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Sinovite: cause, sintomi, pericoli e cura

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Cos’è la sinovite?

La sinovite è un processo infiammatorio a carico della membrana sinoviale, ossia il principale rivestimento della capsula articolare che ricopre le articolazioni mobili del nostro organismo; eventi quali traumi occasionali o stress meccanici ripetuti nel tempo possono facilmente determinare insulti a carico di questa struttura.

I sintomi tipici della sinovite sono essenzialmente

  • dolore,
  • limitazione del movimento,

ma tale sintomatologia può incrementare ed eventualmente coinvolgere altre strutture dell’articolazione qualora l’infiammazione tenda a cronicizzare.

Il trattamento è perlopiù farmacologico, attraverso la somministrazione di medicinali antinfiammatori e antidolorifici.

Anatomia delle articolazioni

L’articolazione è anatomicamente rappresentata dall’insieme di quelle strutture che, armonizzate tra loro, consentono l’unione ed il movimento (più o meno ampio) di differenti segmenti ossei tra loro.

Le articolazioni possono essere classificate sulla base del grado di mobilità che consentono ai due segmenti (o più) ossei che la costituiscono. Tale classificazione comprende:

  • Sinartrosi o articolazioni fisse, a loro volta classificabili in base al tipo di tessuto collante che unisce i due elementi ossei:
    • sinfinbrosi se si tratta di tessuto connettivo fibroso,
    • sincondrosi se si tratta di tessuto cartilagineo
    • e sinostosi se si tratta di tessuto osseo.
  • Diartrosi o articolazioni mobili, in cui i capi ossei sono organizzati all’interno di una struttura articolare complessa. Tale struttura esternamente è protetta da una capsula articolare, il cui strato più interno prende il nome di membrana sinoviale.

La membrana sinoviale pertanto ha un ruolo fondamentale nell’assicurare

  • trofismo (nutrizione),
  • fluidità,
  • solidità del movimento (anche se a questo in realtà sono addette altre strutture, come i legamenti e la componente fibrosa della capsula stessa).
Anatomia dell'articolazione, schema semplificato

iStock.com/elenabs

Riflettendosi, inoltre, la membrana sinoviale copre anche la superficie degli elementi ossei che prendono parte all’articolazione.

La membrana contiene il liquido sinoviale, il principale responsabile della fluidità del movimento; tale liquido si forma come trasudato dai capillari che decorrono all’interno delle strutture articolari.

Cause

La membrana sinoviale che ricopre le articolazioni può facilmente determinare dolore e, la prima causa per cui può succedere, è un patologico accumulo del liquido sinoviale che è fisiologicamente contenuto all’interno dell’articolazione.

Una patologia infiammatoria che colpisce invece direttamente la membrana sinoviale è detta sinovite.

Tale processo infiammatorio può avere un’origine occasionale, dovuta ad un trauma o ad un sovraccarico funzionale prolungato nel tempo a carico dell’articolazione in esame. Un’articolazione che molto spesso è soggetta a questo tipo di sovraccarico è quella del ginocchio.

In altri casi invece la sinovite è la manifestazione di una patologia sistemica sottostante, tra cui per esempio:

  • Artrite reumatoide: patologia su base autoimmunitaria che determina un’infiammazione cronica, degenerativa a carico di differenti articolazioni dell’organismo del paziente affetto. L’infiammazione può talvolta determinare le perdite della funzionalità articolare nonché l’eventuale deformazione anatomica della stessa. L’articolazione interessata molto spesso presenta dolore, calore, rossore. Le articolazioni colpite in questo caso sono però spesso più di una e non funzionalmente correlate.
  • Artrosi: degenerazione cronica di alcune articolazioni su base meccanica-funzionale, dovuta principalmente all’usura legata al tempo.

Sintomi

Qualsiasi patologia articolare, sfortunatamente, si manifesta nella maggior parte dei casi nella stessa forma del tutto aspecifica (cioè indipendentemente spesso dal meccanismo sottostante); rimane pertanto difficile per il medico riuscire ad identificare la causa determinante, ma dal punto di vista clinico la terapia iniziale è generalmente altrettanto comune (ovvero una terapia sintomatica sul dolore).

I segni e sintomi caratteristici della sinovite quindi sono:

  • dolore con il movimento nelle fasi iniziali e successivamente anche a riposo, dovuto a cronicizzazione dell’infiammazione,
  • arrossamento della cute sovrastante,
  • gonfiore articolare dovuto ad accumulo di fluidi per alterazioni della permeabilità vascolare su base infiammatoria,
  • limitazione funzionale dell’articolazione, correlata al dolore che il paziente avverte soprattutto in caso di movimenti più ampi ed al gonfiore per il fluido accumulato

In realtà tale sintomatologia, isolata ad una sola articolazione, è tipica di una sinovite transitoria su base esclusivamente

  • infiammatoria,
  • traumatica,
  • da stress.

Nel caso in cui la sinovite fosse invece legata ad una patologia sistemica sottostante più grave (come un’artrite reumatoide), il corteo di manifestazioni cliniche potrebbe presentarsi contemporaneamente su più distretti articolari, oltre ad essere accompagnato dalla presenza di altri sintomi sottostante correlati alla patologia di base (che spesso possono essere l’elemento essenziale per guidare il sospetto del medico nella diagnosi differenziale definitiva).

Diagnosi

La diagnosi di sinovite è molto spesso complessa, poiché la maggior parte delle patologie articolari isolate si manifestano con dolore; quella che può banalmente essere interpretata come una sinovite articolare isolata, può in realtà celare una patologia sistemica ben più grave come un’artrite reumatoide.

Il primo tipo di indagine è rappresentato come sempre da un’attenta valutazione clinica del paziente e della sintomatologia che riferisce:

  • localizzazione su singola articolazione o più di una,
  • modi e tempi d’insorgenza,
  • caratteristiche particolari del dolore,
  • abitudini e stile di vita che possono comunque rappresentare fattori di rischio per insorgenza di una patologia articolare cronica.

Successivamente è possibile richiedere al paziente esami ematochimici (per accertare o meno la presenza di uno stato infiammatorio) e più nel dettaglio degli esami strumentali che possano direttamente valutare l’articolazione stessa. L’esame di primo livello che possa valutare la capsula articolare ed i componenti tissutali che, oltre ai capi ossei, prendono parte alla formazione dell’articolazione è rappresentato da un’ecografia. Qualora si sospettino delle alterazioni a carico dei capi ossei si possono richiedere delle radiografie ed in ultimo possono effettuarsi indagini di secondo livello come risonanze magnetiche (sempre finalizzate allo studio dei tessuti molli come tendini, capsula e legamenti) o una TC.

È inoltre possibile eseguire un prelievo di liquido sinoviale per andarne a valutare la composizione e l’eventuale presenza di infiammazione e/o vera e propria infezione.

Rimedi e cura

La terapia è essenzialmente sintomatica, almeno nelle prime fasi, volta cioè a ridurre il dolore e chiedere al paziente di limitare l’utilizzo di quella specifica articolazione (per non sovraccaricare ulteriormente).

Antinfiammatori ed antidolorifici sono pertanto la prima arma a disposizione del medico; qualora non dovessero ottenersi miglioramenti è talvolta possibile ricorrere a terapia antibiotica (se si rileva una sottostante infezione, nella maggior parte dei casi di origine batterica).

L’opzione chirurgica viene presa in considerazione qualora si dovesse richiedere un drenaggio del liquido sinoviale o vi fosse necessità di ripristinare la corretta anatomia dell’articolazione.

È infine utile per il paziente evitare di

  • sovraccaricare le articolazioni,
  • eseguire movimenti sbagliati,
  • trascurare i primi sintomi di una leggera infiammazione che potrebbero successivamente cronicizzare in qualcosa di ben peggiore.

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Entesite: cause, sintomi, pericoli e cura

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Cos’è l’entesite?

In medicina, il suffisso “-ite” è solitamente indicativo di un processo infiammatorio, nello specifico l’entesite, viene definita come un’infiammazione a carico di un tendine muscolare, ovvero la struttura mediante la quale il muscolo si inserisce sull’osso corrispettivo ad esso associato. Più in particolare, si riferisce all’infiammazione della porzione di tendine che si va ad inserire proprio sull’osso, ossia la cosiddetta entesi.

I tendini sono componenti anatomiche costituite da tessuto connettivo (di componente prevalentemente fibrosa) che permette di ancorare un muscolo alla struttura scheletrica adiacente, cosicché il movimento del muscolo possa (nella maggior parte dei casi) determinare lo spostamento del segmento osseo in questione.

La loro funzione risulta quindi fondamentale nell’articolare il movimento, ma risulta spesso esposto e sottoposto a fenomeni di usura, traumatismi e deterioramento.

Quando esistente arriva a diventare manifesta, il sintomo cardine è ovviamente rappresentato dal dolore e conseguentemente la terapia inizialmente si basa sulla somministrazione di antidolorifici.

Rari sono i casi in cui si decide di intervenire, mediante intervento chirurgico, per tentare di risolvere la condizione infiammatoria. Nella maggior parte dei casi la decisione chirurgica è invece dettata soprattutto dalla presenza di lesioni tendinee vere e proprie, che necessitano di ripristinare la fisiologica anatomia per garantire la funzionalità del movimento.

Anatomia del tendine

I tendini sono strutture particolarmente importanti nel contesto di un movimento armonico, in loro assenza muscolo e scheletro, dissociati tra loro, non sarebbero in grado di coordinarsi.

Dal punto di vista strettamente anatomico la loro struttura è rappresentata da fibre connettivali organizzate per garantire il massimo della stabilità e dell’ancoraggio. La vera e propria fluidità del movimento dipende soprattutto dalle guaine di rivestimento dei tendini stessi, la cui funzione principale è di protezione e facilitazione dello scorrimento dei vari segmenti tra loro.

Cause

Non tutti i tendini presenti nel nostro organismo sono sottoposti alla stessa usura, quelli maggiormente a rischio sono appartenenti alle articolazioni più utilizzate:

  • polsi,
  • ginocchia,
  • spalle,
  • pianta del piede,
  • colonna vertebrale,
  • anche.

L’insorgenza di traumi, o più frequentemente l’eccessiva usura dell’articolazione in questione, può determinare un processo infiammatorio.

Il termine entesite rappresenta l’infiammazione dell’entesi, la parte terminale del tendine che si inserisce direttamente a livello del segmento osseo.

Anatomia semplificata dell'articolazione per mostrare l'entesi

Di Madhero88Opera propria Info sites 1 2 3, CC BY-SA 3.0, Collegamento

In alcuni casi l’entesite, piuttosto che associarsi ad un trauma o ad un sovraccarico di lavoro, può essere la manifestazione di una patologia sottostante diffusa che affligge le articolazioni (pensiamo ad esempio ad una spondilite anchilosante, artrite reumatoide o artrite psoriasica, per esempio); in tal caso ovviamente la terapia dell’entesite in sé svolge soltanto un ruolo sintomatico, ma l’attenzione deve rivolgersi alla patologia sottostante la cui terapia può risultare più complessa.

Sintomi

Qualora l’entesite sia una patologia indipendente, può spesso rimanere silente, ossia priva di sintomi. In caso di cronicizzazione e persistenza dello stimolo lesivo che l’ha generata può invece dare mostra di sé attraverso la comparsa di dolore, associato soprattutto al movimento mediante il quale l’articolazione viene messa sotto sforzo. Oltre al dolore, ovviamente, l’infiammazione può poi coinvolgere altre strutture che fanno parte dell’articolazione (come la capsula articolare e le guaine protettive) generando:

  • gonfiore,
  • senso di calore al tatto della regione cutanea sovrastante,
  • arrossamento cutaneo più o meno intenso.

Nel caso in cui invece l’entesite rappresenti la spia di una sottostante patologia sistemica saranno presenti altri sintomi tipici (magari fino alla diagnosi trascurati dal paziente).

Per la spondilite anchilosante i sintomi tipicamente associati possono essere:

  • Lombalgia, ovvero mal di schiena, ma caratterizzata da alcune specifiche peculiarità che la differenziano dal normale mal di schiena da “sforzo”:
    • esordisce soprattutto al mattina,
    • peggiora col riposo,
    • migliora con il movimento,
    • insorge spesso in persone giovani, proprio perché è correlato alla malattia sottostante e non ad una degenerazione della colonna in sé per sé.
  • Difficoltà respiratorie.
  • Infiammazioni di natura oculistica.

Nel caso dell’artrite le manifestazioni possono essere varie, a seconda del tipo specifico di patologia, ma nella maggior parte dei casi l’elemento essenziale è spesso il coinvolgimento contemporaneo di più di un’articolazione (come invece tipicamente si verifica in caso di un traumatismo).

Diagnosi

La diagnosi è essenzialmente clinica, basata su un’attenta anamnesi da parte del medico ed un’attenta descrizione della sintomatologia da parte del paziente stesso.

Ovviamente nel sospetto di un trauma a carico di una regione si possono associare esami strumentali come radiografie (nel sospetto di un’eventuale frattura) o ecografie in caso di sospetto di lesioni ai tessuti molli.

Gli esami di laboratorio permettono di valutare il rialzo di alcuni indici infiammatori, aspecifici nella maggior parte dei casi, ma comunque utili ad orientare la diagnosi.

Esami di secondo livello possono essere rappresentati da una risonanza magnetica focalizzata nella regione oggetto di studio.

Cura e rimedi

L’entesite può rimanere silente e quindi regredire senza utilizzo di nessuna terapia, ma quando presenti risulta di fondamentale importanza il loro monitoraggio, in quanto:

  • potenzialmente indicativi di una sottostante e più grave patologia sistemica cronica, come una spondilite anchilosante, un’artrite reumatoide o un’artrite psoriasica;
  • qualora tendesse a cronicizzare nel tempo, perché non diagnosticata e quindi non adeguatamente trattata, potrebbe compromettere il tendine muscolare con lesioni permanenti.

Qualora si manifesti con il dolore, il paziente viene solitamente invitato all’assunzione di antinfiammatori-antidolorifici per consentire di arginare il processo infiammatorio, rispettando ovviamente l’adeguata posologia ed abbinando se necessario una protezione gastrica.

Qualora non sia sufficiente una terapia antinfiammatoria, è possibile ricorrere ad infiltrazioni in loco di corticosteroidi.

In ultima istanza, laddove si siano generate delle lesioni e danni a carico del tendine (o per cronicizzazione dell’entesite nel tempo o per traumatismo acuto), può rendersi necessario l’intervento chirurgico.

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Dermatite erpetiforme di Duhring: cause, sintomi e cura

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Introduzione

La dermatite erpetiforme di Duhring è una malattia rara strettamente connessa alla celiachia il cui nome deriva da:

  • dermatite: infiammazione della pelle,
  • erpetiforme: aggettivo coniato in seguito all’osservazione delle delle vescicole e della loro disposizione, per certi versi simili alle manifestazioni tipiche dell’infezione herpetica (non esiste invece alcuna correlazione con i virus herpes simplex o herpes zoster),,
  • Duhring, il nome del medico che per primo la descrisse.

La condizione si manifesta con la comparsa di lesioni cutanee vescico-bollose sulla pelle, ovvero un’eruzione cutanea caratterizzata da piccoli elementi rilevati a contenuto liquido limpido, intensamente pruriginosi, localizzati soprattutto agli arti superiori ed inferiori.

Particolarmente diffusa tra i 30 e i 40 anni, più nell’uomo che nella donna, è associata ad una prognosi buona quando diagnosi e terapia si rivelano tempestive; l’approccio terapeutico in alcuni casi è limitato alla scrupolosa eliminazione del glutine dalla dieta, che tuttavia inizialmente può essere troppo lenta nella risposta. Per questa ragione si associa tipicamente la somministrazione del dapsone, un farmaco che nasce per la terapia della lebbra, ma che si è dimostrato efficace nel promuovere la risoluzione dei sintomi di questa forma di dermatite (con effetti visibili già entro poche ore dalla prima somministrazione).

Causa

La dermatite erpetiforme colpisce soggetti giovani-adulti tra i 20 e i 60 anni, più frequentemente tra i 30 e i 40, e prevalentemente di sesso maschile (rapporto maschi : femmine = 2 : 1). Può interessare comunque anche i bambini.

Lo sviluppo della dermatite erpetiforme è legato a fattori

  • genetici
  • ed ambientali,

comprendenti l’assunzione di glutine (proteina presente in alcuni cereali e responsabile della reazione tipica della celiachia) con la dieta. La dermatite erpetiforme viene diagnosticata mediamente in un paziente celiaco su 10, con differenze anche sensibili a seconda dell’etnia considerata.

La malattia è di origine autoimmune, i pazienti con dermatite erpetiforme sviluppano infatti (auto)-anticorpi contro le transglutaminasi, enzimi presenti nell’intestino che operano la digestione del glutine. I complessi anticorpi-transglutaminasi (immunocomplessi) circolano nel sangue e si depositano a livello cutaneo attivando il sistema del complemento (elemento essenziale del sistema immunitario nei meccanismi di difesa contro gli agenti infettivi) e manifestandosi con i sintomi caratteristici.

Fattori di rischio

Il principale fattore di rischio è la predisposizione genetica, mentre i possibili fattori scatenanti sono l’ingestione di ioduri e l’eccesso di glutine nella dieta.

Trasmissione e contagiosità

Non si tratta di una malattia contagiosa, piuttosto esiste una predisposizione genetica, trasmissibile da genitore a figlio.

Sintomi

La malattia esordisce come un’eruzione cutanea papulo-vescicolosa, ovvero sotto forma di lesioni cutanee rilevate (papule) e lesioni rilevate contenenti liquido limpido (vescicole) che sono tipicamente raggruppate, come accade nelle lesioni da virus dell’herpes: da qui deriva il nome di dermatite erpetiforme.

Occasionalmente sono presenti anche delle bolle (lesioni più grandi delle vescicole), anch’esse a contenuto liquido limpido. Il prurito è intenso ed il grattamento provoca escoriazioni e croste. I sintomi di prurito e bruciore precedono la comparsa delle lesioni di 8-12 ore, ma il prurito è tale che raramente lo specialista è in grado di osservare lesioni integre (tuttavia la guarigione avviene in genere senza la formazione di cicatrici).

Le lesioni compaiono simmetricamente alle superfici estensorie degli arti, ai gomiti, alle ginocchia, ai glutei, in regione scapolare e sacrale. Possono essere coinvolti il cuoio capelluto, il volto e la linea d’impianto dei capelli e sono descritte anche delle forme profuse del tronco.

Il coinvolgimento della mucosa orale (bocca) con presenza di vescicole e/o erosioni è poco frequente.

La malattia celiaca (enteropatia glutine-sensibile) si verifica in quasi tutti i pazienti affetti da dermatite erpetiforme, ma è clinicamente asintomatica nel 95% dei casi (possono cioè essere presenti i sintomi della dermatite erpetiforme, ma non quelli della celiachia, nonostante il paziente ne sia affetto). Quando sintomatica, invece, la celiachia si manifesta con

Nei pazienti affetti da dermatite erpetiforme si rileva un’aumentata probabilità di rilevare la presenza di altre malattie autoimmuni, come ad esempio:

Diagnosi

La diagnosi di dermatite erpetiforme richiede il prelievo (biopsia) di almeno una papula eritematosa insorta recentemente: l’esame istologico evidenzia un infiltrato infiammatorio nel derma superficiale costituito da polimorfonucleati neutrofili e da qualche eosinofilo che induce uno scollamento dermo-epidermico; sono presenti anche accumuli di fibrina e necrosi (cellule morte).

La diagnosi è avvalorata dall’immunofluorescenza diretta, una metodica che prevede che la cute prelevata in prossimità di una lesione (cute indenne peri-lesionale) venga incubata con anticorpi anti-immunoglobuline per la ricerca degli autoanticorpi. In particolare, nella dermatite erpetiforme, l’immunofluorescenza diretta dimostra la presenza dei depositi granulari di IgA sulla sommità delle papille dermiche. Si possono riscontrare anche i fattori C3 e C5 che sono componenti del sistema del complemento.

La dermatite erpetiforme dev’essere differenziata da altre malattie bollose autoimmuni (pemfigoide bolloso, pemfigo volgare, dermatite a IgA lineari) sulla base delle caratteristiche cliniche e dell’aspetto caratteristico dell’immunofluorescenza diretta. Dev’essere inoltre distinta da altre malattie infiammatorie ed infettive che causano intenso prurito come

La ricerca della malattia celiaca deve essere praticata sistematicamente nei pazienti con diagnosi di dermatite erpetiforme, innanzitutto, mediante il dosaggio ematico degli anticorpi circolanti anti-gliadina e anti-transglutaminasi di classe IgG e IgA, che sono markers sierologici della malattia. La diagnosi viene però confermata solo attraverso il prelievo (biopsia) di un campione di mucosa intestinale della 2° o 3° parte del duodeno, che si ottiene con l’esofago-gastro-duodenoscopia e che dimostra l’appiattimento dei villi intestinali.

Prognosi e complicazioni

Nei pazienti affetti da dermatite erpetiforme è aumentata da prevalenza di alcune malattie endocrinologiche (malattie tiroidee, atrofia gastrica, malattia di Addison, diabete insulino-dipendente), di malattie autoimmuni come il lupus eritematoso e la sindrome di Sjogren ed è anche ipotizzata l’associazione con la vitiligine, la sarcoidosi e la malattia di Bierman.

È noto anche un debole rischio di sviluppare linfomi in sede digerente o leucemie, rischio che si riduce (fino a scomparire) dopo 5 anni dalla diagnosi e dall’inizio della terapia, verosimilmente per l’effetto benefico della dieta priva di glutine.

La dermatite erpetiforme è una malattia cronica che, in assenza di trattamento è caratterizzata da frequenti riacutizzazioni scatenate dall’assunzione di iodio o da un carico eccessivo di glutine.

Cura

La dieta priva di glutine può determinare anche da sola una completa guarigione e previene la comparsa dei linfomi; la risposta alla dieta da sola è però molto lenta, in associazione il trattamento di scelta è il diaminodifenilsulfone (dapsone), farmaco che nasce per la terapia della lebbra, e che agisce con effetti antiinfiammatori e immunomodulanti.

