un carattere ereditario, trasmesso dai genitori in maniera autosomica dominante.

La gastrite atrofica di tipo B è la forma più comune di gastrite atrofica ed è nella maggior parte dei casi localizzata all’antro dello stomaco, non associata a disturbi; solo in una minore percentuale è multifocale, cioè si sviluppa in varie parti dello stomaco (antro, corpo e fondo) ed è causa di disturbi.

L’HP è un batterio scoperto nel 1982 da due ricercatori australiani, Warren e Marshall, responsabile di una delle infezioni più diffuse nel mondo, specie nei Paesi in via di sviluppo, con trasmissione fecale orale (ingestione di acqua contaminata) e oro-orale. Si tratta di un patogeno dotato di particolare trofismo per l’epitelio dello stomaco.

L’infezione da HP causa innanzitutto una gastrite acuta che, se non viene curata eradicando con gli antibiotici il batterio, diventa cronica e si caratterizza per un’attiva presenza di un infiltrato infiammatorio costituito da cellule neutrofile, linfocitiche e plasmacellule (gastrite cronica attiva); se il batterio viene ucciso con terapia medica si passa ad una forma di gastrite cronica quiescente e solo in una piccola parte delle persone infettate può progredire verso forme di aggressive quali

e raramente cancro gastrico o linfoma gastrico.

Tra i possibili fattori di rischio predisponenti allo sviluppo di gastrite atrofica ricordiamo:

  • età avanzata superiore ai 45-50 anni,
  • familiarità di I grado per cancro gastrico,
  • popolazione asiatica o del Sud America.

Sintomi

Non sempre i pazienti con gastrite cronica atrofica manifestano disturbi, anzi, il più delle volte è possibile che la malattia decorra in modo asintomatico per lungo tempo, o al limite causi sintomi dispeptici aspecifici.

La maggior parte dei pazienti con gastrite atrofica correlata ad un’infezione da HP è clinicamente silente; solo un 20-30% dei casi può manifestare una sindrome dispeptica caratterizzata da:

  • dolore epigastrico (alla bocca dello stomaco) che spesso si attenua mangiando,
  • dolore epigastrico a digiuno,
  • sensazione di ripienezza eccessiva dopo un pasto,
  • sazietà precoce,
  • gonfiore addominale.

Questi sintomi non sono specifici di gastrite.

In altri casi la gastrite cronica atrofica correlata all’infezione da HP può manifestarsi con la comparsa di anemia, che può presentarsi in due diverse forme:

In entrambi i casi la gastrite atrofica è estesa al corpo/fondo dello stomaco, laddove ci sono le cellule gastriche produttrici di secrezione acida e di fattore intrinseco, essenziali per l’assorbimento della vitamina B12 e del ferro.

Un danno infiammatorio a carico di queste cellule dunque può essere causa di malassorbimento della vitamina B12 ed essere responsabile dello sviluppo di anemia perniciosa, caratterizzata da

La gastrite atrofica inoltre può associarsi ad un malassorbimento del ferro; la quota che assumiamo con la dieta deriva per un 20% dalla carne (ferro emico) e per un 80% da cereali, verdure, legumi e frutta (ferro non-emico).

La secrezione acida gastrica, insieme alla vitamina C, ha un ruolo essenziale nell’assorbimento del ferro non-emico perché ne permette la trasformazione dalla forma ferrica (non assorbibile) alla forma ferrosa (assorbibile). L’infiammazione cronica della mucosa gastrica, associata all’Helicobacter Pylori, può portare ad una riduzione della secrezione acida dello stomaco e dell’acido ascorbico contenuto nei succhi gastrici, con conseguente anemia sideropenica caratterizzata da:

Complicazioni

I pazienti con gastrite atrofica sono a rischio di sviluppare il cancro allo stomaco.

Secondo quanto confermato da numerosi studi esiste un modello di progressione ben preciso, noto come cascata di Correa, per cui una mucosa gastrica normale può trasformarsi in cancro. In particolare sono state identificate delle tappe per cui si può osservare in un arco di tempo, più o meno lungo, come una mucosa gastrica normale può sviluppare prima:

  • una gastrite cronica non atrofica

e poi con il passare degli anni

  • una gastrite cronica atrofica, quindi
  • una metaplasia intestinale che può diventare una displasia
  • ed infine cancro.

Queste tappe sono sequenziali ed obbligate.

Per fortuna solo una piccola parte di pazienti con gastrite cronica atrofica ha un più alto rischio di sviluppare un cancro allo stomaco (carcinoma nel tipo B, o carcinoidi nel tipo A di gastrite cronica atrofica). L’incidenza annua complessiva è pari allo 0,1% di tutti i pazienti con gastrite cronica atrofica. I pazienti a maggior rischio sarebbero quelli con:

  • estesa gastrite atrofica (stadi III-IV secondo il sistema OLGA)
  • e distribuzione della gastrite atrofica sia all’antro che al corpo (pangastrite).

Questi pazienti sono meritevoli di controlli endoscopici periodici per il rischio di evoluzione verso lesioni gastriche più gravi, quali la displasia (che costituisce la più severa lesione precancerosa gastrica) anticamera del cancro allo stomaco.

Diagnosi

L’esame principale per la diagnosi di gastrite atrofia è l’esofagogastroduodenoscopia (ESGD o gastroscopia) con biopsie ed esame istologico. L’esame istologico è indispensabile per la diagnosi di gastrite atrofica e per differenziarla da una gastropatia (su base non infiammatoria) o altro. Per giungere ad una diagnosi corretta è essenziale che le biopsie siano:

  • multiple, ossia occorrono più prelievi di mucosa gastrica,
  • ubiquitarie, ossia vengano effettuate in tutte le parti dello stomaco.

Dal momento che la gastrite atrofica ha spesso una distribuzione “a chiazze” nello stomaco, sono raccomandate 5 biopsie (secondo il Sistema di Sidney ), cioè:

  • 2 biopsie a livello dell’antro (una lungo la grande ed una lungo la piccola curva gastrica),
  • 1 biopsia a livello dell’incisura angularis,
  • 2 biopsie nel corpo (una lungo la grande ed una lungo la piccola curva gastrica).

Ulteriori biopsie devono inoltre essere eseguite su tutte le lesioni dello stomaco visibili durante l’esame endoscopico.

Secondo il sistema di stadiazione OLGA (Operative Link on Gastritis Assessment) la gastrite atrofica presenta 5 stadi di gravità (da 0 a IV): i pazienti in stadio III e IV hanno un maggior rischio di sviluppare un cancro allo stomaco.

L’esame istologico consente di evidenziare inoltre la presenza di eventuali altre lesioni precancerose (metaplasia intestinale, displasia) o francamente cancerose.

La valutazione della presenza di un’infezione di HP deve sempre esser parte integrante dell’esame istologico. Nel sospetto di un’infezione da HP è possibile utilizzare un campione bioptico per eseguire il test rapido all’ureasi. L’esame si esegue in laboratorio e consiste nell’introduzione di un campione bioptico in una soluzione contenente urea ed un indicatore di pH, chiamato rosso fenolo; in presenza del batterio, l’urea viene trasformata in ammoniaca e ciò determina un aumento del pH con viraggio del colore della soluzione da giallo a rosso.

Ai fini diagnostici inoltre possono essere utili i seguenti esami:

  • urea breath test per la valutazione della presenza di infezione HP,
  • esame sierologico.

L’urea breath test è un test semplice e non invasivo, di prima scelta quando si ha il sospetto di un’infezione da HP, con sensibilità e specificità superiore al 95%; si esegue somministrando al paziente una soluzione acquosa contenente una piccola quantità (75-100 mg) di urea marcata con carbonio 13 e di acido citrico. Il carbonio 13 è una sostanza non radioattiva, mentre l’acido citrico serve a rallentare lo svuotamento gastrico e quindi prolunga il tempo di permanenza dell’urea marcata nello stomaco. In presenza del batterio, quest’ultimo trasforma l’urea marcata in ammoniaca e anidride carbonica marcata. Facendo soffiare il paziente con una cannuccia prima e 30 minuti dopo la somministrazione di urea marcata, è possibile misurare la concentrazione di anidride carbonica marcata nel respiro: un aumento di quest’ultima sarà indicativo di presenza dell’infezione da HP.

