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Alopecia e capelli: cause, cure e rimedi

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Introduzione

Ogni giorno ciascuno di noi perde fino a 100 capelli, ma si tratta nella maggior parte dei casi di un ricambio del tutto fisiologico, compensato da un equivalente processo di ricrescita; molti uomini, e alcune donne, perdono invece i capelli man mano che invecchiano, processo che può verificarsi anche in presenza di specifiche malattie (problemi alla tiroide, diabete, lupus, …), durante terapie farmacologiche (si pensi ad esempio alla chemioterapia) e talvolta anche a causa di fattori quali stress e cattiva alimentazione.

Con il termine “alopecia” si intende la presenza di una o più aree glabre, ovvero prive di peli, in una qualsiasi area corporea, incluso il cuoio capelluto. L’alopecia non è solitamente associata ad altri sintomi ed ha una prognosi variabile in base alla causa che l’ha determinata.

Spazzola pieni di capelli residui

iStock.com/splain2me

Cause

Le cause che determinano alopecia sono molteplici, ma prima di elencarle, è necessario innanzitutto distinguere tra due tipi principali di alopecia:

  • cicatriziale: queste forme sono il risultato cicatriziale di un processo patologico che comporta la distruzione del follicolo pilifero e talvolta anche della cute circostante; nelle aree cutanee caratterizzate da alopecia cicatriziale i peli/capelli non potranno quindi più ricrescere.
  • non cicatriziale, dovute all’esito di un processo patologico che può talvolta andare incontro a risoluzione, con ricrescita parziale o completa di peli e/o capelli.

All’interno di ciascuno di questi due tipi di alopecia si distingue ulteriormente tra alopecie

  • ereditarie
  • e alopecie acquisite.

Le alopecie cicatriziali ereditarie sono condizioni fortunatamente molto rare che si trasmettono da genitore a figlio. Rientrano in questo gruppo di patologie:

  • l’aplasia cutis congenita, caratterizzata dall’assenza di epidermide e derma in una zona centrale del cuoio capelluto a causa dell’arresto dello sviluppo della cute durante la vita fetale;
  • l’incontinentia pigmenti, che si manifesta nelle bambine neonate con un’eruzione bollosa diffusa che esita in lesioni cicatriziali anche sul cuoio capelluto

Le alopecie cicatriziali acquisite, meno rare delle precedenti, si verificano a causa di un qualsiasi trauma fisico (ad esempio un’ustione da calore), chimico (ustione da caustici) o determinato da patologie infettive, autoimmuni, infiammatorie o tumorali.

  • Tra le patologie infettive, infezioni fungine come la tigna favosa ed il kerion ed infezioni virali come la varicella e l’herpes zoster possono esitare in aree cicatriziali; anche la follicolite decalvante di Quinquaud, un’infiammazione dei follicoli piliferi del cuoio capelluto con proliferazione di batteri Stafilococchi, può esitare in alopecia.
  • Tra le patologie cutanee autoimmuni, il lupus eritematoso discoide può determinare delle lesioni rilevate ed arrossate (placche eritematose) che nel 35% dei casi guariscono lasciando esiti cicatriziali; la morfea a colpo di sciabola è caratterizzata da una lesione biancastra lineare depressa rispetto alla cute circostante ed atrofica (ovvero sottile per distruzione di strati di cute sempre più profondi); aree cutanee atrofiche possono ritrovarsi anche nella sclerodermia sistemica progressiva; il pemfigoide cicatriziale di Brusting-Perry e l’epidermolisi bollosa acquisita sono malattie autoimmuni contraddistinte da lesioni bollose che, risolvendosi, possono dar luogo a esiti cicatriziali.
  • Tra le patologie infiammatorie il lichen planus pilaris, caratterizzato da papule (lesioni rilevate cutanee) secche attorno ai follicoli piliferi, e l’acne conglobata, forma particolarmente aggressiva di acne che colpisce i giovani con pelle scura, possono determinare entrambe alopecia cicatriziale;
  • I linfomi cutanei a cellule B (tumori dei linfociti che si localizzano sulla cute) sono caratterizzati da lesioni cutanee sotto forma di placche o noduli eritematosi che ulcerandosi possono esitare in cicatrici.