Il farmaco, che è attivo sulle lesioni cutanee ma non sull’enteropatia (infiammazione dell’intestino), si somministra per bocca al dosaggio di 100-150 mg al giorno e si riduce gradualmente fino ad assumere 50 mg due volte a settimana. La risposta al dapsone è molto veloce, avvenendo solitamente nell’arco di alcune ore. Prima di iniziare questa terapia è tuttavia indispensabile eseguire il dosaggio ematico di glucosio-6-fosfato deidrogenasi (G6PDH) poiché, in caso di deficit di questo enzima, il farmaco può provocare vari gradi di anemia. Durante il trattamento, inoltre, si dovranno dosare attentamente l’emocromo e la metaemoglobina.

Se il dapsone non è tollerato, si può usare la sulfapiridina.

Prevenzione

Non esistono misure preventive per questa patologia.

Fonti e bibliografia

  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.

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Serenoa Repens per prostata e capelli: funziona?

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Cos’è la Serenoa Repens?

La Serenoa repens (o Saw Palmetto) è una palma nana con caratteristiche foglie a ventaglio, che cresce nel sudest degli Stati Uniti e i cui frutti venivano originariamente utilizzati a scopo medico per problemi all’apparato urinario, dalla tribù dei Seminole, indiani d’America tra i più combattivi (gli unici che non si arresero mai all’esercito statunitense).

Pianta di Serenoa Repens

iStock.com/Holly Guerrio

Attualmente la Serenoa è usata come integratore per il trattamento dei sintomi urinari legati all’iperplasia prostatica benigna (IPB) [1], una patologia benigna caratterizzata da ingrossamento della ghiandola prostatica con conseguenti effetti a carico della minzione (dolore, necessità di urinare frequentemente, impossibilità di svuotare completamente la vescica).

Sull’efficacia della Serenoa nel trattamento dei sintomi legati all’IPB si è concentrata la maggior parte degli studi scientifici ad oggi pubblicati.

Esistono anche suggerimenti d’uso in caso di

ma non sono supportati da sufficienti evidenze scientifiche.

In commercio gli estratti di Serenoa repens si trovano prevalentemente sotto forma di capsule o compresse, ma il rimedio esiste anche come bacche essicate o infuso. Tra le preparazioni commerciali più conosciute, registrate come farmaci, ricordiamo:

  • Permixon,
  • Saba,
  • Serpens,

mentre tra quelle registrate come integratore (a parità di dosaggio rispetto al farmaco) citiamo il Prostamol.

Serenoa repens e prostata

La comunità scientifica non ha ancora espresso parere unanime sull’efficacia della Serenoa per l’ipertrofia prostatica benigna: accanto a studi che sembrano dimostrarne l’efficacia, ne esistono altri che affermano non vi sia differenza tra Serenoa e placebo.

Nel 2012 è stato pubblicato un lavoro di revisione da parte della Cochrane (l’organizzazione internazionale no-profit che raccoglie informazioni in campo clinico-sanitario e si occupa della loro diffusione) [2] su 32 studi randomizzati controllati, che avevano coinvolto in totale 5666 pazienti con IPB. Il risultato fu che, anche a dosi 2 o 3 volte superiori a quelle consigliate (320mg per tre volte al giorno), non si apprezzavano miglioramenti significativi dei sintomi a carico dell’apparato urinario.

Stesso risultato per una ricerca in doppio cieco, versus placebo, condotta su 369 pazienti con IPB: nessuna differenza significativa tra Serenoa e placebo [3]. In questo caso però gli stessi ricercatori hanno specificato che il test era stato eseguito su una specifica formulazione presente in commercio e poteva quindi non essere generalizzabile in assoluto, data la variabilità delle specialità commerciali e dato il fatto che il meccanismo d’azione non fosse ancora del tutto chiarito.

Tuttavia, in uno studio del 2014, condotto su 225 pazienti, si è rilevato che la combinazione Serenoa, licopene e selenio, associati al Tamsulosin (farmaco alfabloccante selettivo utilizzato per il trattamento della IPB), risultava significativamente più efficace del farmaco da solo, con miglioramenti apprezzabili anche a lungo termine (12 mesi). E nessun effetto collaterale indesiderato [4].

Infine, in un recente studio clinico del 2018 di fase IV condotto su 404 partecipanti, si è visto che la combinazione Serenoa, selenio e licopene era paragonabile all’azione del farmaco Tadalafil (in dose 5mg) per migliorare i sintomi a carico della prostata e il flusso urinario [5].

Per quanto tempo assumere la serenoa?

In caso di ricorso ad integratori per automedicazione si raccomanda di non superare le poche settimane di terapia, ma nel caso in cui l’assunzione avvenga sotto controllo medico è possibile pianificare terapie anche sul lungo periodo (nell’ordine di mesi o anni).

Serenoa repens e capelli

Uno studio di ricercatori italiani dell’Università la Sapienza di Roma, durato due anni e pubblicato nel 2012 [6], ha messo a confronto la Serenoa con la Finasteride, farmaco d’elezione per il trattamento dell’alopecia androgenetica. Lo studio è stato condotto su 100 pazienti con calvizie da lieve a moderata, clinicamente diagnosticata. I soggetti dello studio sono stati divisi in due gruppi:

  • ad uno è stata somministrata la Serenoa nella dose di 320 mg al giorno,
  • all’altro 1 mg di Finasteride.

Dopo due anni si è visto che solo nel 38% dei pazienti trattati con Serenoa si era verificato un aumento di crescita dei capelli, a fronte del 68% di quelli trattati col farmaco. In più si è constatato che la Finasteride ha azione sia a livello apicale che frontale, mentre la Serenoa solo a livello apicale. La ragione del diverso comportamento resta tutt’ora sconosciuta.

Alla luce di questi e di analoghi risultati, la Serenoa potrebbe essere utilizzata nel trattamento della calvizie con buoni risultati come coadiuvante, ma non come unico rimedio.

Meccanismo d’azione

Secondo quanto riportato in letteratura da esperimenti condotti in vitro, la Serenoa avrebbe effetto inibitore sull’enzima 5-alfa-reduttasi (che converte il testosterone nel più potente diidrotestosterone) e si legherebbe in modo competitivo ai recettori per gli androgeni presenti a livello prostatico, in modo analogo alla Finasteride, farmaco utilizzato sia nell’IPB che per contrastare la caduta dei capelli [7].

Controindicazioni ed effetti collaterali

La Serenoa è ben tollerata dalla maggior parte delle persone, gli unici effetti collaterali riportati sono un lieve mal di stomaco se assunta a dosi superiori a quelle consigliate.

Le informazioni sul tollerabilità e sicurezza della Serenoa derivano da studi condotti su soggetti di sesso maschile. Non ci sono sufficienti informazioni per l’utilizzo da parte delle donne o dei bambini.

L’assunzione di Serenoa non altera i valori ematici dell’antigene prostatico PSA, utilizzato indicatore di salute prostatica e come marker di controllo a seguito di prostatectomia radicale.

Non sono note interazioni della Serenoa con alcun farmaco

Fonti e bibliografia

  1. National Center for Complementary and Integrative Health
  2. Serenoa repens for benign prostatic hyperplasia. Tacklind J, MacDonald R, Rutks I, Stanke JU, Wilt TJ. Cochrane Database of Systematic Reviews 2012, Issue 12
  3. Effect of increasing doses of saw palmetto extract on lower urinary tract symptoms: a randomized trial. Barry MJ, Meleth S, Lee JY, et al. JAMA. 2011;306(12):1344-1351.
  4. Serenoa repens, lycopene and selenium versus tamsulosin for the treatment of LUTS/BPH. An Italian multicenter double-blinded randomized study between single or combination therapy (PROCOMB trial). Morgia G, Russo GI, Voce S, et al. Prostate. 2014;74(15):1471-1480.
  5. Serenoa repens + selenium + lycopene vs tadalafil 5 mg for the inferiority, open-label, clinical study (SPRITE study). Morgia G, Vespasiani G, Pareo RM, et al. BJU Int. 2018;122(2):317-325.
  6. Comparative effectiveness of finasteride vs Serenoa repens in male androgenetic alopecia: a two-year study. Rossi A, Mari E, Scarno M, Garelli V et al. Int J Immunopathol Pharmacol. 2012 Oct-Dec;25(4):1167-73.
  7. Effects of long-term treatment with Serenoa repens (Permixon) on the concentrations and regional distribution of androgens and epidermal growth factor in benign prostatic hyperplasia. Di Silverio F1, Monti S, Sciarra A et al. Prostate. 1998 Oct 1;37(2):77-83.

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Echinacea: proprietà, controindicazioni, effetti collaterali

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Echinacea: schiacciasassi o schiacciamosche?

Ogni anno, all’affacciarsi dell’inverno, scatta la corsa al rimedio che ci promette di non farci ammalare, di rinforzare le nostre difese immunitarie, di ridurre i tempi di guarigione e chi più ne ha più ne metta. In commercio esistono ormai tanti prodotti che vantano la capacità di difenderci dall’attacco di virus e batteri e oggi prenderemo qui in esame uno dei più conosciuti e utilizzati, l’Echinacea.

Cos’è e cosa contiene?

L’Echinacea è una pianta appartenente al genere delle Asteracee (Composite). Ad oggi se ne conoscono 9 specie principali, Echinacea Purpurea ed Echinacea Augustifoglia le più -, tutte native delle regioni del Nord America e usate tradizionalmente dai nativi americani a scopo medico [1].

Fiori di echinacea

iStock.com/Volosina

L’Echinacea contiene diversi composti bioattivi, tra cui

  • polisaccarridi,
  • flavonoidi,
  • derivati dell’acido caffeico e dell’acido cicorico, che sembra essere il composto maggiormente attivo [2].

I prodotti in commercio presentano un’estrema variabilità in termini di:

  • varietà di Echinacea presenti nella formulazione,
  • zona geografica di provenienza della pianta,
  • quantità di echinacea e tecnica di dosaggio,
  • forma di dosaggio (tinture madri, capsule, compresse, …),
  • presenza di sostanze coadiuvanti o sinergiche (altre erbe o vitamine, per esempio),

e tutto ciò rende difficile l’interpretazione e la classificazione univoca dei risultati ottenuti tramite i test clinici e farmacologici.

A cosa serve? Ma soprattutto, funziona?

L’Echinacea ha una lunga storia di utilizzo in ambito curativo per un’ampia varietà di problematiche, dalle ferite ai morsi di serpente al mal di denti alle infezioni del tratto urinario, solo per citarne alcune [3]. Questi utilizzi, tuttavia, appartengono prevalentemente all’ambito della medicina popolare e/o non sono supportati da sufficienti evidenze scientifiche.

Attualmente l’interesse maggiore, anche dal punto di vista della ricerca scientifica, riguarda le sue proprietà immunostimolanti e quindi l’impiego nella prevenzione e nel trattamento della sindrome influenzale, in particolare delle infezioni del primo tratto respiratorio (raffreddore, faringiti e laringiti)

Secondo alcune ricerche l’Echinacea sarebbe infatti in grado di stimolare l’attività dei nostri “difensori” endogeni, ossia

  • macrofagi,
  • interleuchine,
  • leucociti polimorfonucleati (granulociti)
  • cellule cosiddette natural killers. [2]
Capsule di Echinacea, con un fiore sullo sfondo

iStock.com/evgenyb10

Nell’intento di presentare alcune dei risultati più promettenti, è doveroso sottolineare che il grande limite degli studi condotti sinora riguarda l’eterogeneità dei dosaggi, della durata dei test, del numero di persone coinvolte, fattori che non permettono di trarre conclusioni solide né tantomeno definitive. Gli studi sul meccanismo d’azione sono inoltre stati condotti prevalentemente in vitro, quindi su sistemi “isolati”, mentre poco si sa di cosa avvenga davvero in vivo.

In uno studio in vitro pubblicato nel 2014 [4] è stata testata l’efficacia di un estratto di Echinacea Purpurea in caso di influenza virale, con successivo attacco batterico da Haemophilus influenzae e Staphylococcus aureus. Dai risultati ottenuti si è potuto constatare che l’estratto di Echinacea è in grado di ridurre l’adesione di questi batteri a livello dei bronchi, contribuendo così a prevenire l’insorgenza di complicanze (sinusiti, bronchiti) in caso di attacco batterico. Sono risultati ottenuti in vitro, su cellule isolate: se fossero confermati in vivo si aprirebbero possibilità interessanti di utilizzo terapeutico.

Nel 2015 sono stati pubblicati i risultati di uno studio randomizzato in doppio cieco [5] condotto su 473 pazienti con iniziali sintomi di influenza: a metà di loro è stato somministrato l’Oseltamivir (un farmaco antivirale usato nella profilassi dell’influenza di tipo A e B) per 5 giorni+5 giorni di placebo, all’altra metà una preparazione a base di Echinacea Purpurea per 10 giorni. I due rimedi sono risultati egualmente efficaci, ma con minor incidenza di complicanze nel gruppo trattato con l’Echinacea.

Uno studio randomizzato controllato versus placebo, pubblicato nel 2012 dai ricercatori dell’Università di Cardiff, ha esaminato l’efficacia di un estratto di Echinacea purpurea nella prevenzione dell’influenza per un periodo di 4 mesi su 755 volontari sani [6]. La dose di Echinacea corrispondeva a 2400 mg di estratto secco al giorno, da aumentare fino a 4000 mg in caso avessero contratto l’influenza. Secondo quanto riportato nelle conclusioni dello studio, l’Echinacea ha ridotto il numero totale degli episodi di influenza, con un buon profilo di sicurezza, non inferiore al placebo.

L’attività diretta sul sistema immunitario è stata evidenziata in uno studio pubblicato lo scorso aprile [2], in cui i ricercatori hanno testato l’effetto dell’estratto di Echinacea Purpurea su topi precedentemente trattati con Ciclosporina A (CsA). La CsA è un farmaco immunosoppressore usato in caso di trapianti d’organo per evitare il rigetto, ma che può provocare diversi effetti collaterali, tra cui una marcata anemia e una diminuzione delle difese immunitarie a lungo termine, per interferenza con la produzione dei linfociti. Ebbene, sia a dosi minime che elevate (200 mg/kg/die), l’estratto di Echinacea si è dimostrato in grado di controbilanciare l’effetto della ciclosporina, aumentando il conteggio sia dei globuli rossi che di quelli bianchi.

Accanto a questi risultati incoraggianti, ve ne sono tuttavia altri che portano nella direzione opposta, come lo studio Cochrane del 2014 [7], che ha analizzato i risultati sull’efficacia dell’Echinacea nel trattamento del raffreddore comune derivanti da 24 studi in doppio cieco, su un totale di 4631 partecipanti. Ebbene, alcuni di questi studi suggerivano una riduzione del rischio di contrarre il raffreddore del 10-20%, ma in altri non si apprezzavano differenze significative in confronto col placebo. La conclusione dei ricercatori è stata molto prudente:

Esiste la possibilità di un supporto efficace di alcune formulazioni di Echinacea nella prevenzione delle sindrome influenzali, ma resta il dubbio che tale apporto sia clinicamente rilevante. [Echinacea for preventing and treating the common cold. Karsch-Völk M1, Barrett B, Kiefer D, Bauer R et al. Cochrane Database Syst Rev. 2014 Feb 20]

In conclusione, sulla base di questi e di numerose altre ricerche scientifiche, l’Echinacea, in alcune formulazioni commerciali, sembra avere un buon potenziale di efficacia nel rinforzare le difese immunitarie e ridurre il rischio di influenza, se assunta preventivamente. Non sembra invece altrettanto efficace nel ridurre il tempo di guarigione in caso l’influenza sia già in corso [1].

Attualmente il National Center for Complementary and Integrative Health (NCCIH), l’agenzia governativa degli USA che si occupa di esplorare la medicina complementare con criteri scientifici, sta finanziando la ricerca per identificare quali siano i componenti attivi della pianta e se siano realmente efficaci sul sistema immunitario dell’uomo [1].

Controindicazioni ed effetti collaterali

Dal punto di vista della sicurezza l’Echinacea non presenta grossi problemi nella popolazione adulta. In una revisione Cochrane su 16 studi randomizzati , che coinvolgevano circa 1000 individui (Melchart et al, 2004), gli eventi avversi o non erano presenti o non differivano dai gruppi trattati con placebo.

Laddove riportati, gli effetti indesiderati riguardano prevalentemente sintomi a carico dell’apparato digerente, come nausea e dolori addominali.

Attenzione deve essere tuttavia usata in caso di soggetti allergici, in quanto, agendo sulla risposta immunitaria in questo caso già amplificata, potrebbe peggiorarne i sintomi. In particolare, ai soggetti allergici alle Asteracee si consiglia di evitare preparazioni che contengano parti aeree della pianta.

Non sono note interazioni con farmaci, anche se è sconsigliato l’uso in pazienti trattati con immunosoppressori.

Echinacea nei bambini

L’opportunità di somministrare l’echinacea ai bambini a scopo preventivo è tuttora dibattuto nella comunità scientifica: se diversi pediatri sono propensi alla sua prescrizione, alcune società scientifiche ed organismi sanitari si dimostrano più cauti in proposito (fatto salvo il divieto di utilizzo di rimedi con grado alcolico come alcune tinture madri).

La letteratura, riguardo questo specifico argomento, non permette purtroppo di trarre conclusioni (alcuni lavori riportano il rischio di rash e reazioni allergiche, a differenza di altri che la ritengono un rimedio sicuro): si raccomanda per questo di fare sempre riferimento al proprio pediatra di fiducia.

Fonti e bibliografia

  1. National Center for Complementary and Integrative Health
  2. The Biological and Hematological Effects of Echinacea purpurea L. Roots Extract in the Immunocompromised Rats with Cyclosporine Hala A.H. Khattab, Seham K. Abounasef et al. J Microsc Ultrastruct. 2019 Apr-Jun; 7(2): 65–71.
  3. Echinacea species (Echinacea angustifolia (DC.) Hell., Echinacea pallida (Nutt.) Nutt.,Echinacea purpurea (L.) Moench): a review of their chemistry, pharmacology and clinical properties. Barnes J1, Anderson LA, Gibbons S, Phillipson JD. J Pharm Pharmacol. 2005 Aug;57(8):929-54.
  4. Prevention of influenza virus induced bacterial superinfection by standardized Echinacea purpurea, via regulation of surface receptor expression in human bronchial epithelial cells. Vimalanathan S, Schoop R, Suter A, Hudson J. Virus Res. 2017 Apr 2;233:51-59
  5. Effect of an Echinacea-Based Hot Drink Versus Oseltamivir in Influenza Treatment: A Randomized, Double-Blind, Double-Dummy, Multicenter, Noninferiority Clinical Trial. Rauš K, Pleschka S, Klein P, Schoop R, Fisher P. Curr Ther Res Clin Exp. 2015 Apr 20;77:66-72.
  6. Safety and Efficacy Profile of Echinacea purpurea to Prevent Common Cold Episodes: A Randomized, Double-Blind, Placebo-Controlled Trial M. Jawad, R. Schoop, A. Suter, P. Klein, and R. Eccles Evidence-Based Complementary and Alternative Medicine, Volume 2012, Article ID 841315, 7 pages
  7. Echinacea for preventing and treating the common cold. Karsch-Völk M1, Barrett B, Kiefer D, Bauer R et al. Cochrane Database Syst Rev. 2014 Feb 20

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Piede d’atleta (tinea pedis): cause, sintomi e rimedi

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Cos’è il piede d’atleta?

La tinea pedis, anche detta piede d’atleta, è un’infezione fungina che si manifesta negli spazi interdigitali (fra le dita) e/o nella pianta dei piedi.

Le manifestazioni sono ampiamente variabili trattandosi di

  • macerazione e ragadi tra le dita dei piedi,
  • chiazze arrossate (eritematose) ed ispessite (ipercheratosiche) alle piante,

spesso associate ad una intensa sintomatologia pruriginosa.

Tipicamente l’infezione viene contratta camminando a piedi nudi su superfici umide, come docce, piscine e pavimenti degli spogliatoi; per prevenire il contagio si raccomanda di:

  • aver cura di mantenere i piedi puliti, asciutti e freschi,
  • indossa calze pulite,
  • non camminare a piedi nudi nelle aree pubbliche, ivi comprese le docce,
  • mantere le unghie dei piedi pulite e tagliate corte.

La prognosi è in genere favorevole, perché l’infezione risponde alle comuni terapie antimicotiche.

Foto e immagini

Piede d'atleta sulla pianta del piede

iStock.com/MTMCOINS

Tinea pedis interdigitale, fra le ultime due dita

iStock.com/TuelekZa

Ulcerazioni da tigna

By Drgnu23 (original uploader) – Taken in my medical practice by DrGnu. I hold the agreement. There is no identifier in the picture., CC BY-SA 3.0, Link12

Causa

I responsabili della tinea pedis sono funghi dermatofiti, ovvero i miceti in grado di colonizzare la cheratina, la principale proteina che costituisce lo strato più superficiale della pelle (strato corneo dell’epidermide).

Tra questi

  • Tricophyton rubrum,
  • Tricophyton mentagrophytes variante interdigitalis
  • ed Epidermophyton floccosum

sono i più frequenti.

Si tratta di miceti antropofili, cioè che vivono a contatto con l’uomo e si trasmettono per contatto interumano diretto e/o indiretto. Le spore dei dermatofiti sono in grado di sopravvivere per mesi

  • nelle scarpe,
  • sui tappeti,
  • sui tappetini da bagno,
  • negli spogliatoi
  • e nelle docce.

Non solo i dermatofiti, ma anche le muffe (Scitalidium dimidiatum e Scitalidium hyalinum), specialmente in aree tropicali e subtropicali, causano infezioni dei piedi con manifestazioni molto simili a quelle causate dai dermatofiti.

Più raramente anche lieviti come la Candida albicans sono responsabile della tinea pedis.

Contagio e trasmissione

Il piede d’atleta è un’infezione dell’età adulta, più frequente nell’uomo che nella donna; si tratta di una condizione contagiosa, che può essere diffusa attraverso il contatto con oggetti o superfici contaminate, come ad esempio

  • asciugamani,
  • pavimenti
  • e scarpe.

Il contagio può avvenire anche per contatto diretto, toccando cioè la cute infetta di altri pazienti.

I funghi che causano il piede d’atleta trovano facile diffusione nell’ambiente, staccandosi dalla lesione e contaminando pavimenti e oggetti (per esempio calze e scarpe).

Ricordiamo infine la possibilità di auto-contagio: i funghi che causano la tinea pedis possono diffondersi da altre aree del corpo ai piedi, di solito a seguito di contatto con l’area interessata e successiva manipolazione dei piedi (con le mani o con asciugamani, per esempio).