L’esame sierologico consente di dosare gli anticorpi sierici di memoria IgG che si sono prodotti contro alcune parti del batterio (antigeni di superficie) come meccanismo di difesa del nostro corpo; questo esame ha una bassa sensibilità e specificità, intorno all’80%, e non può essere utilizzato in quei pazienti che hanno già fatto una terapia antibiotica per eradicare l’infezione, in tali casi infatti il test è gravato da un’alta percentuale di risultati falsi positivi.

I test fecali hanno dimostrato un’ottima accuratezza, superiore al 90%, nell’evidenziare la presenza del batterio nelle feci (o meglio di alcuni suoi antigeni) nella diagnosi pre-trattamento dell’infezione, mentre la sensibilità del test si riduce drasticamente di circa il 10-20% nei pazienti trattati con terapia antibiotica.

L’osservazione di

  • bassi livelli sierici di gastrina 17 e/o
  • una riduzione della quantità di pepsinogeno 1 (PG1) nel siero o del rapporto tra pepsinogeno 1/pepsinogeno2 (PG1/PG2)

aiuta infine ad identificare i pazienti con gastrite atrofica rispettivamente dell’antro e/o del corpo.

Cura

Per l’infezione da helicobacter la cura consiste in un terapia medica con

  • un inibitore di pompa protonica,
  • claritromicina 250/500 mg,
  • metronidazolo 500 mg o amoxicillina 1000 mg

somministrati due volte al giorno per una settimana. Questa triplice terapia è molto efficace con percentuali di eradicazione del batterio superiori all’80%.

Se questa terapia fallisce, è possibile sottoporre il paziente ad una cura con 4 farmaci (quadruplice terapia) sempre della durata di 7 giorni, comprendente:

  • un inibitore di pompa protonica,
  • bismuto 120 mg x 4 volte al giorno,
  • tetraciclina 500 mg x 4 volte al giorno,
  • metronidazolo 500 mg x 3 volte al giorno.

Questa cura permette di eradicare il batterio in quasi tutti i pazienti (solo in un 10% dei casi fallisce), nel caso in cui la triplice terapia non si è dimostrata efficace.

L’eradicazione di Helicobacter pylori consente la regressione della gastrite atrofica di tipo B e riduce il rischio di cancro gastrico ed è pertanto raccomandata in tutti i pazienti con questa condizione.

Sorveglianza

La gastrite cronica atrofica costituisce uno dei passaggi della cascata carcinogenetica nota come la cascata di Correa. È quindi ovvio che riuscire ad indentificare un paziente quando ancora si trova in una tappa iniziale di questa cascata, ossia fare una diagnosi precoce dei pazienti con lesioni precancerose, quali

  • gastrite atrofica severa,
  • metaplasia intestinale,
  • displasia

è un utile strumento che consente di selezionare quei pazienti definiti “ad alto rischio” di sviluppare un cancro allo stomaco. Questi pazienti devono essere controllati frequentemente rispetto alla popolazione generale, ossia per loro è raccomandata una stretta sorveglianza che consente di diagnosticare precocemente un eventuale cancro gastrico.

Questo controllo però non deve essere esteso a tutti i pazienti con la gastrite cronica atrofica!

Secondo le recenti linee guida europee nel caso di gastrite cronica atrofica infatti, dato la bassa incidenza dei casi di cancro allo stomaco in pazienti con gastrite cronica atrofica:

  • non è necessaria una sorveglianza endoscopica per i pazienti con atrofia lieve o moderata estesa solo all’antro,
  • mentre i pazienti con gastrite atrofica avanzata e storia familiare di cancro gastrico possono beneficiare di una sorveglianza endoscopica ogni 2-3 anni dal momento della diagnosi.

La sorveglianza richiede l’esecuzione di un’endoscopia ad alta definizione con cromoendoscopia (con coloranti vitali) o l’endoscopia con narrow band imaging (NBI).

Questi esami consentono di evidenziare lesioni gastriche precancerose con maggiore precisione, tuttavia hanno come svantaggio la poca maneggevolezza ed un tempo di esecuzione della procedura più lungo rispetto all’endoscopica tradizionale, per cui non sono raccomandate nella routine quotidiana ma vanno riservate a pazienti a più alto rischio di cancro gastrico.

Il cancro allo stomaco resta uno dei più grossi problemi in tutto il mondo, e conseguentemente diagnosticarlo precocemente è auspicabile al fine di poterlo trattare e ridurne la mortalità.

Fonti e bibliografia

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Colesteatoma all’orecchio: cause, sintomi e intervento

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Che cos’è il colesteatoma?

Per colesteatoma s’intende una raccolta di materiale a livello dell’orecchio medio o nell’osso mastoideo (la sostanza accumulata è costituita da residui di pelle, in particolare epitelio squamoso e cheratina).

Nonostante il nome non si tratta di una patologia tumorale, ciononostante può causare danni gravi e permanenti.

Si possono distinguere due forme di colesteatoma:

  • primario cioè non causato da una patologia particolare (od eventualmente congenito),
  • secondario ad una patologia dell’orecchio medio e della tuba di Eustachio.

Nella maggior parte dei pazienti non sono presenti sintomi, ma il materiale che si accumula progressivamente può portare a danni anche permanenti al timpano e agli ossicini, che ha come conseguenza la perdita dell’udito; può esserci perdita di liquidi maleodoranti, persistente o meno.

Il trattamento consiste quasi invariabilmente nella rimozione chirurgica.

Cenni di anatomia dell’orecchio

L’organo dell’udito è suddiviso in:

  • Orecchio esterno: formato dal condotto uditivo esterno.
    • Orecchio medio: compreso tra il timpano e l’apparato cocleare e vestibolare dell’orecchio interno. È connesso con il faringe tramite la tuba di Eustachio che serve per mantenere costante la pressione nell’orecchio. Contiene la catena ossiculare (martello, incudine, staffa) che trasmette le vibrazioni del timpano alla coclea.
  • Orecchio interno: “scavato” in un osso del cranio ed è costituito dalla coclea, responsabile del senso dell’udito, e dal labirinto, responsabile della sensazione di accelerazioni lineari o rotazionali.
Anatomia semplificata dell'orecchio

iStock.com/snapgalleria

Perché si forma il colesteatoma?

I meccanismi di formazione sono diversi a seconda del tipo di colesteatoma:

  • Primario: è legato ad una disfunzione della tuba di Eustachio, che causa una persistente pressione negativa nell’orecchio medio. La conseguenza è che il timpano si retrae all’interno, andando a formare piccoli affossamenti all’interno dei quali si depositano le cellule che costituiscono il timpano e il condotto uditivo oltre che la cheratina. Questo, a lungo termine, causa una degradazione del timpano e della catena di ossicini con conseguente difetto nell’udito.
  • Secondario: in conseguenza di una qualsiasi causa di perforazione del timpano (trauma, otite) si può determinare una migrazione di cellule di sfaldamento nell’orecchio medio e, nel tempo, ottenere una degradazione delle strutture ossee come avviene nella forma primaria.

Quali sono i sintomi del colesteatoma?

Nella maggior parte dei casi il colesteatoma si presenta con

Raramente è presente dolore, a meno che non sia presente infezione.

Non è tuttavia raro riscontrare un colestatoma in pazienti asintomatici.

Come si diagnostica il colesteatoma?

Qualora il medico sospetti la presenza di un colesteatoma, è possibile procedere ad un’ispezione della membrana timpanica attraverso un otoscopio. Non sempre è possibile individuare la presenza del colesteatoma quindi potrebbe essere necessario eseguire un esame otomicroscopico in cui l’otorinolaringoiatra ingrandirà l’immagine del timpano per visualizzare i residui di cellule di sfaldamento e di cheratina.

Per valutare le complicanze o per definire l’estensione della patologia potrebbe essere necessario eseguire una TAC.

Complicazioni e rischi

Il colesteatoma si può associare a gravi complicanze tra cui:

  • perdita dell’udito,
  • vertigini,
  • mastoidite: si tratta dell’infezione di una parte di osso che compone la scatola cranica chiamato mastoide. All’interno dell’osso mastoideo si trova una porzione di un nervo importante per i movimenti dei muscoli del volto, ne deriva quindi che una mastoidite può causare un deficit in questo nervo;
  • deficit di altri nervi che passano in prossimità dell’orecchio medio,
  • complicanze intracraniche: il processo infiammatorio si può estendere anche a livello del cervello con rischio di
    • ascessi cerebrali,
    • tromboflebite delle vene cerebrali
    • e meningite.

Cura

Il cardine della terapia del colesteatoma è la chirurgia.

Essendo una patologia distruttiva sarà necessario:

  • rimuovere le aree affette da colesteatoma,
  • ripristinare la corretta anatomia del timpano (timpanoplastica) e della catena ossiculare.