Mentre il fungo responsabile rimane lo stesso, il nome della condizione cambia in base al punto in cui si trova l’infezione (tinea corporis nel caso del tronco o degli arti, tinea cruris nel caso dell’inguine, …). Come vedremo nel paragrafo dedicato alle complicazioni l’autocontagio può avvenire anche in senso inverso, dai piedi al resto del corpo.

Fattori di rischio

  • Si tratta di una condizione molto comune negli sportivi (da cui deriva il termine “piede d’atleta”) ed in persone che hanno l’abitudine di indossare delle scarpe in gomma o non traspiranti, che facilitano la creazione di un ambiente umido, terreno fertile per la proliferazione dei funghi.
  • È una condizione molto frequente tra i minatori, tanto che fino al 70% ne sviluppa l’infezione.
  • Altro fattore di rischio è costituito dai disturbi della circolazione sanguigna, tipici per esempio dei pazienti diabetici.
  • Altri fattori di predisposizione oltre al microambiente caldo-umido delle scarpe sono la
  • L’immunosoppressione, ovvero il deficit del funzionamento delle difese immunitarie per cause infettive (in primis l’infezione da virus dell’immunodeficienza umana, HIV) e/o farmacologiche (ad esempio l’utilizzo di farmaci immunosoppressori in seguito ad un trapianto d’organo) rappresenta un ulteriore fattore di rischio per la tinea pedis.

Sintomi

La tinea pedis può avere un’ampia varietà di manifestazioni cliniche:

  • La variante interdigitale (o intertriginosa) interessa gli spazi interdigitali dei piedi, più frequentemente gli spazi tra il terzo ed il quarto o tra il quarto ed il quinto dito, perché anatomicamente di norma a più stretto contatto tra di loro. Questa forma di tinea pedis si presenta con macerazione, erosione, desquamazione ed essudazione di materiale maleodorante. Il prurito è lieve, a meno che il paziente non vada incontro ad un’intensa sudorazione (ad esempio dopo una camminata): in questa situazione il prurito può diventare molto intenso. La sovrapposizione di un’infezione batterica da parte di Gram-negativi rende il quadro più grave.
  • La tinea pedis acuta ulcerativa inizia di norma a livello del terzo e quarto spazio interdigitale, per poi estendersi alla regione laterale del dorso e/o alla superficie plantare dell’arco del piede. Le lesioni si presentano con macerazioni e desquamazione.
  • La variante ipercheratosica o “a mocassino” si presenta con eritema (arrossamento), ispessimento (ipercheratosi) e desquamazione di una parte o anche di tutta la pianta del piede; si tratta nella maggior parte dei casi di un’infezione cutanea da T. rubrum associata ad un’infezione ungueale da parte dello stesso fungo.
  • La variante disidrosica (o vescicolosa), causata da funghi zoofili come T. mentagrophytes si manifesta nella pianta del piede con piccole lesioni cutanee rilevate contenenti materiale liquido (vescicole) o bolle derivanti dalla confluenza delle vescicole. Il bruciore e il prurito causati dalle bolle possono essere causa di grande disagio per il paziente.

Le ultime due forme di tinea pedis interessano tipicamente la pianta del piede, mentre le parti laterali ed il dorso del piede sono risparmiati.

Diagnosi

La diagnosi si basa sull’esame obiettivo e viene confermata dalla dimostrazione dell’agente microbico responsabile attraverso l’esame micologico (microscopico e colturale); questo esame, assolutamente indolore, prevede la raccolta delle squame da una lesione sospetta attraverso il grattamento della pelle con uno strumento chirurgico chiamato curette. Il materiale prelevato viene quindi osservato al microscopio per la ricerca diretta del micete (esame microscopico diretto) e poi inserito in appositi terreni di coltura (esame colturale). Le colonie fungine si sviluppano in 2-3 settimane e sono identificate sulla base degli aspetti macroscopici e microscopici.

La tinea pedis deve essere distinta da altre condizioni che possono determinare manifestazioni cutanee e sintomi simili:

Si noti che l’eventuale presenza bilaterale delle manifestazioni, ossia quando si presentano su entrambi i piedi, è in genere indicativo di un’infiammazione diversa dal piede d’atleta.

Prognosi e complicazioni

La prognosi è favorevole e non si verificano complicazioni quando la diagnosi è corretta e tempestiva. L’esame micologico per la dimostrazione del fungo consente di chiarire i casi clinicamente dubbi.

Quando la tinea pedis viene confusa con altre dermatosi e trattata erroneamente con farmaci steroidei topici che agiscono sulla componente infiammatoria, riducendola, si osserva una proliferazione del fungo e l’estensione dell’infezione dopo un primo momentaneo miglioramento (motivo per il quale si raccomanda prudenza quando si opta per l’automedicazione di condizioni che affliggono la pelle).

Nella variante interdigitale, inoltre, le macerazioni ed erosioni, se non trattate adeguatamente, possono evolvere in ragadi profonde con eventuali sovrainfezioni batteriche; in pazienti immunocompromessi questo rischio è ovviamente più elevato ed espone a possibili evoluzioni severe in forma di:

Rimedi e cura

La terapia della tinea pedis è preferibilmente locale; sono disponibili in commercio numerosi farmaci azolici sotto forma di

  • creme,
  • lozioni,
  • spray,
  • polvere (bifonazolo, miconazolo, econazolo, ketoconazolo).

Per uso topico si può anche scegliere la nistatina in spray o la ciclopiroxolamina in soluzione/polvere.

I prodotti topici si applicano per almeno 14 giorni consecutivi, non solo sulle lesioni, ma anche 2-3 centimetri oltre.

Si raccomanda di attenersi scrupolosamente alle norme suggerite nel paragrafo “Prevenzione” fin dall’inizio della terapia farmacologica.

La terapia per bocca, che si utilizza nei casi di lesioni particolarmente estese e pruriginose, può essere a base di:

  • ketoconazolo al dosaggio di 200 mg al giorno per almeno 2 settimane;
  • fluconazolo alla dose di 100 mg al giorno da assumere per almeno 2 settimane;
  • itraconazolo alla dose di 200/400 mg al giorno per 1-2 settimane; da considerare con cautela l’associazione di questo principio attivo come degli altri derivati azolici sopracitati con alcuni farmaci quali ciclosporina, diuretici, antidiabetici orali, anticoagulanti, rifampicina, contraccettivi con i quali gli azolici possono interferire;
  • terbinafina alla dose di 250 mg al giorno per 4 settimane; rispetto ai derivati azolici, crea problemi di interferenze con un più ristretto numero di altri principi attivi (rifampicina).

Gli eventuali effetti collaterali di questi farmaci sono minimi e reversibili alla sospensione.

Gli antimicotici per via sistemica sono controindicati durante la gravidanza e l’allattamento.

Prevenzione

Le misure preventive consistono nell’utilizzo di sandali in plastica/gomma quando si usano le docce comuni, nell’asciugatura attenta dei piedi (inclusi gli spazi interdigitali) e nell’indossare calze e scarpe pulite ad uso personale.

In caso di recidive frequenti si consiglia a scopo preventivo di applicare giornalmente una polvere antimicotica direttamente sui piedi oppure all’interno delle calze.

Fonti e bibliografia

  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Wolff K., Johnson R., Saavedra A. Fitzpatrick Manuale ed Atlante di Dermatologia clinica. Edizione italiana sulla settima di lingua inglese a cura di Mauro Alaibac. Piccin 2015.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.

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Intervento per appendicite: preparazione e procedura

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Che cos’è l’appendice?

L’appendice è una sporgenza vermiforme del grosso intestino (o colon) della lunghezza di qualche centimetro; nella maggior parte delle persone origina dalla porzione del cieco del colon, che si localizza nella parte più bassa dell’addome a destra, ma in tante persone può essere localizzata in altri punti. Questa è la ragione per cui non sempre una malattia dell’appendice si manifesta con un dolore a destra in basso nella regione addominale.

Ricostruzione grafica della posizione anatomica dell'appendice

iStock.com/corbac40

L’appendicite acuta, cioè l’infiammazione dell’appendice, è una delle più frequenti patologie a carico dell’appendice ed è anche una delle cause più frequenti di addome acuto, una condizione caratterizzata da dolore addominale grave.

Ci sono due principali cause di appendicite:

  • ostruzione del lume dell’appendice da parte di materiale fecale (i cosiddetti coproliti),
  • aumento di volume dei linfonodi che si trovano attorno all’appendice con conseguente compressione e ristagno sanguigno.

È importante rivolgersi al medico qualora si avvertano sintomi suggestivi di appendicite, perché risulta cruciale una diagnosi precoce al fine di evitare l’instaurarsi di complicanze che possono rendere la patologia molto più grave (perforazione dell’appendice o ascessi intraddominali).

L’appendicite in genere esordisce con un dolore addominale che può avere intensità fluttuante (“che va e viene”), ma che entro poche ore si localizza in basso a destra, dove di solito si trova l’appendice, diventando più costante e intenso.

Premere su quest’area, tossire o camminare può peggiorare il dolore.

Ad accompagnare il dolore il paziente spesso lamenta

Il medico eseguirà inizialmente un esame clinico dell’addome attraverso

  • palpazione,
  • percussione
  • e auscultazione.

La diagnosi è quindi essenzialmente clinica, tuttavia, spesso si ricorre ad un’ecografia che può confermare l’ipotesi. In soggetti anziani o, viceversa nei bambini, potrebbero essere utili esami di imaging più approfonditi come una TAC addominale.

Quando è necessaria l’operazione

Esistono due tipi di approccio dell’appendicite acuta:

  • trattamento medico, che si basa sull’utilizzo di antibiotici (generalmente amoxicillina) per 8-15 giorni,
  • trattamento chirurgico (appendicectomia): utilizzando diverse tecniche chirurgiche si rimuove l’appendice riducendo i sintomi e il tasso di complicanze.

La terapia d’elezione è quella chirurgica, anche in considerazione del fatto che nell’uomo l’appendice non svolge alcuna funzione importante e la sua rimozione non causa problemi a lungo termine; la chirurgia garantisce inoltre minori rischi di

  • complicanze,
  • recidiva.

Solo in rari casi si opta per la sola terapia antibiotica, per esempio

  • per alcuni casi privi di complicazioni,
  • in presenza di un ascesso attorno all’appendice formatosi da almeno 2 giorni che ha circondato il sito di infezione, ma che comunque richiederà a 2 mesi di distanza un’appendicectomia.

Preparazione all’intervento

L’intervento viene eseguito nella maggior parte dei casi a poche ore dal ricovero; verranno effettuati esami del sangue per valutare lo stato dell’organismo e la severità dell’infezione (gli esami di imaging sono in genere già richiesti nella fase di diagnosi che ha preceduto il ricovero); l’insieme delle informazioni raccolte viene valutato da anestesista e chirurgo prima dell’intervento, mentre è importante avvisare il personale medico e infermieristico riguardo ad un’eventuale terapia antiaggregante e/o anticoagulante in corso.

Verranno quindi iniziate:

  • una terapia idratante con soluzione fisiologica endovenosa,
  • una terapia antibiotica circa 60 minuti prima dell’intervento
  • e in alcuni pazienti anche una terapia di prevenzione della trombosi venosa a base di eparina che viene somministrata tramite punture sottocutanee.

Che anestesia viene praticata?

Nella quasi totalità dei casi l’intervento di rimozione dell’appendice viene eseguito in anestesia generale.

Quanto dura l’intervento?

La durata dell’intervento è di circa 30-60 minuti, variabili a seconda di difficoltà tecniche.

Come avviene l’intervento

Tecnica a cielo aperto

Attraverso un’incisione cutanea di circa 5-10 cm a livello della regione inferiore dell’addome a destra il chirurgo espone la regione dell’intestino crasso da cui origina l’appendice.

Una volta che l’appendice è stata identificata, viene isolata dal grasso che la circonda e vengono isolati i vasi sanguigni che la irrorano; dopo che questi vasi sono stati resecati viene rimossa l’appendice suturando la porzione di colon da cui questa originava.

Cicatrice post-intervento di rimozione dell'appendice

iStock.com/AvigatorPhotographer

Tecnica laparoscopica

Dopo l’anestesia, verrà inserito un sondino naso-gastrico per distendere lo stomaco e un catetere vescicale.

Generalmente si eseguono 3 piccole incisioni sull’addome:

  • a livello ombelicale,
  • a livello sovrapubico,
  • a livello del basso addome a sinistra

attraverso cui sono inseriti gli strumenti tra cui una telecamera dotata di luce e due strumenti che serviranno per togliere l’appendice. Nelle ultime fasi dell’intervento sarà eseguita un’ulteriore piccola incisione a livello della cute sovrastante l’appendice, attraverso cui sarà estratta con specifici strumenti.

Ferite da laparoscopia dopo appedicectomia

iStock.com/annedehaas

Vantaggi della tecnica laparoscopica

A differenza di altri tipi di intervento chirurgico, la tecnica laparoscopica nel caso dell’appendicite non sempre è più vantaggiosa, perché in alcuni casi può aumentare il tasso di complicanze intra-operatorie.

I vantaggi invece sono:

  • minor dolore post-operatorio,
  • minor tempo di degenza,
  • minor tasso di infezione della ferita,
  • minor tempo di ripresa della motilità gastrointestinale.

La scelta riguardo al tipo di intervento da eseguire spetta quindi al chirurgo che, discutendo rischi e benefici con il paziente, ne valuterà il quadro clinico.

Schematizzazione dell'intervento di rimozione dell'appendice con laparoscopia

iStock.com/marina_ua

Dopo l’intervento

È importante alzarsi dal letto e muoversi il prima possibile per ridurre il rischio di complicanze, anche gravi, come l’embolia polmonare: nel caso in cui l’incisione sia stata particolarmente ampia (per esempio nel caso di appendicite perforata) è tuttavia necessario del riposo aggiuntivo.

Durante l’intervento potrebbero essere posizionati uno o più tubi di drenaggio che servono per valutare la tenuta delle suture eventualmente praticate.

È possibile ricominciare a nutrirsi per bocca lo stesso giorno dell’intervento, generalmente non prima di 8 ore dall’operazione, a cui comunque viene associata una reidratazione endovenosa.

Potrebbe essere presente dolore a livello del sito di incisione cutanea, che viene gestito in modo specifico attraverso la somministrazione di farmaci analgesici; nei pazienti trattati con tecnica laparoscopica potrebbe manifestarsi anche dolore cervicale o alla spalla, legato alla necessità di insufflare anidride carbonica in addome per distenderlo durante l’intervento, potenzialmente causa d’irritazione di alcuni nervi.

Dimissione

La dimissione avverrà in 1-2 giorni, variabili a seconda del decorso post-operatorio (ovvero della presenza o meno delle complicanze); nel caso di appendicite perforata, oltre all’idratazione endovena, verrà impostata una terapia antibiotica e la degenza potrebbe prolungarsi per qualche giorno.

Convalescenza

Al domicilio sarà necessario astenersi da sforzi importanti per circa 10 giorni e mantenere a riposo l’intestino con una dieta varia, ma leggera.

Nelle settimane seguenti l’intervento sarà programmata una visita ambulatoriale con il chirurgo per

  • verificare il decorso post-operatorio,
  • togliere i punti,
  • discutere i risultati dell’eventuale esame istologico effettuato sull’appendice asportata (una misura precauzionale, che solo raramente evidenzia problemi).

Complicanze e rischi

Le complicanze di un intervento di appendicectomia sono:

  • complicanze legate a qualsiasi tipo di intervento chirurgico maggiore:
    • cardiovascolari,
    • polmonari;
  • complicanze infettive, principalmente infezione dell’incisione cutanea e/o formazione di ascesso intraddominale.

Quando chiamare il medico

Una volta che si verrà dimessi si raccomanda di contattare il medico in caso di

Fonti e bibliografia

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Intervento di bypass coronarico: rischi, convalescenza, …

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Che cosa sono le coronarie?

Le coronarie sono arterie che originano dalla prima porzione dell’aorta e che hanno la funzione di fornire sangue al muscolo del cuore.

Sono i vasi più spesso colpiti dall’aterosclerosi, una condizione caratterizzata dalla formazione di placche all’interno del lume del vaso sanguigno, con conseguente riduzione del flusso di sangue. La porzione di muscolo cardiaco a valle del punto in cui si trova la placca riceverà quindi poco ossigeno fino allo sviluppo, nei casi più gravi, dell’infarto del miocardio (cioè del muscolo del cuore).

Schematizzazione della coronaropatia

iStock.com/wowwa

L’aterosclerosi delle arterie coronariche è una delle patologie più frequenti nel mondo occidentale e sono ormai ben noti i fattori di rischio tra cui:

I sintomi di una malattia alle arterie coronarie possono essere del tutto assenti fino agli stati più avanzati, ma è importante prestare attenzione ai segnali più allarmanti che richiedono un’urgente valutazione ospedaliera:

  • dolore al torace avvertito dietro allo sterno (angina): può insorgere durante uno sforzo e ridursi subito dopo oppure può comparire a riposo,
  • dolore al torace che si irradio al braccio sinistro e/o destro, al collo e/o alla mandibola,
  • dolore avvertito a livello dello stomaco con sudorazione intensa,
  • difficoltà respiratorie.

In ospedale, in caso di presenza di quest sintomi, verranno eseguiti

  • una scrupolosa visita,
  • esami del sangue per valutare l’eventuale danno del muscolo cardiaco,
  • un elettrocardiogramma.

In caso di persistenza di dubbi sulla diagnosi può essere finanche richiesta un’ecocardiografia, esame utile a valutare il corretto movimento del cuore.

Come intervenire se le coronarie sono ostruite?

Esistono diverse modalità di intervento nel caso si riconosca come causa dei sintomi un’ostruzione delle arterie coronarie:

  • PTCA (angioplastica coronarica transluminale percutanea) detta anche comunemente angioplastica con stent: attraverso una puntura dell’arteria radiale che passa a livello dell’avambraccio viene introdotto un piccolo catetere, condotto poi dallo specialista fino alle coronarie. Una volta che il catetere si trova in corrispondenza della placca viene applicato uno stent, una sorta di palloncino che mantiene pervio il lume dell’arteria.
  • Fibrinolisi: quando non si può eseguire l’angioplastica in tempo si può decidere di somministrare farmaci che “sciolgono” il coagulo di sangue che si forma sulla placca.
  • Bypass: si tratta di una tecnica cardiochirurgica che ha come obiettivo quello di oltrepassare il punto in cui c’è la placca attraverso la creazione di un percorso alternativo per il sangue.

L’intervento di bypass coronarico reindirizza il sangue in un percorso diverso da quello bloccato per continuare a garantire un adeguato flusso sanguigno al muscolo cardiaco; la procedura prevede il prelievo di un vaso sanguigno sano dalla gamba, dal braccio o dal torace, che sarà posizionato in modo da creare un nuovo passaggio per il sangue.

Anche se la chirurgia di bypass coronarico non può curare la malattia cardiaca che ha causato la formazione dell’ostacolo, può alleviarne i sintomi (come dolore toracico e mancanza di respiro) oltre a migliorare la funzione cardiaca e ridurre il rischio di morire di malattie cardiache.

Quando è indicato il bypass?

La scelta del tipo di intervento è complessa, e si basa sempre su una discussione multidisciplinare tra il cardiologo e il cardiochirurgo.

In linea generale si preferisce il bypass se sono presenti alcuni fattori tra cui:

  • Fattori medici:
    • diabete,
    • funzione cardiaca ridotta,
    • precedente angioplastica fallita,
  • controindicazioni alla somministrazione di farmaci antiaggreganti (come aspirina),
  • fattori anatomici:
    • presenza di una grande placca nel ramo principale di una arteria coronaria o coinvolgimento diffuso delle coronarie.

Preparazione all’intervento

Verranno eseguiti degli esami del sangue di routine, i cui risultati saranno poi discussi durante la visita anestesiologica; potrebbe essere richiesta una radiografia del torace ed esami aggiuntivi per la funzione cardiaca come, una ecocardiografia.

È necessario informare il personale sanitario riguardo l’assunzione di farmaci anticoagulanti e/o antiaggreganti.

Anestesia

L’intervento viene eseguito in anestesia generale.

Quanto dura l’intervento

Nella maggior parte dei casi l’intervento di bypass cardiocoronarico dura da 2 a 6 ore, variabili a seconda delle difficoltà tecniche.

Come avviene l’intervento

Esistono due tecniche:

  • Tecnica tradizionale a cuore fermo: viene eseguita un’incisione per tutta la lunghezza dello sterno, fino ad esporre la regione del cuore. Successivamente, attraverso alcuni tubi, il cuore viene connesso con una macchina esterna e viene fermato: sarà la macchina che supplirà alle funzioni cardiache per tutta la durata dell’intervento. Il chirurgo deciderà se utilizzare come bypass un’arteria che si trova internamente al torace piuttosto che del braccio, o una vena della gamba: questi vasi verranno suturati a livello dell’arteria coronaria malata in modo da riportare il flusso sanguigno al muscolo cardiaco. Al termine la macchina esterna sarà svuotata dal sangue e il cuore ripartirà a battere regolarmente.
  • Tecnica mini-invasiva a cuore battente: attraverso la medesima incisione della tecnica tradizionale, o attraverso incisioni più piccole, verrà eseguito lo stesso tipo di intervento senza però la necessità di fermare il cuore, fattore che lo rende più complicato da svolgere e per esempio non adatto ai casi in cui è necessario procedere in regime d’urgenza; i vantaggi di questo approccio consistono invece fondamentalmente in:
    • riduzione del tempo necessario all’intervento,
    • riduzione del rischio sanguinamento durante l’intervento chirurgico e di complicazioni in genere,
    • tempi di ricovero più brevi.

Oggi, si tendono ad utilizzare maggiormente bypass arteriosi perché garantiscono una maggior durata nel tempo.

Ii vasi sanguigni usati per la creazione del bypass possono essere prelevati

  • dalla gamba (vena safena),
  • all’interno del torace (arteria toracica interna)
  • o dal braccio (arteria radiale),

scelti perché altri vasi sanguigni fisiologicamente presenti in queste aree sono in grado di compensare adeguatamente la loro rimozione.

Il numero di vasi sanguigni utilizzati dipende dalla gravità della malattia coronarica e da quanti vasi sanguigni coronarici si sono occlusi (ecco perché talvolta si parla di doppio, triplo o quadruplo bypass).

Esempio di bypass singolo, doppio, triplo e quadruplo

By BruceBlaus. When using this image in external sources it can be cited as:Blausen.com staff (2014). “Medical gallery of Blausen Medical 2014“. WikiJournal of Medicine 1 (2). DOI:10.15347/wjm/2014.010. ISSN 2002-4436. – Own work, CC BY 3.0, Link

In genere l’arteria toracica interna viene preferita perché in grado di garantire una maggior resistenza al restringimento nel tempo rispetto a quelle prelevate da gambe o braccia.

Tecnicamente si procede prima al prelievo dei vasi sostitutivi, per poi passare all’accesso cardiaco.

Dopo l’intervento

Nella maggior parte dei casi non si verrà risvegliati immediatamente dopo l’intervento, piuttosto il paziente sarà trasferito in un reparto di Terapia Intensiva Post-operatoria dove passerà alcune ore o alcuni giorni a seconda delle proprie condizioni. Qui, lentamente, il paziente  verrà risvegliato ma sarà ancora costantemente monitorato, anche e soprattutto in termini di elettrocardiogramma.

Verranno somministrati analgesici per controllare il dolore.

Quando le condizioni cliniche saranno soddisfacenti, si verrà trasferiti in un reparto di degenza (cardiochirurgia o cardiologia) dove si terminerà il processo di cura e si avvierà il processo di riabilitazione cardiologia, qualora indicato.

Convalescenza

I tempi di convalescenza variano da persona a persona, ma generalmente dopo 2-3 giorni sarà possibile alzarsi e fare i primi passi con l’aiuto del personale infermieristico; dopo 1 settimana si potrà occuparsi autonomamente dell’igiene personale, mentre la dimissione avviene in genere dopo circa 7-10 giorni.

Nei giorni successivi all’intervento si potrà avvertire tosse con catarro: sono reazioni normali legate all’anestesia e al ricovero in terapia intensiva.

L’NHS inglese stima che mediamente servano:

  • 24 ore per riuscire a sedersi,
  • camminare dopo 3 giorni,
  • fare le scale dopo 5 o 6 giorni,
  • 12 settimane per recuperare completamente.

Dimissione

Alla dimissione, verrà prescritto un piano di riabilitazione cardiologica che generalmente dura 1 mese.

Verranno programmate delle visite di controllo cardiologiche e cardiochirurgiche, in cui sono previsti tra l’altro un elettrocardiogramma e un’ecocardiografia.

Sarà inoltre necessario:

  • attenersi ad una scrupolosa terapia farmacologica volta a ridurre il rischio di nuovi episodi di aterosclerosi,
  • impostare una dieta adeguata con l’aiuto del proprio medico curante,
  • evitare il fumo.

Per le prime 3-6 settimane è normale sentirsi stanchi, perché l’organismo usa l’energia disponibile per guarire, ma anche se ci si sentisse bene è necessario non aver fretta di tornare precocemente al quotidiano:

  • l’attività lavorativa può essere iniziata circa 1 mese dopo l’intervento,
  • i tempi di ripresa della pratica di esercizio fisico devono essere attentamente valutati con il proprio medico curante o con il cardiologo.

Possono comparire piccoli fastidi per qualche settimana come

È infine naturale che il tono dell’umore sia più basso del solito dopo un intervento chirurgico di bypass al cuore, ma nel corso delle settimane successive il recupero sarà completo.

Complicanze dell’intervento

I possibili rischi legati all’intervento di bypass sono comuni a quelli di tutti gli interventi di chirurgia maggiore:

Quando chiamare il medico

È necessario rivolgersi al in ospedale se si presentano:

Fonti e bibliografia

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Dieta per ingrassare: cosa mangiare?

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Introduzione

La maggior parte delle persone che si rivolge al nutrizionista ha problemi di peso e vorrebbe perdere qualche chilo; esiste però anche una certa percentuale di persone che ha il problema opposto: aumentare di peso.

La magrezza eccessiva, infatti, pur essendo molto più accettata socialmente, è comunque un fattore di rischio per il mantenimento della buona salute. Uno dei modi più facili per capire se c’è questo problema è svolgere il calcolo dell’Indice di Massa Corporea (Body Mass Index, BMI): peso espresso in kg diviso l’altezza in metri al quadrato: kg/(m2). Se il valore ottenuto è

  • tra 18.5 e 25 allora siamo normopeso,
  • sopra il 25 c’è una condizione di sovrappeso o obesità,
  • sotto i 18.5 si è sottopeso.

La causa principale della magrezza è l’insufficiente introito di nutrienti e questa può avere varie origini, tra cui per esempio:

  • problemi di malassorbimento intestinale,
  • problemi psicologici,
  • cattive abitudini,

A seconda delle situazioni la soluzione può essere diversa, ma l’obiettivo dell’intervento dietetico, comunque, sarà sempre quello di far assimilare alla persona quel quantitativo necessario di nutrienti per poter aumentare di peso.

Cosa succede quando si aumenta di peso

Un altro concetto importante da chiarire è la differenza tra ingrassare e aumentare di peso.

  • Nel primo caso l’aumento di peso è dato dall’aumento del grasso corporeo;
  • nel secondo caso può essere genericamente dovuto ad un aumento della quota di grasso, muscoli, acqua o di una combinazione dei tre.

Per le persone eccessivamente magre di norma si punta a perseguire la seconda opzione: quando c’è una carenza di grasso (esiste una quantità minima di grasso che è consigliabile possedere in condizioni standard, pari all’incirca al 7% nell’uomo e al 16% nella donna) è molto facile rilevare anche una carenza di massa magra, quindi acqua e muscoli, il cui aumento va quindi perseguito di pari passo.

Per questa ragione le indicazioni, in assenza di patologie, non sono semplicemente “mangia di più”, ma comprendono anche un rispetto dell’equilibrio nell’introito dei nutrienti.

Ovviamente il tutto dipenderà anche dalla fisicità della persona che si ha davanti: non si può pretendere che una donna di un metro e mezzo che ha sempre pesato meno di 40 kg possa arrivare a pesarne 50 in pochi mesi. Altra valutazione chiave è quella relativa all’esercizio fisico:

  • se si fa molto sport e si mangia in maniera insufficiente si tende a perdere muscolo,
  • se invece l’alimentazione è abbondante avremo la tendenza opposta.

Cosa mangiare?

In linea generale, dopo aver escluso patologie, è importante non privarsi di nulla nell’alimentazione.

Grande attenzione va posta nel garantire un regolare consumo di alimenti vegetali, come ad esempio:

  • pasta, pane e cereali vari,
  • legumi,
  • frutta secca,
  • frutta di tutti i tipi,
  • verdura di tutti i tipi.
Alimenti sani che possono rientrare nella dieta per prendere peso

iStock.com/yulka3ice

Nonostante i prodotti vegetali siano considerati dietetici dalla massa (a parte pasta, pane e frutta secca) e, più importante, nonostante aumentino il senso di sazietà, questi alimenti non devono mai mancare, perché in grado di apportare nutrienti importanti come minerali e vitamine indispensabili per il mantenimento della salute.

L’altro aspetto chiave è relativo all’apporto proteico: gli alimenti di origine animale hanno il vantaggio di essere spesso molto densi in proteine, sono quindi un ottimo modo per supportare l’alimentazione. Suggerisco in particolare

  • carni bianche
  • pesce di qualsiasi tipo
  • latte e latticini scremati o parzialmente scremati
  • uova
  • yogurt interi

Mentre, è meglio non esagerare con

  • carni rosse,
  • carni lavorate (es. prosciutto, bresaola, carne in scatola),
  • molluschi e crostacei,
  • lardo e strutto,
  • yogurt magri.

Questi alimenti non andrebbero mangiati di frequente per motivi salutistici: alcuni per il loro contenuto in grassi, altri – come lo yogurt magro – perché tipicamente addizionati con zucchero.

Il grasso dev’essere soprattutto di origine vegetale, ed ecco che rientra la frutta secca ma anche e soprattutto l’olio extravergine di oliva. Di nuovo, per motivi salutistici, è meglio limitare l’assunzione di

  • oli diversi,
  • burri
  • e margarine.

In tutto ciò, ovviamente, l’obiettivo dell’aumento di peso deve essere raggiunto aumentando l’introito di cibo durante la giornata, ed è questo l’ostacolo più grande. Molto spesso una persona magra non è abituata a grandi volumi di cibo: è bene quindi prevedere numerosi pasti e merende, anche in assenza di fame, e aumentare gradualmente la quantità di cibo per singolo pasto.

In caso di difficoltà, e secondo il giudizio del professionista, ci si può aiutare con integratori completi di carboidrati, proteine e grassi, per aumentare l’introito calorico e di nutrienti senza aumentare troppo il volume del cibo.

Via libera comunque alla golosità: tutto ciò che ho messo sopra come “da limitare” non significa che vada eliminato completamente; dolci, gelati e torte sono comunque un ottimo modo per aumentare il contenuto calorico di una dieta con volumi relativamente ristretti, se consumati con moderazione.

In conclusione possiamo dire che aumentare di peso non è così facile come sembra, ma è possibile farlo con un’alimentazione completa e abbondante e uno stile di vita che comprenda anche dello sport regolare.

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A cosa serve la broncoscopia? Rischi? Durata?

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Cos’è la broncoscopia?

La broncoscopia è una procedura diagnostica e/o terapeutica invasiva che ha lo scopo di visualizzare direttamente le vie aeree per riconoscere patologie e, in alcuni casi, per trattarle.

Permette ad esempio di stabilire i microrganismi responsabili di un’infezione (come la polmonite), diagnosticare un tumore o malattie rare (come fibrosi polmonari, sarcoidosi e vasculiti) chiarendo l’origine e la causa di sintomi e segni anomali quali presenza di sangue nell’espettorato.

Può avere infine risvolti terapeutici, consentendo la rimozione di secrezioni bronchiali ed eventuali corpi estranei.

Esemplificazione della broncoscopia

iStock.com/marina_ua

A cosa serve?

Sono numerose le ragioni che possono indurre un medico a richiedere una broncoscopia, ma possiamo suddividerle in due grosse categorie:

  • diagnostiche, volti cioè a definire la presenza o l’assenza di una patologia,
  • terapeutiche, che hanno come obiettivo quello di trattare una patologia.

Indicazioni diagnostiche

  • Sintomi respiratori persistenti: per esempio sono indicazioni
  • Referto di una radiografia del torace non chiaro o sospetto per alcune patologie: il riscontro alla radiografia di masse di natura dubbia o la presenza di un quadro radiologico poco chiaro sono indicazioni alla broncoscopia.
  • Collasso di un polmone: può avvenire per una ostruzione da corpo estraneo o per una massa che occupa tutto il bronco.
  • In urgenza/emergenza nel caso in cui si riconosca l’inalazione di corpo estraneo che impedisce la respirazione o nel caso in cui ci sia stato un trauma toracico con lesione delle vie aeree.

Indicazioni terapeutiche

  • Esecuzione di biopsie per chiarire la natura di una lesione riscontrata in corso di broncoscopia.
  • Esecuzione di lavaggi broncoalveolari (BAL) con prelievo del liquido di lavaggio.
  • Prelievo di campioni per esame citologico.
  • Trattamento di lesioni vascolari.
  • Rimozione di tappi di muco o di corpi estranei.
  • Trattamento di fistole (cioè comunicazioni anomale tra le vie aeree e un altro organo adiacente)

Come si esegue?

Uno specifico strumento (broncoscopio) dotato di telecamera ad un’estremità viene inserito lungo le vie respiratorie, solitamente attraverso il naso o la bocca (più raramente attraverso una tracheostomia), per consentire al medico di esaminare le vie aeree del paziente alla ricerca di anomalie come corpi estranei, sanguinamento, tumori o infiammazione.

È possibile prelevare piccoli campioni di tessuto o altro materiale presente all’interno dei polmoni.

Attrezzatura

Lo strumento principale è il broncoscopio, un piccolo tubo dotato di

  • una fonte luminosa,
  • una telecamera
  • e dei canali attraverso cui possono essere fatti passare degli strumenti di lavoro (come pinze per la biopsia).

Il broncoscopio è lungo in media 60-80 cm ed il tubo ha un diametro di 4-5 mm.

Normalmente si ricorre a broncoscopi flessibili, salvo in specifiche condizioni in cui è richiesto l’accesso con strumenti rigidi.

Preparazione

Nei giorni precedenti l’indagine potrebbero essere richiesti esami del sangue per valutare la capacità di coagulazione; a questo proposito è importante informare il personale medico ed infermieristico riguardo l’assunzione di farmaci antiaggreganti e/o anticoagulanti, perché potrebbe essere necessario sospenderli qualche giorno prima della procedura.

È necessario arrivare al momento dell’esame a digiuno da almeno 6-8 ore e astenersi dal fumo prima della procedura.

Dopo aver acquisito il consenso informato, verrà chiesto di stendersi in posizione supina su un lettino in un ambulatorio specifico, dotato di tutta la strumentazione utile per l’esecuzione della broncoscopia.

Verrà applicato ad un dito della mano un piccolo strumento simile ad una pinza, il pulsiossimetro, che misura continuamente la frequenza cardiaca e il contenuto di ossigeno nel sangue. Potrebbe essere misurata anche la pressione arteriosa ad intervalli regolari durante la procedura.

Successivamente, un infermiere somministrerà 2 o 3 spruzzi di anestetico direttamente in gola (eventualmente anche nel naso e in bocca se necessario), al fine di permettere una riduzione del disagio legato all’ingresso del broncoscopio; potrebbe inoltre essere inserito un piccolo ago in una vena del braccio per somministrare un farmaco ansiolitico, in grado d’indurre una leggera sonnolenza.

La procedura

Nella maggior parte dei casi il medico inserirà lentamente l’estremità del tubo del broncoscopio dal naso (o dalla bocca), facendosi delicatamente strada lungo le vie aeree.

Durante l’esame il paziente è in grado di parlare e respirare autonomamente, ma i primi minuti potrebbero essere un po’ fastidiosi, soprattutto quando il broncoscopio passa attraverso le corde vocali; è possibile in questi casi provvedere alla somministrazione di ulteriori dosi di anestetico, per poi provare a ripetere la manovra.

Nel caso in cui fossero richieste biopsie, non si avvertirà nessun fastidio.

Dopo l’esame

Al termine della procedura si verrà accompagnati in una stanza vicina, dove sarà possibile rimanere seduti su una poltrona per 30-60 minuti.

Si potrà avvertire un po’ di sonnolenza, a meno che non venga somministrato un altro farmaco atto a neutralizzare il sedativo.

È comune avvertire un leggere fastidio in gola.

Il medico potrebbe quindi richiedere un colloquio, per la consegna del referto.

Ritorno a casa

È necessario essere accompagnati in ospedale il giorno dell’esame, perché dopo la procedura non si potranno guidare automezzi a causa della leggera anestesia praticata.

Verrà consigliato di evitare sforzi per tutto il giorno ed è consigliabile evitare di mangiare o bere almeno per 1-2 ore dopo la procedura perché alcuni riflessi, tra cui quello della deglutizione, potrebbero essere ridotti e il cibo o i liquidi potrebbero andare di traverso.

Quanto dura?

La procedura ha una durata di circa 15-20 minuti, variabili a seconda del numero di biopsie da effettuare e della complessità del quadro patologico.

Fa male?

Il disagio durante l’esame è minimo ed è dato principalmente dal bisogno di tossire.

Quali sono i rischi?

L’opportunità di procedere all’esecuzione dell’esame richiede particolare cautela in soggetti affetti da

In base alla letteratura disponibile si verificano complicanze in meno dell’1% dei pazienti, nella maggior parte dei casi si tratta di complicazioni non gravi che non pregiudicano l’esito dell’esame e non rappresentano un rischio per il paziente.

Le più comuni sono:

  • ipotensione (abbassamento della pressione arteriosa),
  • riduzione della concentrazione di ossigeno nel sangue (in questo caso ne verrà somministrato attraverso un tubicino che passa sotto le narici),
  • sangue dal naso per un traumatismo legato al tubo del broncoscopio,
  • aritmie cardiache temporanee e, nella maggior parte dei casi, non gravi.

Più raramente si verificano:

Dopo la procedura è normale presentare delle tracce di sangue nell’escreato (saliva e catarro) e potrebbe manifestarsi una leggera febbricola nei giorni seguenti (in genere per 1 o 2 giorni).

Il paziente non viene in alcun modo esposto a radiazioni, né l’esame risulta associato ad altri rischi a lungo termine.

Quando chiamare il medico

È necessario contattare il medico se si presentano:

  • febbre elevata che persiste dopo il 1 giorno dalla procedura,
  • escreato di sangue abbondante (più di due cucchiai indicativamente) o persistente,
  • dolore toracico,
  • palpitazioni,
  • difficoltà respiratorie,
  • ipotensione o senso di debolezza generale.

Video esplicativo (broncoscopia ecografica)

Fonti e bibliografia

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Idrope fetale: cause, sintomi, conseguenze, cura

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Cos’è l’idrope fetale?

Con l’espressione “idrope fetale” si indica l’accumulo eccessivo di liquidi in almeno due aree dell’organismo del feto o di un bambino appena nato (neonato).

Generalmente questa condizione clinica può riguardare:

  • il tessuto sottocutaneo fetale (o neonatale) e parleremo in tal caso di edema;
  • altre cavità sierose, quali:
    • addome (in questo caso l’accumulo di liquido al suo interno prende il nome di ascite);
    • pericardio (l’accumulo di liquido si verifica a livello di una sottile membrana che circonda il cuore ed è dato da un versamento pericardico);
    • pleura (l’accumulo di liquido avviene nella cavità pleurica, ossia nello spazio compreso tra i foglietti viscerale e parietale della membrana che riveste i polmoni ed è detto versamento pleurico).

È possibile includere le cause che sono alla base di questa anomalia in due grandi categorie:

  • immunologiche: l’idrope fetale è dovuta alla presenza di anticorpi circolanti materni che sono diretti verso antigeni eritrocitari fetali (ad esempio situazioni di incompatibilità Rh);
  • non immunologiche e dovute a molteplici fattori, quali:
    • malattie infettive,
    • malattie cardiovascolari,
    • anomalie cromosomiche,
    • malformazioni polmonari o urinarie,
    • anemie (dovute a talassemia o carenza di ferro),
    • episodi di ernia diaframmatica congenita.

Questa condizione clinica si riscontra in circa 1 caso ogni 3000 gravidanze, ma la sua incidenza tende ad essere sottostimata per l’alta possibilità che gli embrioni\feti con tale anomalia esitino precocemente in aborti spontanei.

In circa la metà dei casi, comunque, l’idrope fetale è riscontrata nel corso di un’ecografia svolta nel terzo trimestre di gravidanza, a cui possono seguire un’amniocentesi o periodiche ecografie morfologiche, volte a stabilirne la gravità.

I sintomi riguardanti il feto o il neonato, variano in base alla severità del quadro clinico e spaziano da manifestazioni “più lievi”, come ascite o pallore, fino ad arrivare, nelle forme più gravi, alla comparsa di edemi ed ecchimosi cutanee (macchie color porpora sulla pelle), grave anemia o quadri di compromissione respiratoria o di insufficienza cardiaca, che possono anche essere letali e destare notevole preoccupazione per il medico e per la coppia, riguardo la prognosi del caso in esame.

Prima della diagnosi l’idrope fetale può essere avvertita dalle future mamme come una riduzione dei movimenti fetali, mentre in seguito, la gestante può sviluppare una “sindrome specchio”,caratterizzata da

  • anasarca (edema massivo e diffuso, sottocutaneo, non infiammatorio),
  • proteinuria (perdita di proteine nelle urine)
  • ed ipertensione.

La morte del feto si verifica da 55 al 98 % dei casi di idrope non immune e, a seconda dell’eziologia, è generalmente dovuta ad insufficienza cardiaca e ipossia.

Grazie alla possibilità di somministrare un farmaco nelle donne con incompatibilità materno-fetale per il fattore Rh, detto RhoGAM (immunoglobulina Rho) è possibile invece prevenire l’idrope fetale immune, per cui la sua incidenza, negli ultimi anni, risulta essere notevolmente ridotta.

Perché si verifica?

Alla base dell’idrope fetale c’è un accumulo di fluidi che riguarda l’organismo del feto, spesso per

  • cause di natura malformativa,
  • malattie infettive
  • oppure anomalie immunologiche.

La prima grande distinzione che è possibile effettuare si concentra sul carattere immune o non immune di questa condizione clinica, per cui distinguiamo:

  • idrope immune: è dovuta alla reazione che si verifica tra gli anticorpi anti-eritrociti fetali prodotti dalla madre ed antigeni (il bersaglio di questi anticorpi) che sono presenti su cellule del sangue del feto (anche dette emazie), molto spesso per una questione di incompatibilità con il fattore Rh materno;
  • idrope non immune: è causata generalmente da un incremento dei liquidi interstiziali o da un’ostruzione linfatica, potenzialmente determinata da diversi fattori, tra cui:
    • condizioni cardiovascolari:
    • anomalie cromosomiche come la sindrome di Turner, la trisomia 21 o la sindrome di Noonan;
    • infezioni, principalmente
    • malformazioni delle vie urinarie o malformazioni polmonari;
    • cause ematologiche: tra cui
      • talassemie,
      • emorragie,
      • shunt arterovenosi,
      • anemia da carenza di ferro;
    • ernie diaframmatiche congenite;
    • difetti congeniti del metabolismo:
      • deficit di transaldolasi,
      • mucopolisaccaridosi,
      • malattia di Niemann-Pick;
    • gravidanza gemellare con sindrome da trasfusione feto-fetale;
    • condizioni patologiche materne severe:

Quali sono i sintomi?

La presenza di idrope fetale, può essere inizialmente avvertita dalla gestante come una riduzione dei movimenti del bambino e può essere accompagnata dalla comparsa, durante il corso della gravidanza, di altri sintomi, tra cui:

  • polidramnios (eccesso di liquido amniotico),
  • tachicardia fetale,
  • emorragia prenatale,
  • placenta addensata,
  • ingrossamento del fegato, della milza o del cuore, per accumulo di liquido che circonda addome, cuore e polmone del feto.

I sintomi dopo la nascita sono:

  • pallore,
  • distress respiratorio,
  • edema grave (per lo più localizzato all’addome),
  • epato-splenomegalia (ingrandimento di fegato e milza).

La madre può altresì presentare una condizione nota come “sindrome specchio” caratterizzata da:

  • anasarca massivo (edema non infiammatorio generalmente sottocutaneo),
  • ipertensione (pressione alta),
  • proteinuria.

Quali sono le complicanze?