Si possono quindi distinguere diversi tipi di intervento chirurgico:

  • timpanostomia,
  • timpanoplastica con o senza rimozione dell’osso mastoideo,
  • timpanoplastica con o senza rimozione dell’osso mastoideo associata a ricostruzione della catena ossiculare.

Anestesia

Nella quasi totalità dei casi l’intervento sarà eseguito in anestesia generale. La durata dell’intervento è variabile a seconda dell’approccio necessario (da un’ora ad alcune ore).

Come avviene l’intervento

Timpanostomia

Si tratta dell’intervento meno invasivo che viene utilizzato soprattutto nei bambini, quando il colesteatoma è nelle fasi più precoci (cioè quando sono presenti esclusivamente delle piccole aree di retrazione timpanica).

Si basa sull’inserimento di un piccolo tubicino che attraversa il timpano e mette in comunicazione l’orecchio medio con l’esterno in modo da equilibrare le pressioni ed evitare una ulteriore retrazione timpanica.

Quando il tubicino verrà rimosso sarà necessario ricostruire una porzione di timpano attraverso l’apposizione di una piccola porzione di timpanoplastica.

Timpanoplastica

Per timpanoplastica s’intende un tipo di intervento che ha come obiettivi:

  • rimozione del colesteatoma a livello timpanico,
  • ripristino della corretta anatomia del timpano.

Il chirurgo effettuerà una incisione curvilinea di circa 3 cm, dietro al padiglione auricolare e dopo aver rimosso una piccola parte di osso avrà accesso alla membrana timpanica. A questo punto si procederà con la ricostruzione del timpano attraverso l’apposizione di tessuto prelevato in un’altra sede corporea (generalmente a livello del muscolo temporale che si trova in vicinanza della tempia).

Mastoidectomia

Si tratta dell’intervento più demolitivo che viene effettuato per il colesteatoma avanzato e si basa sulla rimozione dell’osso mastoide. In seguito ad una incisione cutanea di 3 cm dietro al padiglione auricolare, verrà esposto l’osso mastoideo e, attraverso una sorta di fresa, si procederà ad un’accurata rimozione degli strati ossei fino ad identificare l’orecchio medio.

Quando il colesteatoma è stato totalmente asportato, si riempirà la cavità con specifiche sostanze.

Ricostruzione della catena ossiculare

Tra i tre ossicini dell’orecchio medio, quello più frequentemente danneggiato dal colesteatoma è l’incudine, perché poco vascolarizzata.

Qualora il chirurgo si accorga di un’eccessiva degenerazione degli ossicini, provvederà a sostituirli con protesi.

Dopo l’intervento

A seguito dell’operazione è necessario un riposo assoluto a letto, prestando attenzione a muovere il meno possibile la testa. In sala operatoria il medico avrà applicato a livello dell’orecchio un bendaggio che verrà rimosso nei giorni seguenti.

Si potranno assumere liquidi dopo circa 5 ore dall’intervento.

Potrebbe essere presente dolore, che nel caso verrà trattato con farmaci analgesici in modo ottimale.

Fino a 1-2 giorni dopo l’intervento si potrebbero avvertire vertigini legate alla stimolazione intraoperatoria del labirinto.

Per i primi giorni sarà necessario evitare di soffiarsi il naso ed evitare manovre di Valsalva cioè espirazioni a glottide chiusa, perché aumenterebbe la pressione nell’orecchio medio e può causare sanguinamenti o malposizionamento della protesi appena inserita.

È bene evitare di effettuare viaggi aerei, spostamenti in funivia, pernottamenti ad alte quote ed immersioni per circa 1 mese.

Complicanze della chirurgia

I benefici della rimozione di un colesteatoma in genere superano ampiamente le possibili complicazioni, che tuttavia possono essere:

  • infezione della ferita,
  • condrite cioè infiammazione del padiglione auricolare,
  • acufeni,
  • vertigini,
  • lesione di nervi importanti per la funzione motoria del volto e per il senso del gusto,
  • lesione di strutture vascolari con conseguente emorragia,
  • infezioni intracraniche post-operatorie,
  • complicanze generali degli interventi di chirurgia maggiore (respiratorie e cardiache).

Quando chiamare il medico

A seguito della dimissione è necessario contattare il medico in caso di:

Fonti e bibliografia

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Pelle secca di viso e corpo (xerosi): cause e rimedi

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Introduzione

La pelle è uno degli organi principali del nostro corpo, il più grande, e oltre ad offrire protezione all’organismo fungendo da vera e propria “barriera” nei confronti dell’ambiente esterno, è responsabile del nostro aspetto e della percezione di ciò che ci circonda, attraverso il senso del tatto.

Una mancanza di idratazione, fondamentale per garantire elasticità e plasticità alla pelle, determina una riduzione del contenuto di acqua nello strato più superficiale dell’epidermide, che può comportare la comparsa di diverse manifestazioni cliniche, tipiche della “pelle secca”, tra cui:

  • desquamazioni,
  • screpolature,
  • rossore,
  • infiammazione,
  • sensazione di tensione costante,
  • estrema ruvidezza,
  • prurito.

Nei casi di maggiore gravità si può arrivare alla comparsa di xerosi cutanea, condizione caratterizzata da un progressivo inaridimento della pelle che apparirà quindi

  • secca,
  • disidratata
  • e segnata dall’eventuale comparsa di profonde ragadi (tagli cutanei o vere e proprie fessure).

La presenza di una pelle secca può quindi comportare sensazioni di notevole disagio per chi ne soffre e nello stabilire la diagnosi il medico può prendere in considerazione alcuni criteri obiettivi, tra cui:

  • aspetto pallido o devitalizzato della cute,
  • segni clinici epidermici di desquamazione o screpolature,
  • perdita di elasticità e, in alcuni casi, presenza di infiammazione.

Le irregolarità presenti sulla superficie della pelle sono molte e variabili, ma quasi sempre è possibile distinguere diversi stadi di gravità:

  • pelle secca (quando si presenta come un fastidio passeggero, caratterizzato da una lieve sensazione di cute tesa e da una leggera desquamazione),
  • pelle molto secca (se il fastidio e la sensazione di tensione sono persistenti, la desquamazione intensa e se la cute è segnata da alcune fessure),
  • xerosi preatopica (la pelle in questo caso è ruvida e rugosa, con zone di secchezza estrema e leggere irritazioni).
Viso caratterizzato da pelle secca

iStock.com/PORNCHAI SODA

Quali sono le cause?

La superficie della pelle sana è normalmente protetta da una pellicola idrolipidica, formata principalmente da acqua e lipidi (sebo), che è impermeabile e in grado di fungere da difesa della pelle verso le aggressioni esterne, limitando inoltre le perdite di acqua.

In presenza di variazioni del contenuto di acqua e lipidi nello strato superiore dell’epidermide (lo strato corneo), la funzione di barriera diventa meno efficace e la pelle inizia a sviluppare diversi gradi di disturbo, che spaziano da una sensazione di tensione su viso e corpo, all’assottigliamento, rossore e ruvidità, dovuti proprio alla perdita di acqua.

Alcune persone risultano maggiormente predisposte allo sviluppo di una pelle secca dalla nascita, in quanto parte del loro patrimonio genetico, ma oltre ad una secchezza innata (o costituzionale), possiamo distinguere altre forme di secchezza cutanea dovute a:

  • fattori climatici o ambientali (esposizione a raggi UV, freddo, aria condizionata, vento, riscaldamento eccessivo, ambiente secco) che possono causare, con la diminuzione dell’umidità esterna, una riduzione riflessa del contenuto di acqua nell’epidermide;
  • eccessiva frequenza di bagni/docce e lavaggio della pelle in genere, così come il ricorso a detergenti aggressivi,
  • patologie cutanee (come l’eczema atopico, l’ittiosi o la psoriasi);
  • altre malattie (principalmente alterazioni tiroidee, diabete);
  • carenze nutrizionali (è fondamentale garantire, oltre all’acqua, un giusto apporto di acidi grassi, vitamine e proteine all’organismo, per mantenere la pelle in salute);
  • trattamenti medici (ad esempio diuretici e contraccettivi ormonali assunti a lungo termine);
  • avere un lavoro che richiede di immergere la pelle in acqua,
  • frequenti bagni in piscina.