Questa condizione clinica si riscontra in circa 1 caso ogni 3000 gravidanze, ma la sua incidenza tende ad essere sottostimata per l’alta possibilità che gli embrioni\feti con tale anomalia esitino in aborti spontanei precocemente.

La morte del feto si verifica in una percentuale stimata compresa tra il 55 e il 98 % dei casi di idrope non immune e, a seconda dell’eziologia, è generalmente dovuta ad insufficienza cardiaca e ipossia.

Nei casi di idrope fetale immune, riconducibile quindi ad incompatibilità materno-fetale per il fattore Rh, i soggetti che superano il parto, nelle settimane successive alla nascita, possono presentare un kernittero, cioè un ittero neonatale patologico con deposito di bilirubina nel tessuto cerebrale.

Come si fa diagnosi?

La diagnosi è posta dal medico attraverso la raccolta anamnestica, la valutazione clinica ed altri esami, quali:

  • esame ecografico: consente di evidenziare l’eventuale accumulo di liquidi nel secondo\ terzo trimestre di gravidanza e un inspessimento della placenta (>5mm) associato ad un aspetto “ a vetro smerigliato” che può essere indicativo di un’idrope fetale non immune.
  • esami laboratoristici condotti sulla madre: tipizzazione del gruppo sanguigno, ricerca anticorpi anti-eritrociti fetali (nel sospetto di idrope fetale di natura immunologica), screening degli anticorpi TORCHES- CLAP ( per escludere un’eventuale eziologia infettiva), elettroforesi dell’emoglobina ( nel sospetto di una talassemia), dosaggio anticorpi anti SSA-SSB e dell’alfafetoproteina, test di Kleihauer- Betke ( nell’ambito della valutazione della compatibilità Rh materno-fetale).
  • amniocentesi ed ecografie morfologiche seriate: costituiscono ulteriori accertamenti diagnostici volti a stabilire la gravità del quadro clinico.

Cosa fare?

Il trattamento dell’idrope fetale è stabilito principalmente in relazione alle cause scatenanti e alla presenza di sintomi in atto.

In fase prenatale è possibile elaborare una strategia terapeutica solo in alcune circostanze e in presenza di anemia; il trattamento è basato principalmente su una trasfusione di sangue fetale intrauterina.

Nei casi più gravi, laddove non sia possibile intervenire terapeuticamente, è indicata la nascita prematura del feto, mediante farmaci in grado di stimolare il travaglio o attraverso un taglio cesario.

In epoca neonatale o post-natale, è possibile effettuare:

  • trasfusione di sangue (per rimuovere eventuali anticorpi materni anti-eritrociti fetali),
  • drenaggio pleurico o addominale (tramite una siringa è possibile aspirare il liquido accumulatosi in questi tessuti),
  • ventilazione artificiale: in caso di insufficienza respiratoria,
  • somministrazione di farmaci per trattare l’insufficienza cardiaca,
  • stimolare la diuresi attraverso farmaci diuretici che inducano i reni ad eliminare i liquidi in eccesso.

Fonti e Bibliografia

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Sindrome di Klinefelter: cause, sintomi, complicazioni

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Introduzione

La sindrome di Klinefelter è una malattia genetica relativamente rara che fa parte del gruppo di patologie denominato “aneuploidie dei cromosomi sessuali”, ovvero anomalie del numero di cromosomi. Colpisce solo gli uomini, che si trovano a possedere un cromosoma X in più rispetto alla condizione di normalità.

  • Normalmente le donne possiedono 2 cromosomi sessuali XX e gli uomini 2 cromosomi sessuali XY,
  • negli individui con questa sindrome invece il cariotipo è di tipo XXY

L’incidenza di questa patologia si attesta intorno a 1 su 500 individui nati vivi. Tale patologia può passare spesso per misconosciuta sino alla prima infanzia per il ritardo mentale con problematiche scolastiche e alla pubertà per l’alterazione dello sviluppo somatico.

La sindrome di Klinefelter rappresenta la più frequente causa di ipogonadismo (insufficiente produzione di testosterone) nei maschi ed il quadro clinico si rende più specifico durante la pubertà con alcune caratteristiche peculiari, quali:

  • altezza superiore alla norma, ma con distribuzione femminile del grasso corporeo, spalle larghe e fianchi stretti,
  • ginecomastia,
  • scarsa peluria,
  • genitali di dimensioni ridotte ed aspetto infantile,
  • ritardo mentale,
  • disturbi sociali.

La diagnosi avviene sulla base del quadro clinico e di una consulenza genetica che permetta il riconoscimento dell’anomalia genetica sottostante.

La sindrome di Klinefelter non è curabile ma è possibile migliorare la qualità di vita dei soggetti che ne sono colpiti con una cura farmacologica a base di testosterone (che viene cominciata a partire dagli 11-12 anni) e con sostegno psicologico sin dalla prima infanzia per la risoluzione delle problematiche più gravi di ordine scolastico e sociale.

I bambini con la forma XXY (la più comune) si differenziano solo minimamente dai coetanei non affetti dalla sindrome e, nonostante debbano spesso affrontare durante l’adolescenza diversi ostacoli emotivi e comportamentali, dovuti anche alle difficoltà nei risultati scolastici, la maggior parte è in grado di raggiungere una piena indipendenza in età adulta, potendo aspirare ad una vita pressoché normale e un livello d’istruzione universitario.

Uno studio australiano ha dimostrato che attraverso una diagnosi tempestiva e un supporto adeguato la prognosi della sindrome possa essere nettamente migliore.

Cause

L’insorgenza della sindrome di Klinefelter non è ereditaria, ma è conseguente ad un errore durante la creazione della cellula uovo o dello spermatozoo nei genitori (durante la meiosi la cellula non si disgiunge e vengono prodotti gameti con un eccesso di cromosomi sessuali). Ad oggi si ritiene che non vi siano fattori protettivi per evitare che ciò accada. Si ritiene che la trasmissione per via materna sia più comune e forse in parte correlata all’età avanzata, ma comunque in misura molto limitata e nettamente inferiore al peso che questa riveste nel caso della sindrome di Down.

L’essere umano possiede 23 coppie di cromosomi che, nell’insieme, formano il DNA, ovvero il materiale genetico in cui sono contenute tutte le informazioni su come l’organismo si presenta e deve funzionare (dal colore degli occhi a quello dei capelli, dalle sostanze prodotte nello stomaco per la digestione alle istruzioni per dare forma al cervello durante lo sviluppo).

Il sesso è determinato da una specifica coppia di cromosomi sessuali, che

  • nella donna si identificano come XX,
  • nell’uomo come XY.

Nella sindrome di Klinefelter questa coppia di cromosomi è alterata, perché legata a cromosomi aggiuntivi non necessari, che causano dei malfunzionamenti nelle istruzioni che vi sono contenute; semplificando, è come se nelle pagine del manuale d’istruzioni della Vita ci fossero delle pagine in più, impossibili da distinguere tra corrette e aggiuntive.

Più nel dettaglio

  • Nell’80% dei casi si verifica una mancata disgiunzione dei cromosomi sessuali durante la meiosi, in cui un gamete femminile con doppio cromosoma sessuale X si fonde ad un gamete maschile normale con unico cromosoma sessuale Y; più raramente si verifica la condizione opposta, in cui è uno spermatozoo portatore di doppio cromosoma sessuale XY a fecondare un gamete femminile normale;
  • Nel restante 20% dei casi si verifica una condizione di mosaicismo, ossia la presenza di cellule variamente distribuite nell’organismo, in cui alcune possiedono un cariotipo normale 46 XY e altre, in percentuale variabile, contengono un cariotipo patologico 47 XXY o 48 XXXY o 49 XXXY.

I ricercatori hanno dimostrato poi come la compromissione dello sviluppo fisico e mentale degli individui affetti tende ad aumentare proporzionalmente con l’aumentare del numero extra dei cromosomi X: ogni X sovranummerario riduce il quoziente intellettivo (QI) di circa 15-16 punti.

Sintomi

Durante l’infanzia gli individui affetti dalla sindrome di Klinefelter presentano sintomi caratteristici che prevedono:

  • ritardo nell’acquisizione del linguaggio e ridotto sviluppo dello stesso con:
    • problemi di espressività,
    • anomia (in capacità di dare nomi a persone od oggetti pur essendo in grado di riconoscerli),
    • disartria (difficoltà nelle articolazione delle sillabe che compongono una parola),
  • difficoltà all’apprendimento sociale e scolastico: sin dalla scuola elementare si notano difficoltà nella lettura, nella scrittura e nella matematica e quasi tutti gli individui richiedono un tutore di sostegno,
  • crescita rapida e improvvisa nella terza infanzia con tipica obesità del tronco,
  • problemi comportamentali con immaturità, forte timidezza e riservatezza, scarsa sicurezza del sé nelle dinamiche sociali, difficoltà nel contenere gli impulsi e nel rispetto delle regole,
  • ritardo puberale.

Proprio per via di questi aspetti legati all’apprendimento, il sospetto diagnostico viene posto spesso in epoca scolastica dall’insegnante.

Da un punto di vista fisico, con la crescita emergono alcune caratteristiche fisiche peculiari (ricordiamo che possono essere affetti dalla patologia solo soggetti di sesso maschile):

  • Aspetto eunucoide, caratterizzato dall’allungamento eccessivo degli arti rispetto al tronco, aspetto infantile con organi genitali, masse muscolari e peluria scarsamente sviluppati. Vi è inoltre una deposizione di grasso in eccesso soprattutto alle anche, al petto e all’addome.
  • Sviluppo normale o superiore alla norma con altezza aumentata, ma con spalle strette e fianchi larghi, ridotta circonferenza cranica, cifoscoliosi. In genere si rileva una ridotta forza muscolare rispetto ai coetanei.
  • Ginecomastia: anomalo sviluppo delle dimensioni delle mammelle nell’uomo per la loro ipertrofia, che danno al petto un aspetto femminile.
  • Peluria scarsa: ridotta crescita della barba, della peluria sul petto e sulle ascelle, peli pubici di aspetto femminile.
  • Genitali di dimensioni ridotte e insufficienza testicolare con difetto della spermatogenesi e della produzione di testosterone.

I soggetti colpiti mostrano inoltre:

Diagnosi

La diagnosi di questa sindrome avviene nella maggior parte dei casi durante l’infanzia o durante la pubertà; in un quarto dei casi passa per misconosciuta sino all’età adulta o addirittura non viene riconosciuta per il resto della vita.

La diagnosi prenatale è possibile grazie all’amniocentesi, ovvero al prelievo di liquido amniotico del feto che viene analizzato, o alla villocentesi. Per la diagnosi non prenatale attualmente lo standard è l’analisi del cariotipo sui linfociti estratti dopo prelievo di sangue.

Altri esami circostanziali prevedono la valutazione dei livelli nel sangue delle gonadotropine, ovvero gli ormoni FSH ed LH prodotti dall’ipofisi che risultano notevolmente più alti per il feedback positivo dovuto ai bassi livelli di testosterone di questi individui; può essere valutata inoltre la presenza di azoospermia (conta ridotta degli spermatozoi).

L’intero percorso diagnostico prevede l’affidamento a medici genetisti e pediatri nonché ad altri specialisti.

La sindrome di Klinefelter necessita di una diagnosi differenziale con altre malattie genetiche, quali:

  • sindrome dell’X fragile,
  • sindrome di Marfan,
  • altre patologie caratterizzate da ipogonadismo,
  • altre patologie con ritardo mentale ed anomalie somatiche.

Cura

La patologia, essendo basata su un’anomalia genetica, non è ad oggi curabile, ma è possibile instaurare un trattamento sintomatico che migliori il quadro clinico dei pazienti soprattutto dal punto di vista della qualità di vita di vita in termini psicologici e sociali.

Attraverso il trattamento con androgeni e testosterone a partire dagli 11-12 anni è possibile correggere l’ipogonadismo ed i connessi problemi psicologici. portando allo sviluppo di caratteri somatici prettamente maschili; non è purtroppo possibile modificare la sterilità né la ginecomastia, che tuttavia in rari può risentire positivamente di un trattamento chirurgico risolutivo.

Dal punto di vista psico-sociale è importante fornire sostegno psicologico per le problematiche già descritte, che tendono a favorire l’insorgenza di un quadro di depressione ed isolamento sociale.

Sin dall’infanzia è importante un tutoraggio di sostegno scolastico con ricorso alla terapia comportamentale ove necessaria.

Fonti e bibliografia

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Salvia: proprietà, benefici, rischi e controindicazioni

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Cos’è la salvia?

La Salvia è una pianta della famiglia delle Labiatae o Lamiaceae (la stessa di timo e menta), originaria di Medio Oriente e Mediterraneo, ma oggi diffusa pressoché in tutto il mondo. In Italia è presente in circa 20 specie, di cui 9 nel solo arco alpino. La più conosciuta e studiata è la Salvia Officinalis o Salvia comune.

Molto conosciuta e utilizzata in cucina per insaporire le pietanze, la salvia è altresì nota come rimedio nella medicina popolare per le sue proprietà

  • antinfiammatorie,
  • antisettiche,
  • digestive,
  • diuretiche,
  • cicatrizzanti.

Il suo nome deriva da salvus, ossia sano, a motivo delle virtù salutari attribuite alla pianta.

Foglie di salvia officinalis

iStock.com/Margherita22

Cosa contiene?

La salvia contiene molti componenti biologicamente attivi, tra essi citiamo

  • acidi fenolici, tra cui acido caffeico e rosmarinico,
  • flavonoidi (luteonina, apigenina,quercetina),
  • monoterpeni, diterpeni,triterpeni (tujoni, cineolo, acido carnosico).

La composizione finale dell’estratto dipende in larga misura dalla tecnica di estrazione, nonché dalle parti della pianta utilizzate [3].

Un po’ di storia

“Perché dovrebbe morire l’uomo nel cui giardino cresce la salvia?”.

Così recitava la Scuola Medica Salernitana (la prima e più importante istituzione medica europea nel Medioevo), a testimonianza dell’alto valore curativo attribuito alla pianta dalla medicina dell’epoca.

In realtà la fama di questa pianta risale a molto prima, sin dai tempi degli Egizi e successivamente dei Greci e dei Romani: questi ultimi, ad esempio, ricorrevano ad un vero e proprio rituale di raccolta della salvia – considerata una pianta sacra – evitando di usare oggetti di ferro e indossando una tunica bianca, a piedi scalzi e lavati.

Dioscoride, medico greco che visse nell’antica Roma ai tempi di Nerone (I sec d.C.), riportava nel suo De materia medica l’utilizzo della salvia come decotto per fermare il sanguinamento delle ferite e per disinfettare ulcere e piaghe; come tisana, invece, per raucedine e tosse. Plinio Il Vecchio, suo contemporaneo, nel Naturalis Historia, riportava l’uso della salvia per migliorare la memoria e come decotto per gargarismi – insieme a rosmarino, caprifoglio, piantaggine e miele- per trattare afte e mal di gola.

Nel Medioevo la salvia era considerata una panacea per tutti i mali: pare fosse utilizzata addirittura per preparare un infuso “miracoloso”, insieme a rosmarino, timo e lavanda (l’”aceto dei quattro ladri”), che si diceva proteggesse dalla peste. Si riteneva inoltre fosse un potente afrodisiaco maschile e aumentasse la fertilità femminile: oggi sappiamo in effetti che le foglie di salvia contengono fitoestrogeni – ed è la ragione per cui la pianta è stata studiata anche per contrastare i sintomi della menopausa.

Nella Medicina Tradizionale Cinese la salvia era considerata la pianta della longevità e ancora oggi viene utilizzata come rimedio per

Nella Medicina Ayurvedica, in aggiunta agli impieghi appena citati, viene utilizzata esternamente per

Proprietà, benefici e ricerca scientifica

La salvia per uso orale (in forma di tisane, oli essenziali, estratto secco in capsule) è ancora oggi consigliata e utilizzata come rimedio per

  • favorire la digestione e trattare problemi gastrointestinali in generale (presa prima dei pasti stimola l’appetito, dopo i pasti favorisce la digestione),
  • curare le infiammazioni orofaringee,
  • mitigare i problemi della menopausa,
  • alleviare i dolori mestruali,
  • rallentare i problemi di memoria e concentrazione,
  • combattere la sudorazione notturna (50 gocce di tintura madre prima di coricarsi).

Per uso esterno invece le foglie di salvia tal quali o come infuso sono utilizzate come

  • disinfettanti per le ferite,
  • sbiancanti per i denti,
  • rinfrescanti per l’alito.

Le moderne applicazioni terapeutiche della salvia sono supportate dal consolidato utilizzo nella tradizione, ma anche dai dati raccolti nella pratica dai medici erboristi, da studi in vitro o in vivo (su animali) e da alcuni studi clinici [1].

Secondo quanto riportato dal Centro nazionale per la salute complementare e integrativa (NCCIH) – agenzia governativa degli Stati Uniti – , tuttavia, gli studi clinici sono ancora insufficienti per confermare l’efficacia dei rimedi a base di salvia e ulteriori approfondimenti sarebbero necessari [2]. Il grande limite degli studi sinora pubblicati è che gli estratti di salvia sono ottenuti con tecniche spesso differenti fra loro (olii, estratti alcolici, …), con conseguente diversa percentuale di principi attivi, e quindi difficili da confrontare e replicare.

Gli studi più recenti [3,8,9,10,11] si sono concentrati sull’utilizzo della salvia come

Interessanti ricerche sono state altresì condotte nel campo delle malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, per migliorare memoria e performances cognitive: da studi recenti pare che la salvia sia in grado di ridurre l’infiammazione derivante dall’accumulo di proteina β-amiloide, caratteristico dell’Alzheimer, e abbia effetto sul sistema colinergico, potenziandolo [4,7]. Alcuni lavori sembrano suggerire che addirittura l’aroma stesso della salvia possa avere effetto positivo sulla memoria [5,6].

Un aiuto in menopausa?

Un’interessante applicazione della salvia riguarda l’utilizzo come rimedio naturale per alleviare i sintomi della menopausa – e in particolare per

  • ridurre sudorazione eccessiva e vampate di calore,
  • migliorare le performance mentali e dell’umore.

L’azione pare sia dovuta ad un effetto estrogeno-simile della salvia, così come accade con i fitoestrogeni della soia [14].

In uno studio multicentrico condotto in Svizzera su 71 pazienti, in menopausa da almeno 12 mesi, è stata somministrata salvia fresca in compresse giornaliere (280mg di estratto) per un periodo di 8 settimane [12]. Entro le prime 4 settimane si è ottenuta una riduzione del 50% nella frequenza e intensità delle vampate di calore – percentuale che è salita al 64% dopo 8 settimane. Il limite di questo studio è l’assenza del gruppo di controllo a cui fosse somministrato il placebo, ma i risultati sono comunque incoraggianti e aprono interessanti prospettive di utilizzo della salvia.

In base a quanto riportato da uno studio in vitro pubblicato quest’anno [13], l’effetto sulle vampate di calore potrebbe essere dovuto alla particolare affinità dell’estratto di salvia con i recettori muscarinici M3, adrenergici alpha 2A e µ- oppioidi a livello centrale, coinvolti nel meccanismo di termoregolazione.

Controindicazioni ed effetti collaterali

La salvia per uso alimentare come insaporitore di pietanze è generalmente considerata sicura.

Tuttavia, per la presenza del tujone, un chetone complesso che può risultare tossico ad alte dosi, è bene non eccedere nelle quantità: secondo quanto riportato dall’FDA, 12 gocce di olio essenziale sono considerate una dose tossica. L’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) indica come dose massima giornaliera di tujione 5 mg [15].

Esistono comunque in commercio formulazioni a base di salvia senza tujone.

I sintomi di tossicità da sovradosaggio comprendono:

Olio essenziale puro ed estratti alcolici sono sconsigliati durante gravidanza e allattamento perché in grado di causare effetti tossici sul feto o sul neonato [8].

Non sono note particolari interazioni coi farmaci.

Fonti e bibliografia

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Sangue dall’orecchio: cause, altri sintomi, pericoli, rimedi

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Introduzione

La fuoriuscita di sangue dall’orecchio, nota come “otorragia”, può essere attribuibile a condizioni mediche e patologie di differente natura e gravità e, a seconda della causa scatenante, può

  • presentarsi come un episodio isolato o persistere nel tempo,
  • essere accompagnata da una grande varietà di manifestazioni cliniche e dalla presenza di materiale di altra natura come pus, cerume, catarro.

È sempre opportuno rivolgersi ad un medico, preferibilmente specialista in otorinolaringoiatria, per stabilire la causa di questo sanguinamento ed impostare quindi una corretta terapia.

Se l’emissione di sangue dall’orecchio avviene in concomitanza con un trauma cranico grave e\o è accompagnata da sintomi come

  • svenimento,
  • difficoltà motorie,
  • alterazioni della sensibilità,
  • difficoltà nell’eloquio (parlare),
  • violento dolore alla testa,

è necessario non temporeggiare e recarsi immediatamente, al più vicino Pronto Soccorso per attuare i provvedimenti diagnostici (TAC) e terapeutici del caso.

Cause

La perdita di sangue dall’orecchio è generalmente monolaterale (interessa quindi un solo orecchio), anche se in alcuni casi, come in presenza di traumi che interessano la testa, può essere bilaterale.

I sanguinamenti spontanei, sono generalmente una conseguenza di infezioni acute o croniche dell’orecchio (otiti), tra le quali ricordiamo:

  • Otite esterna bollosa emorragica: si instaura molto spesso in seguito ad un episodio influenzale di natura virale o dopo un’infezione batterica (generalmente sostenuta da Streptococco, Haemophilus Influenzae, Moraxella Catarralis) ed è caratterizzata dalla formazione di bolle di natura siero-ematica a livello delle pareti del condotto uditivo e sulla membrana timpanica. Proprio quest’ultime, andando incontro a rottura nel decorso della malattia, determinano un sanguinamento allarmante per il paziente, che potrà essere accompagnato da altri sintomi, quali ipoacusia (calo dell’udito) ed otalgia (mal d’orecchio), anche a distanza di giorni.
  • Colesteatoma: è una condizione conseguenza d’infezioni croniche ripetute che riguardano l’orecchio. Il sanguinamento, in questo caso, è determinato dalla formazione di una cisti di natura epiteliale che può, nel tempo, erodere le strutture del condotto uditivo, causando tra le altre manifestazioni cliniche anche otorragia.
  • Altre otiti esterne (eczematose, micotiche, erpetiche, virali o batteriche).

In altri casi, un sanguinamento spontaneo dall’orecchio, potrà essere attribuibile a:

  • neoformazioni (polipi o cisti),
  • tumori maligni del condotto uditivo (in tal caso è necessario l’intervento dell’oncologo),
  • assunzione di farmaci (principalmente antiaggreganti piastrinici).

L’otorragia post-traumatica è invece conseguenza di “traumi dell’orecchio” o di “traumi cranici” che possono essere causati da:

  • uso improprio di bastoncini igienici cotonati (cotton fioc), responsabile di lesioni del condotto uditivo e della membrana timpanica,
  • lesioni da grattamento,
  • eventi in grado di determinare un aumento della pressione esterna nel condotto uditivo, come uno schiaffo o il barotrauma (quest’ultimo è conseguente a repentine variazioni della pressione atmosferica, come quelle che si verificano nel corso di immersioni subacquee o di cambiamenti di altitudine, ad esempio nel caso di viaggi in aereo),
  • traumi che interessano il cranio, in questo caso il sanguinamento dall’orecchio potrebbe essere indicativo di una frattura della base cranica o di focolai emorragici presenti in altre sedi,
  • penetrazione di corpi estranei, specialmente nei bambini, per la tendenza ad introdurre piccoli oggetti nelle orecchie.

Sintomi

A seconda della causa che ha determinato il sanguinamento dall’orecchio, il paziente potrà avvertire vari segni e sintomi associati all’otorragia, tra cui:

  • acufeni (percezione di ronzii, fischi, pulsazioni),
  • disturbi dell’udito:
    • udito ovattato,
    • ipoacusia (riduzione dell’udito),
    • sordità improvvisa;
  • otalgia (dolore irradiato all’orecchio),
  • otorrea (fuoriuscita di liquido, di diversa natura, dall’orecchio).

Possono inoltre essere presenti sintomi sistemici, quali:

Cosa fare in caso emergenza?

In ogni caso, in presenza di otorragia, associata o meno a questi segni e sintomi, è necessario sempre fare ricorso alla valutazione da parte di un medico; nel caso in cui il sanguinamento dall’orecchio dovesse manifestarsi in seguito ad incidenti o traumi di altra natura, è necessario allertare tempestivamente i soccorsi, senza far eseguire all’individuo dei movimenti che potrebbero peggiorare la sua condizione (come nel tentativo di accompagnarlo in ospedale).

Nell’attesa dei soccorsi, sarà inoltre necessario:

  1. In caso di perdita di sensi, sistemare la persona in posizione laterale di sicurezza, sul lato dell’orecchio in cui si verifica l’otorragia.
  2. Inclinare la testa sul lato del sanguinamento.
  3. Evitare l’introduzione di tamponi, garze o altri oggetti, per frenare il sanguinamento (si può effettuare il tamponamento dell’emorragia, ma rimanendo all’esterno dell’orecchio).
Istruzioni per la posizione laterale di sicurezza

iStock.com/lukaves

Diagnosi

I sintomi e i segni correlati all’emissione di sangue, aiutano il medico ad individuare la causa a monte che ha determinato l’otorragia e ad impostare una terapia efficace.

La diagnosi è basata su:

  • Visita otorinolaringoiatrica, con anamnesi (raccolta dei sintomi e dei dati del paziente) ed esame obiettivo mediante otoscopia (esame del condotto uditivo e della membrana timpanica, praticato con otoscopio, per individuare in prima istanza la presenza di lesioni, danni, lacerazioni o perforazioni timpaniche).
  • Esame audiometrico ed esame impedenzometrico, esami utili a valutare l’eventuale perdita di udito.
  • Indagini strumentali, quali TAC e RM per localizzare la sede del sanguinamento.
  • Ulteriori test diagnostici, come la coltura batterica, sono da prendere in considerazione nel sospetto di un’eziologia infettiva.

Cura e rimedi

È opportuno ribadire che l’otorragia è un sintomo che non deve mai essere trascurato e che impone l’attenzione del medico.

Le possibilità di trattamento sono correlate alla causa del sanguinamento e sarà possibile, a seconda dei casi, attuare diversi interventi terapeutici, per esempio:

  • Nel caso di otite infettiva o infiammazione della membrana timpanica, potranno essere somministrati farmaci antinfiammatori ed antibiotici, per ridurre il processo infettivo.
  • Nel caso di traumi, potrà essere necessaria una medicazione, associata o meno alla somministrazione di antibiotici ed antinfiammatori; la lesione timpanica, spesso va incontro a regressione spontanea, mentre nei traumi più gravi può essere necessario un intervento di “miringoplastica”, per ricostruire la membrana timpanica.
  • Il barotrauma, può andare invece incontro a risoluzione spontanea, ma possono essere somministrate gocce analgesiche, per trattare il dolore.
  • In caso di tumore dell’orecchio, la terapia sarà valutata dall’oncologo e potrà prevedere l’escissione chirurgica o la radioterapia, in caso di controindicazioni alla chirurgia.

Fonti e Bibliografia

  • MSD, tumori dell’orecchio
  • MSD, perforazione del timpano
  • Med J. 2013 Mar;30(3):258. doi: 10.1136/emermed-2012-201409. Epub 2012 Jul 16. Otorrhagia after facial trauma. Cooper JA1, Tomich EB.
  • Clin Sports Med. 2013 Apr;32(2):303-16. doi: 10.1016/j.csm.2012.12.011. Ear trauma. Eagles K1, Fralich L, Stevenson JH.

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Nicturia (necessità di urinare di notte): cause e rimedi

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Cos’è la nicturia

Per nicturia si intende il prevalere della quantità di urina emessa durante la notte rispetto a quella emessa durante il giorno. Inoltre è intesa come disturbo che porta alla necessità di interrompere il riposo notturno, alzandosi anche più di una volta per l’urgenza di urinare.

L’urina rappresenta il prodotto terminale del lavoro di filtrazione e secrezione del rene. Grazie al rene infatti il sangue viene “depurato” da diverse sostanze di scarto e sostanze tossiche prodotte dall’organismo, che insieme all’acqua andranno a formare l’urina.

In condizioni fisiologiche la massima quantità di urine è emessa durante le ore del giorno e non accade quasi mai che una persona sana si svegli durante la notte con il bisogno di urinare; rappresenta un disturbo alquanto fastidioso che nei casi più gravi riduce notevolmente la qualità del sonno e del riposo notturno e di conseguenza anche la qualità della vita. È tuttavia una condizione relativamente frequente che può coinvolgere il 20% della popolazione, soprattutto a partire dai 40-50 anni.

Le cause si dividono in due grandi gruppi:

La diagnosi avviene sulla base di anamnesi ed esame obiettivo coadiuvato da altre indagini di I e II livello, come

  • gli esami del sangue,
  • urinocoltura ed esame standard delle urine,
  • ecografia e TC.

La rimozione di questo fastidioso sintomo è basata sulla risoluzione della causa sottostante, che può prevedere un approccio farmacologico o chirurgico (ad esempio una TURP in caso di ipertrofia prostatica benigna).

Le cause fisiologiche possono invece richiedere semplici modifiche dietetiche e abitudinarie come la sospensione di alcol e caffeina, o l’evitare di assumere bevande subito prima di coricarsi.

Uomo che necessità di urinare di notte, interrompendo così il riposo notturno

iStock.com/eugenekeebler

Cause

Le cause alla base dell’esigenza di urinare durante la notte possono essere in prima istanza suddivise in base al fatto che siano legate a uno stato di malattia o meno; le condizioni non patologiche (non legate cioè ad alcuna patologia) sono numerose, ma la più frequente è sicuramente un’eccessiva assunzione di bevande prima di coricarsi. In tal caso è possibile che ci si debba alzare diverse volte dal letto per poter urinare, ma in ogni caso essa non rappresenta una condizione allarmante: si parla in tal caso di nicturia transitoria.

Altre cause di nicturia transitoria possono essere:

  • stato di gravidanza, con l’utero ingrossato che può comprimere la vescica e portare a sintomi urinari come la nicturia,
  • assunzione di alcuni farmaci, soprattutto i diuretici o altri antipertensivi, che favoriscono la produzione di urina (in molti casi, quando possibile, ne si programma l’assunzione al mattino per ridurre questo fastidioso effetto collaterale),
  • ansia e stress psico-fisico,
  • alimentazione ricca di proteine,
  • assunzione di alcol e caffeina.

Per quanto riguarda invece le cause patologiche, possiamo avere:

  • Diabete mellito: il glucosio in eccesso presente nel sangue (iperglicemia) viene filtrato nel rene ed oltre una certa soglia non riesce ad essere riassorbito a livello tubulare, finendo nelle urine; nell’urina il glucosio risulta essere osmoticamente attivo il che lo porta a richiamare dall’interstizio renale abbondanti quantità di acqua, la quale aumenta notevolmente la quantità di urine emesse (poliuria, oltre 2 litri di urina al giorno). Questo si può tradurre ovviamente oltre che nella poliuria anche nella comparsa di nicturia.
  • Diabete insipido: disturbo caratterizzato da imponente poliuria dovuto all’incapacità del rene di concentrare le urine. È causato da
    • un deficit dell’ormone antidiuretico ADH (anche detto vasopressina) prodotto dall’ipotalamo (diabete insipido centrale)
    • o da una mutazione dei recettori di questo ormone che non riescono ad elaborare il segnale a livello renale (diabete insipido nefrogenico).
  • Polidipsia organica o psicogena: stato di sete intensa che porta ad una sproporzionata assunzione di acqua o di altri liquidi. La forma organica può essere dovuta a svariate cause,  come il diabete, mentre la forma psicogena (anche detta potomania) di questo disturbo è una variante con alla base un disturbo psicologico-comportamentale e non una patologia organica.
  • Ipercalcemia (eccessiva quantità di calcio nel sangue): può essere primitiva, ad esempio provocata da un quadro di iperparatiroidismo, o secondaria da svariate cause (neoplasie).
  • Insufficienza cardiaca congestizia o scompenso cardiaco: la nicturia può rappresentare un sintomo importante e precoce di tale condizione. Nel soggetto cardiopatico accade che il flusso ematico renale si contrae durante il lavoro o la stazione eretta; viceversa durante il riposo notturno la portata ematica renale aumenta e con essa il filtrato glomerulare e ciò porta ad un’abbondante escrezione urinaria durante la notte.
  • Cistite: processo infiammatorio o infettivo di origine per lo più batterica che interessa la vescica, ed è maggiormente frequente nelle donne. Tra i sintomi di una cistite, oltre al dolore durante la minzione, al prurito e al bruciore, compare anche la nicturia (caratterizzata in genere dall’emissione di piccole quantità di urina).
  • Patologia a carico della prostata, che può trattarsi rispettivamente di:
    • Prostatite: infiammazione della prostata tipica dell’età adulta-anziana.
    • Iperplasia prostatica benigna: anche per questa patologia la nicturia rappresenta un sintomo precoce e significativo. È intesa come ingrossamento della ghiandola prostatica che si verifica in oltre il 60% degli uomini over 60. Tale ingrossamento, soprattutto a livello del suo lobo medio porta alla creazione di un’impronta vescicale; la vescica diviene incapace di accumulare una normale riserva urinaria e ciò porta a sintomi molto tipici come
      • urgenza minzionale (urgenza dello stimolo),
      • pollachiuria (aumento della frequenza di minzione),
      • stranguria (minzione intermittente),
      • disuria (difficoltà ad urinare),
      • nicturia.
  • Insufficienza renale cronica: la nicturia presente nelle prime fasi viene poi sostituita da oliguria (ridotta produzione d’urina) e infine anuria (blocco della produzione d’urina).
  • Patologie neurologiche centrali o periferiche, che portano alla perdita del controllo della vescica. Le principali patologie di tale gruppo sono

Diagnosi

Una volta riscontrata la presenza di nicturia è necessario risalire alla causa, differenziando innanzitutto le cause fisiologiche da quelle patologiche.

Rivolgendosi al proprio medico di fiducia ed eventualmente espletando una visita presso uno specialista urologo è possibile indagare sulle possibili cause di nicturia.

L’iter diagnostico non può prescindere da un’attenta anamnesi, che valuterà in particolare

  • frequenza delle minzioni diurne e degli episodi di nicturia,
  • quantità di urine emesse,
  • stile di vita con regime alimentari,
  • presenza di patologie sottostanti,
  • assunzione di farmaci,
  • esecuzione di interventi chirurgici.

Il medico, oltre all’anamnesi e all’esame obiettivo (la visita vera e propria), può richiedere lo svolgimento alcuni esami diagnostici specifici come:

  • analisi del sedimento urinario,
  • urinocoltura con antibiogramma,
  • esame standard delle urine.

Il risultato di queste analisi permette di orientarsi sulla possibile causa di nicturia e continuare il percorso diagnostico con esami di secondo livello:

Può essere utile iniziare a tenere di un “diario minzionale” per registrare sia la modalità di assunzione e il volume dei liquidi introdotti, sia della frequenza delle minzioni e la diuresi delle 24 ore; il diario ha lo scopo di valutare

  • le abitudini del paziente circa l’assunzione di liquidi,
  • la capacità funzionale della vescica che può risultare ridotta,
  • se il disturbo è associato a poliuria e se quest’ultima è solo notturna oppure è presente nelle 24 ore.

Rimedi e cura

Non appena giunge all’evidenza la possibile causa di nicturia, è possibile porre in atto una terapia adeguata ed efficace che, a seconda dei casi, potrà essere di tipo

  • medico-farmacologico,
  • prettamente chirurgico.

Stile di vita e rimedi naturali

Soprattutto quando la nicturia è conseguente a condizioni fisiologiche o parafisiologiche, è possibile introdurre alcuni accorgimenti e modificare le proprie abitudini per migliorare e spesso risolvere il disturbo:

  • Ridurre la quantità di liquidi consumati dalle 18:00 in poi (con l’avvertenza di bere almeno 1.5-2 L al giorno di acqua); può essere utile pianificare anche alcune modifiche alla dieta, spostando per esempio il consumo di alimenti liquidi (minestre, passati di verdure, zuppe, … ma anche le verdure a più alto contenuto di liquidi, come i pomodori) a pranzo.
  • Ridurre il consumo di bevande e cibi contenenti caffeina (, caffè, cioccolato e cola, per esempio), che può esercitare un effetto diuretico.
  • Ridurre il consumo di alcolici, soprattutto alla sera.
  • In caso di presenza di caviglie gonfie è utile sedersi o sdraiarsi per circa un’ora durante, così da contrastare la ritenzione idrica presente. Anche l’uso di calze a compressione graduata può aiutare.
  • Valutare con il medico se alcuni dei farmaci assunti (per esempio per il trattamento della pressione alta) possano essere causa di nicturia e sia magari possibile spostarne l’assunzione al mattino.
  • Ridurre le possibili cause di disturbo del riposo, in modo da favorire un sonno più profondo.
  • Limitare il consumo di sale nella dieta.

Fonti e bibliografia

  • Semeiotica medica. R. Muti. – ed. Minerva Medica.

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Tumore all’ano: cause, sintomi, sopravvivenza e cura

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Introduzione

Il tumore dell’ano è una forma molto rara di neoplasia, gli ultimi dati epidemiologici ne descrivono infatti una prevalenza di circa 2 casi ogni 100.000 individui all’anno e rappresenta l’1% tra tutti i tumori del colon-retto. È tendenzialmente più frequente nel sesso femminile, con un rapporto di 2 a 1 rispetto al sesso maschile.

La sopravvivenza complessiva a 5 anni è elevata e pari al 70-80 per cento.

Si tratta in genere di un tumore di origine epiteliale, nello specifico un epitelioma di tipo pavimentoso che origina dal tratto di transizione. Più raramente può trattarsi di un epitelioma basocellulare, di un adenocarcinoma (ad origine ghiandolare) o di un melano-sarcoma.

I fattori di rischio principali per lo sviluppo di tumore all’ano sono:

  • infezione da HPV (ceppi oncogeni, soprattutto il 16 e il 18),
  • patologie anali croniche sottostanti (fistole, polipi, verruche, leucoplasia, linfogranuloma venereo, condilomi),
  • condizioni di displasia pre-cancerose (ad esempio individuate a livello di un polipo anale),
  • patologie neoplastiche di altre sedi,
  • familiarità per tumori del colon-retto,
  • immunodepressione.

Il quadro clinico del tumore all’ano è rappresentato principalmente da sintomi quali:

  • presenza di lesione ulcerata anale che non riesce a guarire,
  • rettorragia (perdita di sangue dall’intestino retto),
  • dolore ingravescente,
  • incontinenza anale con perdita involontaria di feci e gas,
  • presenza di linfonodi palpabili in sede inguinale.

Per la diagnosi sono necessari, oltre all’anamnesi e all’esame obiettivo, anche

  • la TC,
  • la risonanza magnetica,
  • la PET

ed una colonscopia con prelievo bioptico che permette la diagnosi istologica di certezza.

Il trattamento è basato su

  • intervento chirurgico qualora possibile (forme iniziali poco avanzate e senza metastasi a distanza),
  • radioterapia,
  • chemioterapia.

Cause

Dal punto di vista anatomico l’ano è lungo 3-4 cm, ed è situato al di sotto del pavimento pelvico ed in posizione mediana nel perineo posteriore. Il canale anale fa seguito al retto e si unisce alla cute a livello del margine anale.

Il ruolo dell’ano è quello di assicurare le due funzioni di continenza ed evacuazione.

Schema semplificato del tumore all'ano

Di Cancer Research UK – Original email from CRUK, CC BY-SA 4.0, Collegamento

Alcune affezioni organiche a carico dell’ano sembrano poter predisporre allo sviluppo di una neoplasia:

  • fistole anali croniche,
  • condilomi anali HPV-correlati,
  • polipi rettali e anali,
  • leucoplasie,
  • prolasso mucoso di lunga data,
  • malattia di Nicolas-Favre: ovvero il linfogranuloma venereo, una malattia a trasmissione sessuale causata da Chlamydia Trachomatis.

Nella maggior parte dei casi la neoplasia è istologicamente un epitelioma di tipo pavimentoso, mentre molto più rari sono i casi con epitelioma basocellulare o melano-sarcoma.

Come gran parte delle neoplasie, il tumore all’ano tende all’accrescimento locale invadendo le strutture circostanti (sfinteri anali, sia esterno che interno), e alla propagazione a distanza con formazione di metastasi; questa propagazione a distanza può avvenire:

  • frequentemente per via linfatica,
  • più raramente per via ematica.

Le prime stazioni linfonodali ad essere interessate sono quelle presenti a livello inguinale, per poi diffondersi anche a livello dei linfonodi pelvici, mesenterici e aortici.

Sintomi

Nella fase iniziale di sviluppo tumorale la neoplasia si manifesta sotto forma di una piccola lesione ulcerata che, nonostante i tentativi di cura, non raggiunge la guarigione. I sintomi all’inizio sfumati tendono poi ad aggravarsi diventando sempre più fastidiosi e poco gestibili.

Principalmente si descrivono sintomi quali:

  • presenza di piccola lesione ulcerata a livello anale che non guarisce e che provoca
    • bruciore,
    • dolore,
    • lieve sanguinamento;
  • dolore più intenso e continuo, nonché poco gestibile con la normale terapia antidolorifica,
  • alternanza dell’alvo, ovvero periodi con diarrea che si alternano a periodi di stipsi,
  • rettorragia (perdita di sangue dall’ano) inizialmente minima, ma che tende ad aumentare e a mantenersi costante, che può portare ad uno stillicidio continuo sino all’anemizzazione del paziente (riduzione dei livelli di globuli rossi ed emoglobina)
  • incontinenza anale: disturbo che consiste nella perdita involontaria di gas e feci o l’incapacità di trattenere il contenuto rettale per un tempo sufficiente che consenta di recarsi in un ambiente idoneo all’evacuazione. Questa condizione sopraggiunge nella fase tardiva di sviluppo del tumore anale, quando ormai la neoplasia ha invaso gli sfinteri rendendoli non più capaci nella funzione di continenza. È facile intuire come questo sintomo sia molto fastidioso per il paziente e ne riduca notevolmente la qualità di vita;
  • presenza di linfonodi palpabili esternamente aumentati di volume, duri, poco mobili rispetto ai piani sottostanti, ma in genere non dolenti: di solito le stazioni linfonodali palpabili sono quelle presenti a livello inguinale

Possono inoltre insorgere, a seconda dello stadio della malattia, sintomi generali come

Diagnosi

Il percorso diagnostico comincia con la raccolta dei dati anamnestici da parte del medico, che permette di ricostruire la storia clinica recente e remota del paziente. Nel caso del tumore all’ano sarà dirimente la presenza di una familiarità per il tumore del colon, individuando altri membri della famiglia con precedenti di tumore del colon retto. Andrà inoltre valutata la presenza in passato di eventuali condizioni a rischio come la presenza di

  • una fistola anale cronica,
  • una leucoplasia,
  • un linfogranuloma venereo.

L’esame obiettivo mira al riconoscimento dei sintomi oggettivi e dei segni oggettivi del paziente.

L’esplorazione digito-rettale o con l’ausilio di un anoscopio evidenzia una lesione ulcerata, leggermente dolente alla palpazione, a volte indurita ma friabile con presenza di tracce di sangue.

Esami di laboratorio

Gli esami ematochimici possono essere del tutto negativi o mostrare un quadro di anemia microcitica, caratterizzato dalla riduzione dei livelli di globuli rossi e di emoglobina e dei livelli di ferro (riduzione di sideremia e ferritina, aumento della transferrina), il tutto legato all’eventuale rettorragia.

Lo studio dei markers tumorali può mostrare l’innalzamento del CEA (antigene carcino-embrionario).

Il SOF (sangue occulto nelle feci) si dimostra positivo nella maggior parte dei casi di tumore all’ano, ma è un dato assolutamente aspecifico che richiede sempre un approfondimento diagnostico con altre indagini.

Tecniche d’imaging

Il clisma opaco consiste in un’indagine strumentale radiologica basata su una radiografia che viene scattata dopo inserimento di mezzo di contrasto radio-opaco (di solito si utilizza il solfato di bario) per mezzo di un clistere. Quest’indagine veniva spesso utilizzata in passato per lo studio delle patologie del colon-retto, ma ad oggi trova poche indicazioni, essendo stata sostituita dalle indagini TC ed RM (risonanza magnetica).