La pelle va poi incontro a fisiologici cambiamenti nel corso degli anni, per questo:

  • nei bambini la pelle è più secca (fanno eccezione i neonati);
  • durante l’adolescenza, con l’instaurarsi di cambiamenti ormonali, tende a diventare più grassa;
  • in età adulta, quando le ghiandole sebacee e sudoripare riducono la propria funzionalità, torna ad essere più secca,
  • con l’invecchiamento il rinnovamento cellulare non è così efficiente e la pelle appare inoltre sottile e segnata da numerose rughe.

Classificazione

In presenza di pelle secca il contenuto idrolipidico dello strato corneo, cioè quello più superficiale dell’epidermide, risulta inferiore rispetto ai valori fisiologici.

Sulla base di questo assunto, è possibile classificare la pelle secca, in alcune differenti tipologie:

  • Pelle secca disidratata: il deficit è causato da una riduzione della componente idrica (“carenza di acqua”) che è fondamentale per la funzione di barriera, protezione dagli irritanti e per le proprietà meccaniche della cute. Se è coinvolto il viso, la pelle può apparire lucida con pori dilatati e punti neri.
  • Pelle secca alipidica: la secchezza cutanea è dovuta ad un’insufficiente secrezione sebacea che rende la pelle più fragile, sensibile e soggetta alla comparsa di rughe e segni d’invecchiamento.
  • Pelle secca disidratata alipidica: le situazioni descritte precedentemente coesistono e la xerosi cutanea è più complessa in quanto alla ridotta secrezione di sebo, si associa una minore funzionalità delle ghiandole sudoripare e apocrine.

Quali sono i possibili rimedi?

Nel caso di un fastidio persistente è buona norma consultare un dermatologo, che potrà stabilire, attraverso una visita accurata, se realmente si tratta di pelle secca e cosa stia provocando questa condizione.

Nella maggior parte dei casi è comunque possibile intervenire mediante l’adozione di semplici accorgimenti, come:

  1. Trattamenti quotidiani che prevedano l’uso di prodotti per l’igiene non aggressivi per la pelle e, laddove fosse necessario, l’utilizzo di reidratanti (secondo zona e livello di secchezza, possono essere sotto forma di latte, crema, balsamo, pomata o olio); lo scopo di questi trattamenti è diminuire l’evaporazione dell’acqua, favorendone la permanenza nell’epidermide e il ripristino della barriera cutanea alterata, nonché la nutrizione della pelle del viso.
  2. Bere almeno 1,5 di acqua al giorno (salvo controindicazione medica).
  3. Evitare ambienti troppo caldi e chiusi.
  4. Proteggere la cute dai raggi UV.
  5. A seguito della detersione, tamponare il viso dolcemente, senza strofinare.
  6. Se è stato individuato il fattore responsabile della secchezza cutanea (come nel caso di carenze vitaminiche o nutrizionali), attuare le misure necessarie a correggerlo il prima possibile (come ad esempio una revisione del regime alimentare).
  7. In caso di malattie della pelle come dermatite atopica, ittiosi o psoriasi possono essere indispensabili prodotti che richiedono invece una prescrizione medica.
  8. Ridurre la lunghezza del bagno o della doccia ed evitare saponi aggressivi.
  9. Smettere di fumare.

Infine, se nonostante l’adozione di questi accorgimenti, il problema non dovesse migliorare e al contrario persistere

  • rossore,
  • secchezza,
  • prurito
  • o fastidi che impediscono di dormire bene

o qualora si notino

  • ulcere,
  • infezioni
  • e ampie aree di desquamazione,

è sempre opportuno rivolgersi ad un medico perché elabori una strategia terapeutica appropriata.

Fonti e bibliografia

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Criptorchidismo (testicolo ritenuto): cause, sintomi e cura

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Introduzione

Per criptorchidismo s’intende la mancata discesa di uno od entrambi i testicoli nello scroto e la loro persistenza a livello inguinale o addominale in modo permanente.

La condizione interessa soprattutto il testicolo destro e si presenta bilaterale nel 30% dei casi circa.

Il criptorchidismo è presente in quasi il 5% dei neonati al momento della nascita, con questa incidenza che aumenta nei bambini prematuri arrivando a toccare una percentuale pari a circa il 15%.

Rappresenta l’anomalia più frequente dell’apparato uro-genitale in età pediatrica e può associarsi ad altre anomalie del tratto genito-urinario, ma nella metà dei lattanti il testicolo tende a discendere spontaneamente nello scroto nel corso dei primi 2 anni di vita.

La patologia è quasi sempre asintomatica poiché solo raramente se ne manifesta la presenza con dolore, infiammazione o tumefazione, ma è una condizione che deve essere prontamente riconosciuta e trattata entro i primi due anni di vita, per evitare complicanze a lungo termine, come l’infertilità, ischemia e necrosi testicolare, e l’aumentato rischio di degenerazione neoplastica (circa il 15% ).

La diagnosi è soprattutto clinica, basata cioè su anamnesi ed esame obiettivo, ed è coadiuvata da esami strumentali come l’ecografia testicolare, la risonanza magnetica o la laparoscopia addominale esplorativa.

Qualora il criptorchidismo non si sia risolto da sé entro i primi due anni di vita viene affrontato attraverso un intervento chirurgico di orchidopessia, che consiste nella localizzazione del testicolo criptorchide e nel riposizionamento nello scroto, dove viene ancorato con punti di sutura alla stessa parete della borsa scrotale.

Cause

Durante lo sviluppo fetale i testicoli discendono dal polo inferiore del rene a livello addominale sino allo scroto attraversando il canale inguinale. In caso di criptorchidismo questo tragitto può risultare interrotto con il testicolo che viene ad alloggiare a livello del canale inguinale o addirittura in addome.

In base alla zona occupata dal testicolo “criptorchide” si parlerà di posizione:

  • addominale alta,
  • addominale bassa,
  • inguinale,
  • retroperitoneale,
  • sovrapubica,
  • perineale,
  • femorale (lungo la faccia interna della coscia),
  • sovra-scrotale,
  • scrotale alta,
  • testicolo ectopico (in tale caso si fa riferimento alla presenza del testicolo in una zona localizzata al di fuori della fisiologica via di discesa).
Posizioni del testicolo in caso di criptorchidismo

Immagine originale by LamiotOwn work, CC BY-SA 3.0, Link

La causa del criptorchidismo è quasi sempre idiopatica, ovvero non riconoscibile; altre cause più o meno discernibili sono di tipo:

  • meccanico,
  • ambientale,
  • genetico (soprattutto nel criptorchidismo bilaterale),
  • ormonale.

I fattori di rischio maggiormente associati al criptorchidismo sono:

Il criptorchidismo di associa infine ad alcune malattie congenite che presentano anomalie anatomiche e malformazioni, come:

Sintomi

La patologia è spesso asintomatica e solo raramente si presentano sintomi come:

  • dolore e tumefazione a livello inguinale,
  • segni di infiammazione sistemica (febbre, malessere generalizzato, astenia e debolezza).

Complicazioni

Nonostante il quadro clinico risulti spesso silente, le complicanze del criptorchidismo sonoj gravi, in quanto la condizione provoca alterazioni funzionali del testicolo, quali:

  • ridotta o mancata produzione di spermatozoi, con susseguente riduzione della fertilità o addirittura sterilità;
  • alterazione della riproduzione cellulare, con aumentato rischio di sviluppare un tumore maligno del testicolo.

Col tempo possono quindi presentarsi

  • atrofia testicolare: il testicolo sofferente inizia a rimpicciolirsi e a degenerare e ciò ne compromette il funzionamento con incapacità di produrre un adeguato numero di spermatozoi (oligospermia);
  • ischemia testicolare: la persistenza del testicolo ad esempio a livello inguinale può portare alla compressione del suo peduncolo vascolare e alla sofferenza cellulare;
  • necrosi testicolare: l’aumentata mobilità del testicolo può predisporre alla torsione testicolare, con il funicolo spermatico che viene compresso, e la mancata irrorazione sanguigna produce una necrosi con perdita completa della funzione testicolare;
  • infertilità: l’atrofia testicolare fino alla vera e propria necrosi testicolare, può provocare infertilità, soprattutto quando la patologia risulta essere bilaterale, con perdita di entrambi i testicoli e quindi sterilità permanente;
  • aumentato rischio di sviluppare un tumore maligno del testicolo (soprattutto in caso di testicolo ritenuto a livello addominale);
  • presenza di ernia inguinale omolaterale al testicolo criptorchide alla nascita.

Diagnosi

Fino all’80% dei casi di criptorchidismo viene diagnosticato alla nascita, mentre i restanti vengono diagnosticati durante l’infanzia o nella prima adolescenza. Alla nascita tutti i neonati ricevono una valutazione testicolare ed essa si effettua anche negli anni successivi per valutare la posizione dei testicoli durante la crescita.

La diagnosi parte dall’anamnesi, indagando con i genitori la presenza di:

  • eventuali problematiche incorse durante la gravidanza,
  • infezione congenita,
  • prematurità del feto,
  • familiarità della patologia.

Terminata l’anamnesi si esegue l’esame obiettivo che mira all’individuazione di entrambi i testicoli a livello scrotale e al riconoscimento di eventuali risalite.

Dal punto di vista strumentale il gold-standard è rappresentata dall’ecografia color doppler del testicolo, che permette di valutare:

  • localizzazione del testicolo, valutandone la normale presenza o assenza;
  • normalità delle strutture di tutta la cavità scrotale;
  • circolazione sanguigna, riconoscendo prontamente eventuali sofferenze vascolari.

Altra possibilità diagnostica strumentale è quella della “laparoscopia esplorativa” con la quale si può avere una visione diretta del testicolo ritenuto in cavità addominale o per la conferma di agenesia testicolare.

Infine la risonanza magnetica dell’addome rappresenta un’indagine radiologica poco invasiva che può completare il quadro diagnostico del criptorchidismo.

Situazioni simili al criptorchidismo, con il quale entrano in diagnosi differenziale sono:

  • Testicolo in ascensore” o “testicolo retrattile”: condizione in cui il testicolo dalla sua normale localizzazione nello scroto, risale verso l’alto posizionandosi a livello inguinale; questa risalita del testicolo è temporanea e reversibile ed è dovuta ad un’alterata fissazione del testicolo allo scroto e dalla sua aumentata mobilità in seguito alla contrazione del muscolo cremasterico.
  • “Criptorchidismo acquisito”: condizione in cui il testicolo è normalmente disceso alla nascita, ma successivamente si sposta in una zona anomala e vi rimane fisso senza possibilità di ridiscendere nello scroto.
  • “Mono o anorchidia congenita”: assenza dalla nascita di uno ed entrambi i testicoli, situazione che può essere scambiata per un criptorchidismo.
  • Ermafroditismo e pseudoermafroditismo.
  • Sindromi da anomalie dei cromosomi sessuali, come la sindrome di Klinefelter

Cura

Il criptorchidismo che persiste oltre i 2 anni di vita è da considerarsi una situazione fortemente patologica e rischiosa per la salute, ed è perciò una condizione che necessita di intervento chirurgico risolutivo.

L’esecuzione tardiva dell’intervento chirurgico può portare alla sterilità permanente.

Il trattamento chirurgico del criptorchidismo prende il nome di “orchidopessi” e prevede il riposizionamento del testicolo all’interno dello scroto e il suo fissaggio in tale sede alla parete scrotale, per evitarne eventuali dislocamenti.

Nel caso di testicolo ritenuto non palpabile viene eseguita una laparoscopia addominale che localizza il testicolo e lo riposizione nello scroto.

Per chi ha sofferto di criptorchidismo risulterà necessario un follow-up con controlli periodici in età adulta, mediante visita specialistica ed ecografia testicolare, soprattutto per scongiurare la comparsa di una neoplasia testicolare a distanza.

Fonti e bibliografia

  • “Malattie dei reni e delle vie urinarie” – F.P. Schena, F.P. Selvaggi, L. Gesualdo, M. Battaglia. Ed. McGraw-Hill – quarta edizione.
  • Ministero della Salute

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Spermatocele: cause, sintomi e cura

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Introduzione

Per spermatocele, o cisti dell’epididimo s’intende una formazione cistica sacculare ripiena di liquido biancastro e spermatozoi che si forma a livello dell’epididimo, una struttura anatomica a forma di “cappuccio allungato” che si trova sul margine posteriore del testicolo (anche detto didimo), al quale è strettamente collegato.

Anatomia semplificata del sistema genito-urinario maschile

iStock.com/Tera Vector

Lo spermatocele è una condizione essenzialmente benigna che non si associa a patologia tumorale; le cause più frequenti della formazione di questa cisti spermatica sono:

  • trauma a livello testicolare,
  • epididimite (infiammazione del testicolo),
  • intervento di vasectomia.

Nella maggior parte dei casi è asintomatica, almeno che non raggiunga dimensioni ragguardevoli ed in tal caso può portare allo sviluppo di sintomi quali:

  • dolore a livello testicolare e al basso ventre,
  • senso di tensione e fastidio,
  • tumefazione e gonfiore testicolare.

Per la diagnosi ci si avvale del quadro clinico con anamnesi ed esame obiettivo e della trans-illuminazione scrotale.

Nella maggior parte dei casi la condizione di spermatocele non richiede alcuna cura o trattamento, poiché tende a regredire e a risolversi spontaneamente. Nei casi più complessi può rendersi necessaria l’esecuzione di un intervento chirurgico risolutivo.

Cause

Sia il testicolo che l’epididimo sono contenuti all’interno della borsa scrotale.

Il testicolo è responsabile della produzione degli ormoni sessuali maschili (come il testosterone) e degli spermatozoi. L’epididimo invece è caratterizzato da una sorte di condotto a spirale che si occupa della maturazione degli spermatozoi e del loro passaggio verso il dotto deferente, che fa parte del funicolo spermatico e permetterà agli spermatozoi di raggiungere l’uretra e di essere espulsi all’esterno durante l’eiaculazione.

Anatomicamente l’epididimo si compone di:

  • testa,
  • corpo,
  • coda.

La condizione di spermatocele è piuttosto comune, potendo arrivare a coinvolgere sino al 30% della popolazione maschile adulta tra i 20 e i 50 anni.

Le cause principali che portano allo sviluppo di spermatocele sono:

  • pregressa epididimite, ovvero infiammazione del testicolo per un quadro di infezione batterica o virale,
  • trauma a livello testicolare,
  • Intervento di vasectomia (per il raggiungimento volontario della sterilità maschile).

Si parla infine di spermatocele idiopatici quando non si riconosce una vera e propria causa sottostante.

Il processo fisiopatologico prevede l’iniziale presenza di un’ostruzione parziale dei condotti dell’epididimo (che contengono gli spermatozoi immersi in uno specifico liquido di sostentamento). Questa ostruzione tende ad aumentare la pressione locale e a provocare un’estroflessione della parete di questi dotti. L’estroflessione nel tempo porta alla formazione di una vera e propria cisti a forma di sacco, in cui si accumulano gli spermatozoi e si forma lo spermatocele.

Sintomi

Nella maggior parte dei casi lo spermatocele raggiunge solo piccole dimensioni e non si associa ad una sintomatologia eclatante.

Quando le dimensioni aumentano e la cisti raggiunge diversi centimetri di diametro si potranno presentare sintomi tipici quali:

Con l’esame obiettivo è possibile repertare alcune caratteristiche dello spermatocele, che si presenta come un piccolo nodulo tondeggiante, piuttosto compatto e liscio, che risulta palpabile nella porzione superiore del testicolo coinvolto.

Pericoli

La condizione di spermatocele è assolutamente benigna poiché non si associa a riduzione della fertilità: quindi tutti gli uomini con spermatocele (anche con dimensioni ragguardevoli) possono concepire dei figli.

La condizione di benignità è ulteriormente confermata dall’assenza di degenerazione neoplastica del testicolo: allo stato attuale non sono mai stati descritti casi di neoplasia che siano originati dalla sola condizione di spermatocele.

Diagnosi

Nonostante lo spermatocele sia una condizione assolutamente benigna, si presenta con alcuni sintomi (come il gonfiore o tumefazione testicolare) che destano particolare attenzione ed allarmismo nei pazienti affetti; sono infatti diverse le patologie che si presentano come una formazione anomala al testicolo e richiedono una diagnosi precoce ed un trattamento efficace.

Tra le condizioni che entrano in diagnosi differenziale rispetto allo spermatocele ricordiamo:

Per la diagnosi ci si avvale essenzialmente dell’esame obiettivo con la palpazione dei testicoli.

Gli esami strumentali vengono eseguiti subito dopo tale fase, comprendendo ecografia scrotale e trans-illuminazione, un esame che consiste nell’illuminazione con una fonte luminosa lo scroto tenuto in sospensione. Così facendo è possibile discernere la natura della formazione anomala presente a livello testicolare, individuando la sua natura

  • liquida (spermatocele, varicocele, idrocele, ematocele),
  • solida (possibile tumore testicolare, che richiede la prosecuzione degli accertamenti per arrivare ad una diagnosi di certezza).