L’eco-endoscopia è un’ecografia realizzata con la stessa modalità della colonscopia che può essere utile per valutare

  • la profondità dell’invasione tumorale nella parete,
  • l’eventuale interessamento dei muscoli del pavimento pelvico
  • e lo stato dei linfonodi adiacenti al canale anale/retto.

La TC rappresenta un esame dirimente per la diagnosi del tumore all’ano, poiché permette di stabilire con discreta precisione le dimensioni della neoplasia ed i suoi rapporti con le strutture circostanti, valutandone l’eventuale infiltrazione. Uno studio TC esteso al torace e all’addome permette inoltre di valutare la presenza di metastasi a distanza sia linfonodali che a carico di altri organi (polmoni, fegato, peritoneo,…), e sulla base della presenza o meno di quest’ultime permette di stabilire il corretto iter terapeutico (chirurgia, radioterapia, chemioterapia, o un mix tra esse).

La risonanza magnetica è un’indagine di secondo livello molto utile in questo caso per lo studio dei tessuti molli che circondano la neoplasia a livello anale, valutandone il grado di infiltrazione. Permette con particolare precisione di individuare l’eventuale infiltrazione degli sfinteri anali che clinicamente si manifestano con l’incontinenza anale.

La PET (tomografia ad emissione di positroni) permette la localizzazione di cellule tumorali nel corpo a distanza dal tumore primitivo. Fornisce inoltre importanti informazioni sull’aggressività della neoplasia o sull’eventuale efficacia del trattamento chemioterapico.

La colonscopia o rettosigmoidoscopia rappresenta l’esame gold standard per il tumore dell’ano, permettendo una visione diretta della neoplasia. Permette inoltre l’esecuzione di una biopsia della lesione neoplastica che con lo studio anatomo-patologico, fornisce una diagnosi istologica di certezza. Sulla base del dato istologico sarà possibile definire l’aggressività biologica del tumore e quindi capire anche la tempistica con la quale esso si accresce, e definirne quindi la prognosi. Le caratteristiche istologiche inoltre risulteranno discriminanti per il medico oncologo, che potrà optare per un’eventuale ciclo di chemioterapia tumore-specifico.

Cura

Se il tumore viene riconosciuto e diagnosticato precocemente, quando esso abbia invaso localmente soltanto poche strutture e non abbia portato allo sviluppo di metastasi a distanza, si può ricorrere all’intervento chirurgico o alla radioterapia.

Nelle forme più avanzate la radioterapia non è più possibile e si ricorrerà soltanto all’intervento chirurgico, che consiste nella maggior parte dei casi in una “amputazione addomino-perineale secondo Miles” con resezione qualora possibile delle strutture linfonodali interessate dalla neoplasia. L’amputazione addomino-perineale viene eseguita per i tumori del retto-ano la cui exeresi non permetterebbe di conservare l’apparato sfinterico. Con questo intervento viene asportato l’ano con l’ultima parte del retto-sigma e viene confezionata una colostomia terminale: ovvero l’ultima parte del colon viene fatta abboccare alla cute e da qui verranno fatte fuoriuscire le feci all’esterno per mezzo di una busta di raccolta.

L’eventuale trattamento chemioterapico può essere eseguito dopo una consulenza oncologica in caso di malattia ormai diffusa con metastasi a distanza ed eseguita prima dell’intervento chirurgico (terapia neoadiuvante) o in seguito (terapia adiuvante).

Fonti e bibliografia

  • Patologia chirurgica: Patel-Leger e coll. Ed. Masson
  • Chirurgia. Basi teoriche e chirurgia generale – Chirurgia specialistica vol.1-2 di Renzo Dionigi. Ed. Elsevier

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Manovra di Valsalva e nervo vago: cos’è e come si fa

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Cos’è la manovra di Valsalva?

La manovra di Valsalva è una manovra manuale che si effettua compiendo un’espirazione dopo un’ispirazione profonda, tenendo chiusi bocca e naso. Più scientificamente possiamo dire che si tratta di una manovra caratterizzata da:

  • un’ispirazione profonda seguita da
  • un’espirazione forzata a glottide chiusa
  • per circa 10 secondi.

Tale manovra era ben nota ai medici arabi già a partire dal 1100 d.C. ma solo diversi secoli dopo, intorno al XVI-XVII d.C., venne introdotta nella pratica clinica in Italia grazie allo studioso Antonio Maria Valsalva.

Valsalva era affascinato dallo studio dell’orecchio, per cui questa manovra inizialmente venne utilizzata per

  • ispezionare meglio l’orecchio, ed in particolare la pervietà della tromba di Eustachio,
  • a scopo terapeutico per espellere il pus in corso di otite grave o corpi estranei.

Ad oggi si sa che tale manovra è utile in molti campi medici e non, come ad esempio per rallentare i battiti del cuore in pazienti tachicardici o per calmare un singhiozzo particolarmente fastidioso; la manovra infatti aumenta notevolmente la pressione all’interno dei seni nasali e in particolare nella cavità toracica. L’elevata pressione toracica stimola tra l’altro il nervo vago e aumenta il tono vagale (clicca qui per approfondire), ma non solo, la manovra in realtà produce una serie complessa di eventi fisiologici che i medici hanno impiegato nel corso degli anni per diversi scopi.

Donna esegue la manovra di Valsalva, tappandosi il naso ed espirando con forza

iStock.com/Camrocker

Come si fa?

La manovra di Valsalva è una manovra semplice che però va eseguita nel modo corretto, per evitare spiacevoli situazioni come il sopraggiungere di una sincope (svenimento).

Schematicamente possiamo dire che si esegue nel modo seguente:

  1. ispira profondamente,
  2. tappa il naso con le dita e compi un’espirazione forzata a bocca chiusa,
  3. contrai i muscoli dell’addome: in tal modo si aumenta la pressione all’interno del petto e della pancia e si svuotano i visceri.

La contrazione dei muscoli addominali e dei muscoli respiratori trasforma l’addome in una vera e propria camera d’aria gonfiabile, racchiusa entro pareti resistenti e rigide.

Fasi fisiologiche della manovra

La manovra di Valsalva può schematicamente essere suddivisa in 4 fasi, ossia:

  1. tensione iniziale,
  2. tensione,
  3. rilasciamento,
  4. recupero.

Fisiologicamente la manovra di Valsalva determina effetti emodinamici (ossia alterazioni del comportamento del sangue in movimento nei vasi) concatenati nel nostro corpo, ossia:

  • quando una persona espira forzatamente a glottide chiusa, si verifica un aumento della pressione all’interno della sua gabbia toracica e della pancia, nonché della pressione arteriosa sistolica a causa della compressione dell’aorta (fase I);
  • il ritorno venoso del sangue al cuore è ostacolato con conseguente riduzione del volume di sangue pompato dal cuore in sistole (ossia durante la contrazione) e della pressione arteriosa sistolica per il permanere della pressione toracica positiva (fase II). Anche i battiti cardiaci diminuiscono.
  • nelle fasi III e IV di rilasciamento e di recupero si verifica :
Grafico di pressione sanguigna e battiti cardiaci durante la manovra di Valsalva

Di Nessun autore leggibile automaticamente. T.torda presunto (secondo quanto affermano i diritti d’autore). – Nessuna fonte leggibile automaticamente. Presunta opera propria (secondo quanto affermano i diritti d’autore)., CC BY-SA 3.0, Collegamento

A cosa serve?

La manovra di Valsalva ha molteplici usi, clinici e non.

I cardiologi la insegnano ai pazienti che soffrono di tachicardia parossistica come tecnica praticabile in urgenza per ridurre la frequenza cardiaca in caso di crisi. A livello del collo, infatti, la manovra causa una stasi del sangue nei vasi sanguigni del collo che appariranno rigonfi, e ciò va a stimolare i recettori pressori (barocettori) situati sul seno carotideo con conseguente picco di attività vagale (attività del nervo vago). Questo causa:

  • attivazione del sistema parasimpatico,
  • abbassamento della frequenza cardiaca,
  • abbassamento della pressione arteriosa.

In combinazione con l’elettrocardiogramma e l’ecocardiogramma la manovra può inoltre essere utilizzata per formulare diagnosi di anomalie del cuore, ad esempio di soffi cardiaci e nella valutazione dei pazienti con scompenso cardiaco.

I neurologi si possono avvalere della manovra di Valsalva come aiuto diagnostico nel caso di sospetto di neuropatie, alcune malformazioni congenite o dolori radicolari da lesioni dei nervi spinali accentuati dalla manovra.

Gli urologi usano la manovra di Valsalva insieme ai test urodinamici per la diagnosi di incontinenza urinaria da deficienza sfinterica intrinseca.

Gli odontoiatri la utilizzano nella presa dell’impronta, perché in grado di favorire l’abbassamento del palato molle.

La manovra, inoltre, si è visto che può ridurre la pressione alla schiena e dunque abbassare il rischio di erniazioni e/o altri traumi alla colonna vertebrale, ad esempio per chi pratica al livello agonistico sollevamento pesi: riduce fino al 50% la pressione a livello del disco intervertebrale T12-L1 e fino al 30% a livello del disco L5-S1.

L’equipaggio di volo conosce la manovra di Valsalva per l’utilità che può rivestire nelle fasi di atterraggio, quando l’aumento della pressione ambiente tende a tenere chiuse le trombe di Eustachio, impedendo la normalizzazione della pressione attraverso il timpano, con risultati dolorosi per le nostre orecchie (condizione simile a quanto si può verificare nelle immersioni subacquee).

Nelle acrobazie aeree l’uso della manovra di Valsalva serve per facilitare il ritorno venoso al cuore.

Manovra di Valsalva ed attività subacquea

La manovra di Valsalva è tra le tecniche più usate in caso di compensazione subacquea, ossia quando il sub si trova a fronteggiare repentine variazioni della pressione esterna, con la necessità di compensare la pressione dell’orecchio con la pressione ambientale.

In particolare stiamo parlando della porzione media dell’orecchio, dove è presente la tromba di Eustachio.

Anatomia semplificata dell'orecchio

iStock.com/snapgalleria

L’orecchio medio infatti non ha una capacità spontanea di compensazione, a differenza delle altre cavità del nostro corpo. Basti pensare ad esempio alla trachea, alla laringe, ai seni nasali e paranasali: nel caso di questi organi, qualora si verificano brusche variazioni della pressione esterna, è possibile assistere ad una compensazione spontanea attuata dai polmoni che, facendo entrare aria in queste cavità, evitano possibili danni da pressione.

Nel caso dell’orecchio medio questa compensazione spontanea non avviene, a causa della presenza al suo interno di un organo che fa da “ostacolo” all’aria in entrata di provenienza dai polmoni: cioè la tuba di Eustachio, ossia un condotto osseo-cartilagineo particolarmente stretto che mette in comunicazione l’orecchio medio con il rinofaringe.

È dunque necessario mettere in pratica alcune manovre, come la manovra di Valsalva, per favorire la compensazione dell’orecchio medio e permettergli di equiparare il valore di pressione ambientale esterna in particolari condizioni, come ad esempio la fase di discesa di un’immersione subacquea quando la pressione ambiente aumenta e le tube di Eustachio si chiudono.

I sub eseguono la manovra per forzare le tube di Eustachio ad aprirsi e consentire l’entrata di aria nell’orecchio medio. Può esser d’aiuto deglutire ripetutamente, per aprire le tube di Eustachio e consentire all’orecchio la compensazione.

Attuare una manovra compensatoria durante la discesa in acqua è particolarmente importante per proteggere la membrana timpanica da possibili danni, anche gravi.

La manovra non va praticata se non si è sicuri d’averla appresa nel modo corretto, per questo è necessario essere stati istruiti da persone qualificate, come sub esperti.

Curiosità

Si compie spontaneamente la manovra di Valsalva, quindi senza accorgersene, sia durante l’atto delle defecazione che nella fase precedente un colpo di tosse, così come quando si solleva un carico pesante.

Tutte condizioni in cui si “trattiene il fiato” spontaneamente.

Controindicazioni e rischi

La manovra di Valsalva non andrebbe compiuta se non si è certi di saperla eseguire nel modo corretto. Affidatevi sempre ad una persona esperta, come un medico o personale specializzato, per ricevere le giuste istruzioni.

È una tecnica faticosa, assolutamente controindicata nei casi di:

  • bambini con tetralogia di Fallot (cardiopatia), in cui può aggravare i sintomi (cianosi, sincope, convulsioni e difficoltà respiratorie);
  • nei pazienti con diagnosi di forame ovale pervio, una malformazione cardiaca congenita caratterizzata da un difetto di chiusura del setto interatriale. In questi casi può verificarsi un aumento pressorio nella parte destra del cuore a seguito di starnuti, colpi di tosse o contrazioni addominali con comparsa di sintomi cardiaci e complicanze (embolia).

Va in ogni caso praticata con cautela perché la fase di apnea che caratterizza la manovra può esser causa di possibile comparsa di

in alcune persone predisposte (specie negli anziani).

Durante un allenamento generale in palestra la manovra di Valsalva non dovrebbe essere utilizzata come tecnica di respirazione per i rischi di innalzare la pressione arteriosa in maniera pericolosa.

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Anemia emolitica: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

Per anemia emolitica s’intende un gruppo di malattie del sangue caratterizzate

  • dall’accorciamento della vita media dei globuli rossi (detti anche eritrociti o emazie), di solito di 120 giorni,
  • e dalla loro prematura distruzione (per emolisi intra- o extravascolare).

Il termine anemia indica una situazione patologica di riduzione dei normali livelli di emoglobina e di globuli rossi; l’aggettivo “emolitica” indica invece la causa dell’anemia, ovvero la distruzione prematura -emolisi – dei globuli rossi per svariate cause.

Anemia

iStock.com/solar22

Quando il midollo osseo, dove avviene la produzione di globuli rossi, non riesce a compensare la loro perdita, si parla di anemia emolitica non compensata.

Le cause di anemia emolitica possono essere raggruppate in 2 grandi categorie:

  • cause intraglobulari, da difetti congeniti o acquisiti intrinseci al globulo rosso,
  • cause extraglobulari, da fattori secondari esterni al globulo rosso.

La sintomatologia dell’anemia emolitica, così come dell’anemia in generale, prevede un quadro clinico caratterizzato da:

La diagnosi si avvale di anamnesi ed esame obiettivo coadiuvati da esami di laboratorio che permettono

  • sia di stabilire con certezza la presenza di un quadro di anemia emolitica,
  • sia di risalirne alla causa sottostante.

La cura di questa patologia dipende dalla rimozione della causa sottostante. La terapia medica prevede l’utilizzo di farmaci cortisonici e immunosoppressori per le forme ad eziologia autoimmune, e una terapia di sostegno (con trasfusioni di sangue e integrazione di ferro) per le altre forme congenite.

Dal punto di vista chirurgico in alcuni casi si effettua la rimozione della milza (splenectomia) per diminuire la gravità del quadro clinico in alcune forme di anemia emolitica.

Cause

Le cause che portano ad un quadro di anemia emolitica sono classificabili in 2 grandi gruppi:

  • cause intraglobulari se l’emolisi è causata da difetti intrinseci dei globuli rossi,
  • cause extraglobulari quando l’emolisi è dovuta a fattori esterni e cause estrinseche ai globuli rossi stessi.

Cause intraglobulari

Questo gruppo di anemie emolitiche sono caratterizzata dalla presenza di difetti intrinseci a carico dei globuli rossi che possono interessare

  • la membrana,
  • il metabolismo,
  • la produzione di emoglobina.

Le principali forme di anemie emolitiche da cause intraglobulari sono:

  • Ellissocitosi e sferocitosi: sono due forme congenite caratterizzate da alterazione di alcune proteine di membrana dei globuli rossi che ne modificano la struttura tridimensionale rendendola di tipo ellissoidale nel primo caso o sferica nel secondo. L’alterazione della forma ne diminuisce la funzionalità (del trasporto di ossigeno) e le rende suscettibili di sequestro e distruzione precoce a livello della milza.
  • Deficit di Glucosio-6-fosfato-deidrogenasi (G6PD) anche detta favismo: la carenza di questo enzima rende i globuli rossi molto suscettibili al danno ossidativo, che tende ad aumentare in alcune situazioni come ingestione di favi o piselli, assunzione di alcuni farmaci, interventi chirurgici, infezioni. Durante questo “attacco ossidativo” i globuli rossi tendono alla morte prematura portando allo sviluppo di un quadro di anemia emolitica acuta.
  • Emoglobinuria parossistica notturna: è una forma genetica con alterazione di una proteina di membrana dei globuli rossi, che li rende suscettibili all’attacco da parte del sistema del complemento che si attiva e ne provoca la distruzione precoce.
  • Drepanocitosi, anche detta anemia falciforme: i globuli rossi contengono una forma di emoglobina anomala chiamata emoglobina S, che tende ad aggregarsi e a precipitare all’interno dell’eritrocita il quale viene a deformarsi assumendo una forma a falce o a mezzaluna; a questo punto gli eritrociti a falce tendono a essere più rigidi e vengono distrutti prematuramente a livello della milza o peggio, provocano occlusione dei vasi del microcircolo con microischemie e sindromi dolorose (soprattutto a livello di mani e piedi).
  • Talassemia: gruppo di anemie congenite, caratterizzate da un difetto di sintesi dell’emoglobina (forme alfa e forme beta) che provocano anemia da aumentata distruzione a livello splenico (con ingrossamento della milza) e sintomi da iperplasia del midollo osseo con modificazione ossee macroscopiche.

Cause extraglobulari

In questo caso l’emolisi è provocata da fattori esterni al globulo rosso, che lo danneggiano e ne riducono la vita media portando ad un quadro di anemia. Le principali forme di anemie emolitiche da cause extraglobulari sono:

  • Ipersplenismo e splenomegalia: ingrossamento della milza da linfomi o leucemie.
  • Anemia emolitica autoimmune: da anticorpi caldi, freddi o misti.
  • Fattori tossici: effetti collaterali di farmaci (sulfamidici, chinino), veleno di insetti o altri animali, intossicazione da piombo, rame o altri metalli pesanti.
  • Fattori meccanici: l’emolisi è di tipo meccanica-traumatica con i globuli rossi che vengono danneggiati e rimossi dal circolo a livello splenico. Le cause meccaniche più frequenti possono essere:
    • presenza di placche aterosclerotiche,
    • vasculiti,
    • emoglobinuria da marcia (comparsa di sangue od emoglobina nelle urine dopo urti ripetuti di parti del corpo, tipicamente dopo lunghe camminate cui non si è abituati),
    • porpora trombotica trombocitopenica e sindrome uremico-emolitica (SEU),
    • valvulopatie cardiache o presenza di valvole cardiache meccaniche.
  • infezioni batteriche o virali da
  • patologie neoplastiche.

Sintomi

Le anemie emolitiche posso presentarsi con un quadro piuttosto variegato di sintomi, ma nella maggior parte dei casi si manifestano con:

  • anemia, con la cute pallida e più fredda del normale; anche le mucose hanno un colorito pallido e questa caratteristica è visibile soprattutto a livello della congiuntiva palpebrale e del letto ungueale;
  • nausea e vomito,
  • debolezza, astenia e malessere generalizzato,
  • dolore addominale (raramente),
  • emoglobinuria: ovvero perdita di emoglobina con le urine che diventano rossastre o più scure color coca cola;
  • ittero: colorazione giallastra di cute e mucose da aumento della bilirubina;
  • febbre con brividi (la febbre è un sintomo tipico dell’anemia falciforme o dell’anemia in caso di infezione malarica),
  • dispnea e difficoltà a respirare nelle forme acute più gravi,
  • ipotensione (pressione arteriosa bassa),
  • vertigini,
  • collasso cardiocircolatorio con sincope e svenimento,
  • splenomegalia: ingrandimento della milza per via dell’aumento della sua funzione emocateretica, ovvero distruzione dei globuli rossi con alterazione grave della loro struttura tridimensionale (come nelle anemie da cause intraglobulari: ellissocitosi, sferocitosi, stomatocitosi).

Diagnosi

Il percorso diagnostico comincia con l’esecuzione di una dettagliata anamnesi e di un accurato esame obiettivo. Con l’anamnesi il medico ricostruisce la storia clinica remota e recente del paziente.

Nel caso dell’anemia emolitica sarà utile per il medico indagare su:

  • familiarità per quadri di anemia, ovvero individui di una stessa famiglia che soffrono di una stessa patologia, a sottolineare il background genetico della stessa,
  • tempi di comparsa dei sintomi: ovvero se sono comparsi sin dall’infanzia o più recentemente durante la vita adulta,
  • sviluppo dei sintomi in talune situazioni: ad esempio dopo particolari cibi (nel caso del favismo), dopo l’uso di alcuni farmaci, dopo alcune infezioni, dopo viaggi in alcuni paesi extraeuropei (come nel caso della malaria), …
  • presenza di patologie sottostanti.

L’esame obiettivo permette al medico di confermare i sintomi soggettivi del paziente e discriminare i segni oggettivi. La presenza di cute e mucose pallide associate a forte astenia, all’emissione di urine scure, ad un quadro di splenomegalia e pressione bassa, depongono per un quadro clinico già fortemente sospetto per una forma di anemia, che dovrà essere confermata successivamente da esami di laboratorio o da alcune indagini radiologiche di secondo livello.

Dal punto di vista laboratoristico si renderà necessario eseguire:

  • emocromo completo per valutare soprattutto i valori di
  • striscio di sangue periferico, che permette la visione diretta di globuli rossi anomali nella loro struttura cellulare (forma ellissoidale nell’ellissocitosi, forma sferica nella sferocitosi, schistociti nelle forme meccaniche, ecc …),
  • reticolociti: sono i progenitori cellulari degli eritrociti ed il loro aumento è indicativo di un’aumentata produzione di globuli rossi a livello del midollo osseo, per compensare la loro carenza in circolo,
  • bilirubina indiretta: che aumenta proprio nelle anemie emolitiche per via del rilascio massivo di emoglobina che viene degradata in bilirubina,
  • sideremia: indica la quantità di ferro in circolo che in questo caso è aumentata poiché necessaria al midollo osseo per la nuova formazione di globuli rossi,
  • aumento dell’enzima lattato-deidrogenasi (LDH),
  • riduzione di aptoglobina.

Altri esami di secondo livello sono rappresentati da:

  • test di Coombs,
  • elettroforesi quantitativa dell’emoglobina,
  • test di fragilità osmotica,
  • ricerca di agglutinine a freddo,
  • citometria a flusso,
  • test genetici per valutare la carenza di enzimi eritrocitari.