Cura

La condizione di spermatocele non richiede alcun tipo di terapia, tendendo alla risoluzione spontanea.

Qualora invece le dimensioni siano ragguardevoli ed associate ad una sintomatologia fastidiosa si rende necessario l’intervento chirurgico risolutivo con asportazione della cisti, chiamato “spermatocelectomia” (in regime ambulatoriale o di ricovero, in anestesia locale o generale, a seconda dei casi).

Nel post-operatorio si eseguano medicazioni “a piatto” della ferita, vale a dire applicando semplicemente il disinfettante sulla ferita e coprendo con una garza sterile o un cerotto.
Nelle prime 24-48 ore si consiglia di fare impacchi di ghiaccio sulla sede dell’intervento; il freddo riduce infatti il rischio di sanguinamento e di tumefazione infiammatoria.

Purtroppo si descrive in seguito a questo intervento una percentuale di recidiva dello spermatocele che si aggira intorno al 40% dei casi.

Fonti e bibliografia

  • “Malattie dei reni e delle vie urinarie” – F.P. Schena, F.P. Selvaggi, L. Gesualdo, M. Battaglia. Ed. McGraw-Hill – quarta edizione.
  • Mayo Clinic

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Discopatia degenerativa: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

La discopatia degenerativa è un processo fisiologico di decadimento cui va incontro il disco intervertebrale, la struttura che collega tra loro due vertebre vicine e che funge da cuscinetto ammortizzatore durante i movimenti quali camminare, saltare, correre, sollevare carichi, …

Il disco intervertebrale è costituito da parti fibrose e parti cartilaginee e racchiude al proprio interno una struttura gelatinosa detta nucleo polposo. Questo, con il passare degli anni, può perdere di elasticità ed andare incontro ad un processo degenerativo che può causare lo slittamento del disco intervertebrale dalla sua sede senza/con fuoriuscita del nucleo polposo, condizioni note rispettivamente come

di cui la discopatia degenerativa ne rappresenta un fattore di rischio.

Schema dei principali disturbi del disco intervertebrale

iStock.com/normaals

La discopatia degenerativa non è dunque una vera e propria malattia, bensì un’usura naturale che riguarda la nostra colonna vertebrale. Può svilupparsi in qualsiasi tratto della colonna vertebrale ma, le zone maggiormente esposte sono:

  • le prime vertebre (tratto cervicale) con possibile dolore alla nuca e coinvolgimento del braccio,
  • le ultime vertebre (tratto lombare) con possibile mal di schiena e coinvolgimento del gluteo, coscia e gamba.

Finché non c’è pressione sui nervi il paziente non avverte alcun disturbo in particolare, mentre in caso di compressione possono comparire sintomi, in primis un dolore particolarmente intenso e fastidioso.

Spesso la discopatia degenerativa ha una prognosi favorevole e con una semplice cura medica i sintomi possono venire efficacemente controllati. Nei casi in cui ciò non si verifica potrebbero svilupparsi complicanze tali da rendere necessario un intervento chirurgico.

Cause

La maggior parte delle persone riferiscono di aver avuto almeno un episodio di mal di schiena nel corso della loro vita.

La prevalenza di discopatia degenerativa legata ad un’ernia del disco è stata stimata pari a circa 1-3% nei paesi occidentali, mentre l’incidenza è di circa 35 nuovi casi all’anno ogni 100000 persone. Questo dato, tuttavia, è solo approssimativo dal momento che non sempre c’è una corrispondenza tra sintomi, aspetti radiologici e anatomici nella storia naturale della discopatia degenerativa.

L’età più colpita è quella dopo i 50 anni e c’è una lieve prevalenza nei maschi (M:F= 2:1).

Oltre il 90% dei casi interessa le ultime vertebre della colonna vertebrale, cioè L4-L5 o L5-S1, meno il tratto cervicale ha un rapporto di 1:10 rispetto al tratto lombosacrale.

iStock.com/Neokryuger

La discopatia degenerativa è dovuta al fisiologico invecchiamento della nostra colonna vertebrale: ciò che si verifica con l’avanzare dell’età è una progressiva ed irreversibile perdita della componente acquosa dei dischi intervertebrali, di cui è un costituente principale finché si è giovani.

La discopatia degenerativa può essere correlata alla presenza di uno o più fattori di rischio, come ad esempio

  • occupazioni sedentarie,
  • sedentarietà,
  • sovrappeso ed obesità,
  • alta statura,
  • guida di veicoli a motore prolungata e costante,
  • vibrazioni,
  • lavori a elevato impegno fisico soprattutto se comportano abitualmente il sollevamento manuale di carichi,
  • gravidanze,
  • posture scorrette,
  • movimenti errati e/o bruschi del corpo.

Tutte queste condizioni predisponenti possono causare a lungo andare un indebolimento dei dischi intervertebrali e favorirne/accelerarne il processo di degenerazione.

Sintomi

La discopatia degenerativa generalmente non dà sintomi, ma può talvolta essere sintomatica ed associarsi alla comparsa di dolore.

A seconda della sede d’insorgenza può manifestarsi:

Per sciatalgia s’intende un dolore irradiato lungo il decorso del nervo sciatico, dalla natica alla parte posteriore della coscia e postero-laterale della gamba, fino alla caviglia. Può essere associata a mal di schiena (lombosciatalgia).

Per cruralgia si intende il dolore avvertito lungo la faccia anteriore o antero-interna della coscia, lungo il decorso del nervo crurale.

Il dolore tende a peggiorare in tutte quelle situazioni che gravano maggiormente sulla colonna vertebrale come ad esempio:

  • posizione seduta,
  • piegamenti della schiena,
  • sollevamenti errati di carichi pesanti (fatti a gambe diritte),
  • mentre migliora camminando o quando il paziente è sdraiato.

Complicanze

La presenza di sintomi quali intorpidimento, sensazione di formicolio e/o debolezza muscolare di braccia o gambe è dovuta allo schiacciamento del disco intervertebrale con conseguente pressione sui nervi spinali.

La progressiva perdita del contenuto idrico del disco posto tra una vertebra e l’altra può comportare lo svilupparsi di una:

  • protrusione erniaria,
  • ernia del disco.

In entrambi i casi si verifica uno slittamento del disco intervertebrale dalla sua sede originale, che fa avvicinare le vertebre tra di loro e causa una compressione più o meno severa sulle strutture nervose della colonna vertebrale. In caso di ernia discale si verifica anche una rottura della struttura fibrocartilaginea del disco intervertebrale con la fuoriuscita del nucleo polposo.

Finché non si verifica una pressione sui nervi spinali il paziente può non accusare nessun disturbo, oppure manifestare un dolore sordo e continuo, che solo in determinate occasioni si fa più forte.

La discopatia degenerativa associata ad ernia del disco rappresenta un frequente motivo di assenteismo dal lavoro, a causa del dolore intenso e delle conseguenti limitazioni funzionali ad esso correlate: comuni attività come salire e scendere le scale, guidare l’auto, camminare, fare le faccende di casa, … possono diventare complicate.

Lo Stato del resto ha riconosciuto già da oltre 10 anni (con DM del 27/04/2004) l’ernia discale lombare tra le patologie professionali, nel caso di lavoratori dediti ad attività di movimentazione manuale di carichi, giornalmente e per lungo tempo; ciò vale anche per gli autisti di automezzi pesanti, in cui le vibrazioni trasmesse a tutto il corpo durante i lunghi ed abituali viaggi possono gravare con il tempo sulla colonna vertebrale, procurandone un indebolimento.

Con il passare del tempo, se non trattata, la discopatia degenerativa complicata può influenzare negativamente l’umore, tanto che sono frequenti i casi di depressione riscontrati in questi pazienti.

Talvolta un dolore alla colonna vertebrale può essere segno di una malattia sistemica, per cui è importante che il medico valuti con attenzione la presenza di eventuali sintomi/segni indicativi di gravità, detti “semafori rossi” (vedi diagnosi).

Diagnosi

La diagnosi richiede un primo colloquio con il paziente che racconterà la sua storia clinica, con particolare attenzione circa

  • caratteristiche del dolore (sede, intensità, durata),
  • assenza/presenza di intorpidimento, formicolii, impotenza funzionale e/o debolezza delle braccia o delle gambe,
  • malattie note,
  • lavoro svolto,
  • assunzione abituale di farmaci.

La visita medica comprende un esame obiettivo completo degli arti superiori ed inferiori e della colonna vertebrale in toto, con particolare attenzione al collo e alla schiena.

È inoltre fatta una valutazione, anche con l’ausilio di specifiche manovre mediche quali

  • manovra di Lasègue,
  • SLR (Straight Leg Raising) test,

riguardo

  • la capacità di movimento e flessibilità della schiena, delle braccia, delle gambe,
  • la resistenza dei muscoli,
  • la presenza/assenza dei riflessi,
  • la presenza/assenza della sensibilità.

Per giungere ad una corretta diagnosi di discopatia degenerativa ed escludere cause organiche (più o meno gravi) di dolore, il medico può richiedere a completamento della visita una radiografia o, meglio, una risonanza magnetica della colonna vertebrale.

La radiografia della colonna andrebbe fatta solo nel casi di sospetta spondilite anchilosante infiammatoria o per un primo controllo in caso di trauma o sospetto crollo vertebrale.

La risonanza magnetica resta invece il gold standard per la miglior visualizzazione della colonna vertebrale, anche alla luce del fatto che non espone il paziente a radiazioni ionizzanti tipiche della TAC (che rimane una valida alternativa nei pazienti in cui la RMN sia controindicata).

Questi approfondimenti diagnostici andrebbero sempre richiesti in presenza di uno o più dei seguenti sintomi/segni che possiamo indicare come “semafori rossi” per una possibile causa organica della discopatia. Si tratta di

  • deficit neurologico esteso e/o progressivo,
  • anamnesi positiva per tumore,
  • perdita di peso inspiegabile,
  • astenia protratta,
  • febbre,
  • dolore ingravescente continuo a riposo e notturno,
  • traumi recenti,
  • assunzione protratta di cortisonici,
  • osteoporosi,
  • quadro clinico della sindrome della cauda equina,
  • età minore di 20 anni o maggiore di 55 anni, in associazione ad uno degli altri sintomi indicati.

La sindrome della cauda equina è un’emergenza medica che richiede un intervento chirurgico se possibile entro 24 ore o comunque non oltre 48 ore dalla comparsa dei sintomi; i disturbi comprendono:

  • debolezza dei muscoli delle gambe fino alla paralisi,
  • difficoltà ad urinare (ritenzione urinaria) che poi evolve in incontinenza urinaria,
  • incontinenza fecale,
  • disfunzione erettile,
  • perdita di sensibilità nella regione attorno all’ano e al perineo (nota come anestesia a sella),
  • assenza del riflesso cutaneo plantare in entrambi i piedi: normalmente strisciando con una punta smussa il piede (dal tallone verso l’alluce) le dita si flettono; se manca questo riflesso le dita si apriranno a ventaglio (è il segno di Babinski).

Secondo le linee guida, in assenza dei semafori rossi, una risonanza magnetica andrebbe richiesta solo se il dolore non migliora con le cure conservative dopo almeno 4-6 settimane di terapia.

Test elettrofisiologici di routine, incluso lo studio dei potenziali evocati, sono richiesti solo in pochi casi selezionati dallo specialista.

Diagnosi differenziale

La discopatia degenerativa va distinta da altri casi di discopatia dovuti a:

Cura

La discopatia degenerativa richiede una terapia solo se associata a sintomi, altrimenti non necessita di alcuna cura.

Durante la fase acuta di dolore, è consigliato seguire questi semplici rimedi:

  • riposo,
  • evitare di restare troppo a lungo in piedi,
  • evitare di sollevare carichi pesanti,
  • fare eventualmente ricorso ad anti-infiammatori, corticosteroidi e anti-dolorifici in compresse, cerotti medicati, infiltrazioni, …

È bene non abusare dei comuni farmaci da banco e rivolgersi invece al proprio medico di famiglia per una cura farmacologica adeguata; spesso, soprattutto nella popolazione anziana, l’uso prolungato di FANS può associarsi alla comparsa di severi effetti collaterali.

Passata la fase acuta, di contro, è raccomandato mantenere il corpo in movimento: a seconda dell’età del paziente e delle sue condizioni cliniche generali, può essere consigliata una passeggiata di almeno mezz’ora al giorno o la pratica di uno sport leggero per mantenere attivi i muscoli.

I pazienti possono inoltre ottenere sollievo dal dolore al collo o alla schiena anche grazie all’aiuto di un fisioterapista o attraverso altri trattamenti conservativi come uso di corsetti lombosacrali o collari (dietro indicazione di un professionista qualificato).

Non sono ad oggi disponibili risultati sostenuti da un’adeguata letteratura scientifica relativamente a trattamenti quali manipolazioni, agopuntura o terapie fisiche (stimolazioni elettriche, ultrasuonoterapia e laserterapia).

Nei casi più gravi di discopatia degenerativa, accompagnati da ernia del disco e/o dolore intenso e persistente nonostante le cure conservative, può rendersi necessario il ricorso alla chirurgia, che può avvalersi di varie soluzioni tra cui:

  • stabilizzazione dinamica,
  • discoplastica,
  • chirurgia di fusione spinale.

La stabilizzazione dinamica è un intervento chirurgico mini-invasivo che

  • non prevede l’asportazione di ossa,
  • consiste nel porre uno spaziatore (una protesi) tra i processi spinosi delle vertebre interessate dalla discopatia.

Obiettivo di questo approccio è di aumentare la distanza tra le vertebre, che permette di ottenere un miglioramento dei sintomi grazie all’interruzione della pressione del disco intervertebrale sui nervi spinali. Non trattandosi di un intervento demolitivo, inoltre, offre al chirurgo, in accordo con il paziente, di valutare in un secondo momento eventuali altri trattamenti al peggiorare della condizione medica.

Con la discoplastica si procede alla sostituzione del disco intervertebrale andato incontro a degenerazione con un disco artificiale (una protesi). Questi dischi artificiali possono essere formati da materiali diversi, come acciaio inossidabile, polietilene e cromo cobalto. L’intervento prevede un taglio chirurgico anteriormente al collo o nella pancia, a seconda della sede della discopatia. La colonna vertebrale mantiene, dopo l’intervento di discoplastica, la propria flessibilità.

Disco artificiale (protesi)

iStock.com/Eraxion

La chirurgia di fusione spinale consiste nella vera e propria fusione di 2 o più vertebre adiacenti. L’intervento prevede un’incisione anteriore nel collo o nell’addome, a seconda della sede della discopatia degenerativa, ed una sostituzione del disco malato con altro osso. L’osso sostituto si ricava dall’anca del paziente (i medici parlano di “innesto osseo da autotrapianto”) e viene fissato alle vertebre con barre e viti in titanio o acciaio inossidabile. Il tutto funge da una sorta di “gesso” che stabilizza le vertebre e ne consente la crescita ossea.

Dopo l’intervento è utile la fisioterapia ed una ripresa graduale dell’attività fisica.

In generale la chirurgia della discopatia degenerativa è molto gratificante sia per il medico che per il paziente che entra in sala operatoria in preda a dolori lancinanti e ne esce sollevato.

Fonti e bibliografia

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Alcalosi metabolica: cause, sintomi e terapia

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Cos’è l’alcalosi metabolica?

Ogni liquido è caratterizzato da numerose caratteristiche, come la temperatura, il colore, la viscosità, … e fra queste possiamo annoverare anche l’acidità; siamo probabilmente tutti in grado di fare un esempio di liquido acido (succo di limone, aceto, …), ma legandone il concetto più che altro al senso del gusto, ma si tratta di una semplificazione.

L’acidità (e l’alcalinità) di una soluzione sono in realtà descritti quantitativamente dal pH, una scala che assegna un valore compreso tra

  • 0, pH fortemente acido,
  • 14, pH fortemente alcalino (o basico),

a qualsiasi liquido.

Esemplificazione grafica di esempio del pH di alcuni liquidi di uso comune

iStock.com/blueringmedia

Anche se non è necessario approfondire da un punto di vista chimico il concetto, è importante sapere che i processi metabolici che avvengono nell’organismo sono strettamente legati al pH; i fluidi corporei hanno generalmente pH compreso tra 5 e 8 (con poche eccezioni, come i succhi gastrici molto più acidi che hanno pH compreso tra 0.7 e 3.8).

Il pH del sangue, in particolare, viene costantemente tenuto sotto controllo da specifici meccanismi che ne garantiscono un valore compreso tra 7,35 e 7,45 (sangue arterioso); valori anche di poco esterni a questo intervallo possono diventare causa di gravissime complicazioni.