Cura

Il trattamento dell’anemia emolitica dipende dalla causa sottostante e dalla sua eventuale rimozione. Da un punto di vista generale il trattamento farmacologico può richiedere:

  • Farmaci a base di cortisone o di immunosoppressori per le forme di anemia emolitica autoimmune:
    • cortisone,
    • ciclofosfamide,
    • azatioprina.
  • Trasfusioni di sangue, quando i valori ematici sono tanto bassi da mettere a serio rischio anche la vita del paziente.
  • Integrazione orale o endovenosa di ferro o folati, per sostenere l’aumentata produzione di globuli rossi a livello del midollo osseo.
  • Terapia antibiotica per le forme dimostrate infettive.
  • Sospensione di quei farmaci ritenuti responsabili di anemia emolitica.

Quando sussiste una forma di splenomegalia e ipersplenismo può rendersi necessario l’intervento chirurgico di splenectomia curativa, ovvero la rimozione chirurgica della milza; in questo modo tutti i globuli rossi con anomalia di struttura (sferocitosi, ellissocitosi,…) sopravvivono per un periodo di tempo maggiore riducendo la gravità dei sintomi e del quadro clinico.

Fonti e bibliografia

  • Core curriculum – Ematologia. G.Castoldi, V.Liso (McGraw-Hill Education)

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Ipertrofia dei turbinati nasali: sintomi e rimedi

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Cosa sono i turbinati?

I turbinati (anche chiamati “cornetti” o “conche”) sono 3 formazioni ossee ricoperte da mucosa nasale respiratoria presenti in ognuna delle 2 fosse nasali. Si descrivono:

  • turbinato superiore, che origina dall’etmoide,
  • turbinato medio, che origina assieme al superiore dall’etmoide,
  • turbinato inferiore, che è invece un osso indipendente.
Anatomia semplificata del Tratto Respiratorio Superiore

By BruceBlaus. When using this image in external sources it can be cited as:Blausen.com staff (2014). “Medical gallery of Blausen Medical 2014“. WikiJournal of Medicine 1 (2). DOI:10.15347/wjm/2014.010. ISSN 2002-4436. – Own work, CC BY 3.0, Link

A cosa servono i turbinati?

La mucosa nasale che li riveste assolve a diverse funzioni fondamentali:

  • La funzione del muco fisiologicamente prodotto permette di umidificare l’aria, qualora quell’ambiente sia troppo secca.
  • La presenza delle ciglia della mucosa permette di bloccare le particelle di polvere evitandone la respirazione, in modo da purificare il più possibile l’aria inspirata.
  • La cospicua vascolarizzazione della mucosa permette di riscaldare l’aria inspirata sino ad una temperatura adeguata per il suo passaggio a livello polmonare.

Riassumendo si può affermare che le funzioni dei turbinati nasali sono quelle di riscaldare, umidificare e purificare l’aria inspirata, regolandone anche il flusso in entrata verso i polmoni.

Cos’è l’ipertrofia dei turbinati?

Per ipertrofia dei turbinati s’intende una patologia caratterizzata dall’aumento di dimensioni della mucosa nasale che riveste i turbinati, le formazioni ossee presenti all’interno della cavità nasali, il cui rigonfiamento provoca ostruzione nasale con sensazione di naso chiuso.

Le principali cause che possono portare allo sviluppo di ipertrofia dei turbinati sono:

  • rinite allergica, infettiva o vasomotoria,
  • inquinanti atmosferici, inalazione di polveri, fumo di sigaretta,
  • anomalie del sistema nervoso autonomo.

Il quadro clinico ed i sintomi più significativi che si presentano in caso di ipertrofia dei turbinati sono:

La diagnosi si avvale di anamnesi ed esame obiettivo coadiuvati da alcune indagini strumentali eseguite dallo specialista otorinolaringoiatra come una rino-fibro-laringo-scopia o una manometria nasale.

Il trattamento prevede un approccio farmacologico per le forme iniziali che rispondono positivamente alla terapia medica, con l’utilizzo di farmaci

  • antibiotici ad azione locale,
  • antistaminici
  • e spray decongestionanti.

Nelle forme ormai consolidate di ipertrofia si rende necessario un trattamento chirurgico tradizionale o basato sull’utilizzo di tecnologia laser.

Cause

In risposta a diversi fattori, la mucosa che riveste i turbinati nasali va incontro a rigonfiamento aumentando di volume. Normalmente questa condizione è solo temporanea e, terminato lo stimolo, la mucosa torna a dimensioni normali. Tuttavia in alcuni casi l’aumento di volume della mucosa dei turbinati si rende stabile nel tempo andando incontro ad una vera propria ipertrofia permanente.

Una volta instauratasi l’ipertrofia si creano modificazioni a livello degli spazi respiratori nasali, con la conseguenza che il flusso dell’aria può diventare turbolento e difficoltoso: questo si traduce clinicamente in una forma di ostruzione nasale con sensazione di naso chiuso.

Le principali cause che possono portare allo sviluppo di ipertrofia dei turbinati sono:

  • Rinite, ovvero infiammazione della mucosa nasale, a suo volta può essere di tipo:
    • Allergica, da polline, acari della polvere, pelo di animali come cane e gatto, muffe;
    • Vasomotoria, con cui si intende una iper-reattività della mucosa nasale a stimoli teoricamente innocui, come aria fredda o calda, variazione di umidità, fumo di sigaretta, stress. In questo disturbo si viene a liberare istamina provocando modificazioni simile a quelle che si verificano in caso di rinite allergica;
    • Infettiva da microrganismi di tipo batterico o virale;
  • anomalie del sistema nervoso autonomo,
  • inalazione di inquinanti atmosferici o fumi e vapori irritanti e tossici,
  • utilizzo cronico di spray nasali vasocostrittori: se da un lato essi vengono utilizzati per “liberarsi” dalla sensazione di naso chiuso, di contro il loro abuso porta a modifiche della mucosa nasale con un’ostruzione nasale paradossa cronica (rinite medicamentosa).

Sintomi

Nelle fasi iniziali del suo decorso, l’ipertrofia dei turbinati è pressoché asintomatica e non si hanno ripercussioni degne di note sulla funzionalità respiratoria. A lungo andare tuttavia l’ipertrofia tende ad aumentare con la graduale comparsa dei tipici sintomi:

  • ostruzione nasale a una od entrambe le narici con sensazione di naso chiuso,
  • accentuazione dell’ostruzione soprattutto di notte con l’assunzione della posizione supina che contribuisce alla congestione dei turbinati, e aumenta il rischio anche di apnee notturne,
  • rinorrea, ovvero produzione di secrezione siero-mucosa che viene liberata all’esterno con “naso che cola”,
  • prurito nasale,
  • starnutazione ripetuta,
  • iposmia, ovvero riduzione della percezione degli odori,
  • epistassi, ovvero fuoriuscita di sangue dal naso (raramente),
  • alitosi (alito cattivo),
  • rinolalia, ovvero voce con timbro nasale che tipicamente si manifesta in caso di naso chiuso,
  • ipoacusia, riduzione dell’udito con sensazione di ovattamento,
  • tendenza alla respirazione con la bocca, che a sua volta porta alla secchezza della cavità orale e allo sviluppo di cefalea (mal di testa).

A distanza di tempo è possibile che tale quadro clinico venga ulteriormente peggiorato dalla presenza di alcune complicanze come:

Diagnosi

La diagnosi di ipertrofia dei turbinati deve partire da un’accurata anamnesi ed un dettagliato esame obiettivo.

L’anamnesi consiste in una sorta di intervista medico-paziente in cui si ricostruisce l’intera storia clinica dell’ammalato, sia remota che recente. In questo caso sarà importante per il medico indagare sulla presenza di:

  • Storia di rinite allergica o vasomotoria che predispone a distanza di tempo all’ipertrofia dei turbinati.
  • Familiarità, ovvero presenza del disturbo anche in altri individui della stessa famiglia del paziente.
  • Uso ed abuso di decongestionanti nasali vasocostrittori.
  • Patologie sottostanti.

Con l’esame obiettivo il medico individua i sintomi soggettivi riferiti dal paziente e i segni oggettivi che discriminano la presenza di un’ipertrofia dei turbinati.

Terminata questa fase iniziale, il percorso diagnostico prosegue con l’esecuzione di alcune indagini strumentali. Lo specialista otorinolaringoiatra può richiedere l’esecuzione di:

  • Rino-fibro-laringo-scopia: è un esame endoscopico effettuato con l’utilizzo di un tubo flessibile dotato di telecamera e di una fonte luminosa alla sua estremità. Permette la visione diretta di diverse strutture: naso, cavità orale, faringe e laringe. A livello nasale mette in evidenza il rigonfiamento della mucosa nasale e la riduzione dello spazio respiratorio consensuale.
  • Esame citologico e colturale del secreto nasale: permette la diagnosi un’eventuale rinite allergica o infettiva alla base del disturbo
  • Rinomanometria: indagine di secondo livello che permette di misurare con precisione le caratteristiche del flusso aereo che si forma a livello delle cavità nasale, descrivendone le eventuali alterazioni.
  • Prove allergologiche.
  • Altre indagini radiologiche come una TC del massiccio facciale o una risonanza sono indagini di secondo livello che vengono richieste solo in alcuni casi, quando c’è il sospetto che l’ostruzione nasale possa essere provocata da altre patologie differenti da una semplice ipertrofia dei turbinati (come una sinusite cronica, una poliposi nasale o un tumore che origina a livello della cavità nasale)

Come sgonfiare i turbinati?

Rimedi naturali

Per dare sollievo ai turbinati gonfi ed infiammati è possibile procedere a:

  • uso di cerottini nasali per dilatare le cavità e favorire la respirazione,
  • lavaggi nasali frequenti con soluzione salina,
  • uso di un umidificatore in casa (soprattutto nella stagione fredda),
  • terapia termale,
  • in caso di allergia ridurre il rischio di esposizione all’allergene specifico, con eventuali specifiche azioni domestiche (uso di presidi antiacaro, tenere le finestre chiuse di giorno in caso di allergia al polline, …).

Farmaci per curare l’ipertrofia dei turbinati

Nelle fasi iniziali l’ipertrofia dei turbinati può risentire positivamente di un trattamento medico, con la possibilità che il rigonfiamento della mucosa vada incontro a regressione. Dal punto di vista farmacologico si possono utilizzare:

  • Farmaci antibiotici, per la cura di una rinite infettiva cronica sottostante.
  • Antistaminici o cortisonici, per ridurre la sintomatologia allergica, riducendo la reattività della mucosa nasale.
  • Spray decongestionanti vasocostrittori che riducono l’ostruzione nasale con solo scopo sintomatico (ovvero per alleviare i sintomi senza rimuoverne la causa). In questo caso è bene evitarne l’uso cronico e inappropriato di tali farmaci, poiché il loro abuso porta allo sviluppo di un’ostruzione nasale paradossa (rinite medicamentosa). Nello specifico questi decongestionanti vasocostrittori portano nel tempo all’atrofia della mucosa nasale che allo stesso modo dell’ipertrofia, modificano il flusso aereo dell’aria inspirata portando alla sensazione di naso chiuso.

Chirurgia

Qualora il quadro clinico non dovesse risolversi con la terapia medica e quando l’ipertrofia sia tale da non poter essere corretta con i farmaci precedentemente elencati, tale patologia necessita di un trattamento chirurgico risolutivo. Ad oggi è possibile intraprendere due tipi di percorsi chirurgici:

  • Chirurgia tradizionale, con interventi di asportazione parziale dei turbinati ipertrofici (turbinectomia parziale o mucotomia).
  • Chirurgia moderna mini-invasiva, basata sull’utilizzo di laser o radiofrequenze.

Fonti e bibliografia

  • Manuale di Otorinolaringoiatria. A.Quaranta – R.Fiorella. Ed. McGraw-Hill srl.

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Bypass gastrico: intervento, effetti collaterali e rischi

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Che cos’è il bypass gastrico?

Il bypass gastrico è un intervento di chirurgia bariatrica, la branca che ha come obiettivo principale, ma non esclusivo, la perdita di peso.

Il principio alla base dell’intervento, a prescindere dalla tecnica utilizzata, è lo stesso: ridurre la dimensione dello stomaco e ridurre la lunghezza del percorso che il cibo fa nell’intestino in modo tale da:

  1. Conseguire una sensazione precoce di sazietà.
  2. Ridurre l’assorbimento di calorie.

Più nel dettaglio si interviene in genere secondo la cosiddetta ricostruzione a Y secondo Roux, che prevede la creazione di una piccola tasca a livello dello stomaco, isolata dal resto dell’organo; la quantità di alimenti che è possibile ingerire viene quindi drasticamente ridotta e limitata dal piccolo volume della tasca.

Si procede quindi al collegamento della tasca con la parte inferiore dell’intestino tenue (che prende il nome di digiuno), bypassando (cioè saltando) il duodeno, la porzione dell’intestino normalmente accoglie il cibo all’uscita dallo stomaco.

Il nome della tecnica, ricostruzione a Y, deriva dalla somiglianza della ricostruzione con la lettera, in cui i due bracci superiori sono rappresentati rispettivamente dal passaggio fisiologico stomaco-duodeno e dal bypass creato (vedi figura più in basso).

Poiché gli alimenti aggirano la parte inferiore dello stomaco e la parte superiore dell’intestino tenue (duodeno), vengono sensibilmente ridotte le calorie assorbite, mentre lo stretto passaggio creato ex-novo garantisce un transito rallentato che permette un prolungato senso di sazietà.
Esistono numerosi dati che dimostrano come la chirurgia bariatrica, ed in particolare il bypass gastrico, determinano vantaggi in termini di:

  • Riduzione della mortalità globale del 29%: in particolare la mortalità per tumore si riduce del 60% e per diabete del 90%.
  • Riduzione della morbilità cioè delle conseguenze che può causare l’obesità, in particolare una riduzione di

Definizione di obesità

La definizione di obesità si basa su un parametro che è il BMI (Body mass index cioè il rapporto tra il peso in kg e l’altezza in metri). Si distinguono le seguenti categorie di pazienti:

  • Da 25 a 29,9: sovrappeso
  • Da 30 a 34,9: obesità di I grado
  • Da 35 a 39,9: obesità di II grado
  • Da 40 a 49,9: obesità di III grado
  • Maggiore di 50: obesità di IV grado

Quando è indicato il bypass gastrico?

La chirurgia bariatrica non è la prima scelta in tutti i pazienti obesi o sovrappeso, è invece indicata solo quando falliscono tutti i tentativi non chirurgici messi in atto per perdere peso (dieta, terapia comportamentale, farmaci).

Secondo le linee guida, l’intervento chirurgico è indicato:

  • Nei pazienti obesi con un BMI maggiore di 40 nei quali nessun trattamento medico e dietetico è riuscito a determinare un calo di peso.
  • Nei pazienti con BMI compreso tra 35 e 40 con gravi patologie mediche come

Devono inoltre essere soddisfatte queste condizioni:

  • Il rischio operatorio deve essere accettabile.
  • Il paziente deve essere informato e prestare il consenso.
  • Il paziente deve mostrare motivazione a seguire una serie di indicazioni che verranno fornite per mantenere il peso nei limiti.
  • Non devono esserci patologie psichiatriche o abuso di sostanze che possano inficiare il processo di perdita di peso (o, se presenti, devono essere preventivamente trattate).

Vantaggi del bypass gastrico rispetto ad altre tecniche di chirurgia bariatrica

Il bypass gastrico presenta diversi vantaggi rispetto ad altre tecniche (bendaggio gastrico, diversione bilio-pancreatica):

  • Perdita di peso consistente e duratura: si perderà circa il 50-75% del peso corporeo nel primo anno, anche se dopo 1-2 anni la perdita tenderà a rallentare.
  • Malattie come diabete e ipercolesterolemia migliorano più rapidamente

Svantaggi del bypass gastrico

Nonostante i vantaggi siano molto importanti, diversi studi hanno dimostrato che la tecnica di bypass gastrico presenta alcuni possibili svantaggi:

  • tempi dell’intervento chirurgico e dell’ospedalizzazione più lunghi,
  • tasso di complicanze più elevato,
  • rischio di carenze nutrizionali (vitamine, ferro).

Le differenze in termini di complicanze rispetto alle altre tecniche, e principalmente in relazione al bendaggio gastrico, sono comunque molto piccole.

Mini bypass gastrico

Il mini bypass gastrico rappresenta una variante dell’intervento di bypass gastrico, caratterizzato dalla presenza di una sola connessione tra stomaco sezionato ed intestino (anziché due).

L’intervento è chirurgicamente più semplice rispetto alla tecnica tradizionale, questo consente di ottenere una riduzione dei tempi operatori e minori rischi per il paziente, tuttavia la sua definizione risulta molto recente e per questo è ancora oggetto di studio e poco diffuso.

Cenni di anatomia: stomaco e intestino

Lo stomaco è un organo cavo a forma di sacco che comunica con l’esofago a monte e con il duodeno a valle. Ha un volume di circa 0,5 litri a digiuno e di 1,5-2 L a stomaco pieno.

Riveste importanti funzioni digestive, perché quasi tutti gli enzimi necessari si attivano o vengono prodotti a livello dello stomaco.

Il duodeno si continua con l’intestino tenue, suddiviso in digiuno ed ileo. L’ileo comunica, attraverso una valvola, con l’intestino crasso che termina poi a livello del canale anale.

Semplificazione dell'anatomia dell'apparato digerente

iStock.com/Pikovit44

Preparazione all’intervento

Proprio perché si tratta di un intervento particolare, il processo che porta all’intervento sarà lungo e caratterizzato da numerose visite specialistiche per inquadrare meglio il problema e per offrire una soluzione ad hoc. Generalmente, verranno svolte visite con

  • dietologo,
  • psicologo,
  • cardiologo,
  • chirurgo
  • e ovviamente con l’anestesista.

Verranno effettuati esami del sangue diversi a seconda del tipo di intervento e delle condizioni generali del paziente. Durante la visita anestesiologica si prenderà visione dei referti degli esami del sangue e della terapia in atto al domicilio rilevante per l’intervento come terapia antiaggregante e/o anticoagulante. Di solito non sono richiesti ulteriori esami di imaging (ecografia addominale o TAC).

Nel giorno dell’intervento è necessario restare a digiuno prima di entrare in sala operatoria.

Generalmente, viene iniziata una terapia per prevenire la trombosi venosa a base di eparina che viene somministrata tramite punture sottocutanee.

Anestesia

L’intervento viene di norma eseguito in anestesia generale.

Durata

La durata dell’intervento di bypass gastrico è variabile dalle 2 alle 3 ore a seconda delle difficoltà tecniche.

Intervento chirurgico di bypass gastrico

L’intervento di bypass gastrico può essere eseguito in due diverse modalità:

  • tecnica open, cioè attraverso una incisione addominale,
  • tecnica laparoscopica, che prevede di eseguire 3 piccole incisioni sull’addome attraverso cui s’inseriscono gli strumenti necessari (tra cui una telecamera dotata di luce e due strumenti che serviranno per creare il bypass).

La prima fase consiste nel creare una piccola tasca a livello dello stomaco, riducendone così il volume fino a 30 mL.

Successivamente si procede a dividere il piccolo intestino: la parte a monte verrà anastomizzata (ricucita) più in basso, mentre la parte a valle viene abboccata alla piccola tasca gastrica attraverso una incisione a livello della parete dello stomaco.

Semplificazione dell'intervento di bypass gastrico

iStock.com/normaals

I vantaggi della tecnica laparoscopica consistono in

  • minor tempo di degenza,
  • ridotto dolore post-operatorio e quindi anche un minor ricorso a farmaci antidolorifici.,
  • miglior risultato estetico (non c’è l’evidente cicatrice addominale dell’intervento a cielo aperto).

La tecnica laparoscopica è tuttavia tecnicamente più difficile rispetto a quella tradizionale e quindi il chirurgo potrebbe optare, se inizia l’intervento in laparoscopia, per la conversione in tecnica open.

Dopo l’intervento

È importante alzarsi dal letto e muoversi il prima possibile per ridurre il rischio di complicanze come l’embolia polmonare: nel caso in cui l’incisione sia stata particolarmente ampia sarà però necessario del riposo aggiuntivo.

Durante l’intervento potrebbero essere posizionati uno o più tubi di drenaggio che servono per valutare la tenuta delle suture eventualmente praticate.

È possibile ricominciare a bere lo stesso giorno dell’intervento (generalmente non prima di 8 ore dall’operazione).

Se è presente dolore, questo verrà trattato in modo ottimale con farmaci analgesici. Nei pazienti trattati con tecnica laparoscopica potrebbe esserci anche dolore cervicale o alla spalla, a causa del fatto che viene inserita anidride carbonica nell’addome per distenderlo durante l’intervento, con la conseguenza di irritare di alcuni nervi.

Durante l’intervento sarà applicato un catetere vescicale che verrà tolto dopo 1-2 giorni.

A seguito dell’intervento di bypass gastrico è necessaria una nuova visita dietologica dove verrà discusso il regime alimentare da adottare per il mese successivo all’intervento, seguiranno poi altre visite per valutare il calo ponderale e per adeguare la dieta; verranno inoltre programmati controlli periodici con l’equipe di chirurgia bariatrica per valutare l’andamento generale, soprattutto per quanto riguarda eventuali malattie associate come diabete o ipercolesterolemia. Per evitare la comparsa della sindrome da svuotamento, caratterizzata da

  • dispepsia,
  • nausea,
  • diarrea,
  • dolore addominale,
  • sudorazione,
  • vertigini
  • e debolezza

a seguito dell’assunzione di cibo ad elevato contenuto di grassi e zuccheri raffinati (come ad esempio dolci), verrà consigliata una dieta adeguata che ne minimizzi il rischio di comparsa.

Rischi e complicanze

Le possibili complicanze intra-operatorie sono:

  • emorragia,
  • lesione di arterie e/o vene,
  • lesione di altre parti dell’intestino,
  • lesione delle vie biliari (coledoco),
  • lesione della milza,
  • errori di costruzione del bypass.

Le complicanze postoperatorie cardiache e polmonari sono quelle comuni a tutti gli interventi chirurgici, ma a queste si aggiunge la possibilità di:

  • deiscenza delle suture, condizione caratterizzata dalla mancata tenuta dei punti che si appongono tra i segmenti di intestino,
  • infezioni.

Quando chiamare il medico

SI raccomanda di rivolgersi al proprio curante, al chirurgo o in Pronto Soccorso (in base all’entità dei sintomi) in caso di:

Fonti e bibliografia

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