Con il termine “alcalosi metabolica”, s’intende un aumento del pH (che supererà quindi il valore di 7.45) dei tessuti dell’organismo e in particolar modo del sangue e delle urine; questa condizione può essere conseguente a:

  • perdita di acidi,
  • accumulo di bicarbonati.

In presenza di variazioni minime potrebbero non manifestarsi segni/sintomi, in caso di alterazioni più gravi il paziente può manifestare:

  • contrazioni muscolari e crampi,
  • irritabilità;
  • formicolio all’estremità,
  • mal di testa,
  • letargia,
  • convulsioni.

La diagnosi clinica è supportata dall’esecuzione di un’emogasanalisi (un gruppo di test utili a misurare i livelli di ossigeno e anidride carbonica presenti nel sangue arterioso) e dalla valutazione del dosaggio degli elettroliti sierici; solo una volta individuata la causa sottostante è possibile impostare una terapia che, nella maggior parte dei casi, favorirà la remissione del quadro clinico.

Cause

L’alcalosi è classificata in base alla sua causa primaria come

  • metabolica,
  • respiratoria.

L’alcalosi metabolica si sviluppa tipicamente in caso di:

  • Vomito protratto o in pazienti ricoverati e soggetti ad aspirazioni nasogastriche, a causa della perdita di acido gastrico e cloro e conseguente aumento del pH.
  • Ingestione di grandi quantitativi di bicarbonato di sodio o abuso di antiacidi (l’aumento del pH è conseguenza dell’eccesso di basi nell’organismo).
  • Uso di diuretici, principalmente tiazidi, furosemide o acido etacrinico.
  • Incapacità dei reni di mantenere l’equilibrio acido-base: la perdita eccessiva di liquidi ed elettroliti (come sodio o potassio) incide sulla corretta funzionalità renale; per esempio, un’iperattività delle ghiandole surrenali può indurre una massiva perdita di potassio, con conseguente alcalosi metabolica.

Tra le cause meno comuni di alcalosi metabolica ricordiamo:

  • Diarrea congenita da cloruri: è una condizione molto rara, in quanto generalmente la diarrea è causa di acidosi più che di alcalosi.
  • Disidratazione sistemica: può causare un’alcalosi da contrazione, dovuta a perdita di acqua negli spazi extracellulari; si ha attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone a livello renale, con conseguente escrezione di ioni idrogeno, ritenzione di bicarbonato e aumento del pH del sangue.
  • Fibrosi cistica: la perdita eccessiva di cloruro di sodio con il sudore, tipica di questa malattia, causa contrazione dei volumi extracellulari (analogamente a quanto accade nell’alcalosi da contrazione) ed esaurimento del cloruro.
  • Consumo eccessivo di glicirrizina, principio attivo dell’estratto di liquirizia.
  • Iperaldosteronismo: a causa dell’eccesso di aldosterone (un ormone responsabile dell’equilibrio dell’acqua nell’organismo), si ha una perdita di ioni idrogeno nell’urina e un aumento dell’attività della proteina di scambio sodio-idrogeno del rene. La ritenzione di sodio accresce il volume extracellulare, mentre la perdita di ioni idrogeno causa alcalosi metabolica.
  • Sindrome di Liddle: chi ne è affetto presenta una mutazione delle funzioni dei geni che codificano per il canale del sodio epiteliale (ENaC) che causa ipertensione e ipoaldosteronismo, con conseguente alcalosi metabolica.
  • Carenza di specifici enzimi (11β- idrossilasi e di 17α-idrossilasi): causa accumulo di precursori mineralcorticoidi con iperkaliemia (aumento del potassio), ipernatriemia (aumento del sodio) e ipertensione.
  • Effetti collaterali da aminoglicosidi (una famiglia di antibiotici): può indurre alcalosi metabolica ipocalemica (con ridotti livelli di calcio) attraverso meccanismi che coinvolgono i canali del calcio, situati nel tratto ascendente del nefrone.
  • Sindrome di Bartter e sindrome di Gitelman: tubulopatie caratterizzate da un’alcalosi ipokaliemica (con ridotti livelli di potassio).

L’alcalosi metabolica può infine essere classificata, dal punto di vista terapeutico (più specialistico), in:

  • Cloruro-responsiva: associata ad una perdita o ad un’eccessiva secrezione di cloro; si corregge generalmente con la somministrazione endovena di liquidi contenenti NaCl (sodio-cloruro).
  • Cloruro non-responsiva: non viene corretta dalla somministrazione di soluzioni contenenti NaCl e riconosce alla base gravi deficit di magnesio e\o potassio o un eccesso di mineralcorticoidi (specialmente peraldosteronismo).
  • Forme miste: le due forme sopracitate, possono coesistere (come accade nei pazienti in cui siano stati somministrati diuretici ad alte dosi).

Sintomi

In caso di lieve alcalosi metabolica potrebbe non essere presente alcuna sintomatologia, quando presenti i sintomi e i segni dipendono generalmente dalla malattia sottostante; un’alcalosi metabolica può causare:

  • tremori, contrazioni muscolari e crampi,
  • nausea e vomito,
  • irritabilità,
  • formicolio alle dita di mani e piedi e intorno alle labbra.

Nei quadri clinici più gravi l’aumento del pH determina una riduzione dei livelli circolanti di calcio (ipocalcemia) con conseguente

  • cefalea,
  • letargia,
  • confusione (può progredire fino allo stupor o al coma)
  • aumento dell’eccitabilità neuromuscolare, talvolta con comparsa di
    • delirium,
    • tetania (comparsa di contrazioni forzate e involontarie dei muscoli),
    • e convulsioni.

Diagnosi

La diagnosi è posta attraverso l’esecuzione di alcune indagini, tra cui:

  • emogasanalisi,
  • valutazione degli elettroliti sierici.

L’emogasanalisi consente di misurare i livelli di ossigeno e anidride carbonica presenti nel sangue arterioso e di valutare il pH del sangue. Il prelievo del sangue da un’arteria (di solito del polso, come l’arteria radiale) è svolto con un ago e può risultare fastidioso.

Il dosaggio degli elettroliti sierici viene eseguito attraverso un prelievo venoso e permette di valutare lo stato di idratazione\disidratazione del paziente nonché, in presenza di alterazioni significative di calcio, magnesio e potassio, l’eventuale rischio di complicanze cardiologiche; questi elettroliti, infatti, svolgono un ruolo importante sulla funzionalità muscolare del cuore, del battito cardiaco e nel mantenimento della pressione arteriosa.

Meno comunemente può essere richiesta la misurazione del cloro urinario e del potassio, al fine di valutare ulteriormente funzionalità renale e bilancio idrico.

Cura

La gestione dell’alcalosi metabolica varia in ragione della causa sottostante e delle condizioni del paziente; la risoluzione della malattia che ne è alla base determina, solitamente, una regressione del disturbo.

Il trattamento prevede una reintroduzione di acqua e di elettroliti (principalmente sodio e potassio).

  • I pazienti con alcalosi metabolica cloro-responsiva, sono trattati generalmente con soluzione fisiologica allo 0,9% endovena, fino a che il pH del sangue non si normalizza.
  • I pazienti con alcalosi metabolica non cloro-responsiva, di solito non traggono beneficio dalla sola reidratazione.

I pazienti con grave alcalosi metabolica (pH superiore a 7,6) ed insufficienza renale necessitano di misure più rapide per la correzione del pH ematico; in questi casi, l’emofiltrazione o l’emodialisi potrebbero rappresentare una valida opzione.

In tutti i casi, è opportuno tenere sotto sorveglianza il paziente, attraverso un frequente monitoraggio dell’emogasanalisi e degli elettroliti, considerando l’eventuale comparsa di complicanze cardiovascolari e\o di ripercussioni sul sistema nervoso centrale.

Fonti e bibliografia

  • MSD
  • medicinaurgenza.it
  • Guyton Arthur C., Trattato di fisiologia medica, 4ª ed., Padova, Piccin-Nuova Libraria, 1995, ISBN non esistente.
  • Goldman L e Claude Bennet J, Cecil, Textbook of medicine, 21ª ed., W. B. Saunders Company, 2000, ISBN non esistente.
  • Clin Endocrinol (Oxf). 2019 Oct 2. doi: 10.1111/cen.14104. [Epub ahead of print] The challenges of diagnosis and management of Gitelman syndrome. Urwin S1, Willows J1, Sayer JA1,2,3.

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