Le alopecie non cicatriziali ereditarie si verificano in alcune sindromi ittiosiche ereditarie (malattie caratterizzate da cute estremamente secca che appare come se fosse ricoperta da squame) o in situazioni di anomalie di struttura del capello (sindrome dei capelli impettinabili).

Le alopecie non cicatriziali acquisite sono essenzialmente di tre tipi:

  • L’alopecia androgenetica è la più comune e consiste in un diradamento progressivo dei capelli che si verifica a causa di un progressivo assottigliamento del fusto del capello; negli uomini il diradamento interessa più frequentemente la zona frontale e temporale (ovvero la zona del cuoio capelluto vicino le tempie) del cuoio capelluto; nella donna interessa la zona frontale e parietale (le parti laterali della testa). Questo tipo di alopecia è dovuta all’eccessiva attività di un enzima dal nome 5α-reduttasi di tipo II che, nel cuoio capelluto, trasforma l’ormone sessuale maschile testosterone nella sua forma più attiva, il diidrotestosterone. Quest’ultimo è responsabile dell’accelerazione della fase di crescita e quindi anche di involuzione del capello, che sotto l’effetto dell’ormone si assottiglia fino a cadere.

    Fotografia dall'alto di un uomo con alopecia androgenetica (calvizie)

    iStock.com/herkisi

  • L’alopecia areata è una caduta acuta di capelli che può avvenire in zone circoscritte del cuoio capelluto o può interessarlo diffusamente. La perdita di capelli in aree determinate del cuoio capelluto porta alla formazione di chiazze glabre tondeggianti o ovalari a margini netti e superficie liscia. Possono essere interessate anche le sopracciglia, la barba o altre sedi cutanee. Spesso associata a patologie autoimmuni (tiroidite di Hashimoto, vitiligine, gastrite atrofica), è dovuta probabilmente ad un processo autoimmune ovvero ad un’aggressione da parte di cellule del sistema immunitario (come i linfociti T) della matrice del capello, ovvero del capello alla sua origine dal follicolo pilifero: il fusto del capello aggredito è fragile ed assottigliato, “distrofico” per cui si spezza e cade. L’evento scatenante questo tipo di alopecia è solitamente un importante stress fisico (una malattia debilitante) o psicologico (una separazione, un lutto).

    Fotografia di esempio di uomo affetto da alopecia areata

    iStock.com/HeidiFrerichs

  • La tricotillomania è una forma di alopecia dovuta allo spezzamento dei capelli per trazione volontaria da parte del paziente. Si tratta di un gesto che viene eseguito in maniera ripetitiva e continua, tendenzialmente nel medesimo punto del cuoio capelluto, da parte di bambini o adolescenti che cercano, inconsciamente, di attirare l’attenzione. Questa condizione può talvolta trasformarsi in una vera e propria psicosi. Il fatto di spezzare i capelli in punti diversi (a volte vicino alla loro base, a volte nel mezzo del fusto) porta alla formazione di chiazze alopeciche di forma irregolare, non completamente glabre ma caratterizzate dalla presenza di capelli spezzati di diversi lunghezza.

Ricordiamo infine altre forme di alopecia, generalmente reversibili, dovute per esempio a:

  • stress,
  • farmaci (come nel caso della chemioterapia e della radioterapia),
  • cause ormonali (come ad esempio nel post-partum o in menopausa),
  • trattamenti aggressivi ai capelli.

Fattori di rischio

Ogni specifica condizione è associata a determinati fattori di rischio, ma generalizzando è possibile dire che:

  • può esserci una predisposizione genetica al disturbo (famigliarità),
  • il rischio di sviluppare alopecia aumenta con l’età,
  • malattie autoimmuni,
  • una perdita significativa di peso è talvolta associata ad una forma più o meno moderata, ma reversibile, di alopecia,
  • in caso di carenze alimentari (ferro, proteine) e/o malnutrizione,
  • stress.

Diagnosi

La diagnosi di alopecia, e la distinzione delle diverse forme, si basa sulla raccolta dettagliata della storia clinica del paziente:

  • quando è comparso il problema,
  • come si è manifestato,
  • quali sono le eventuali altre patologie di cui soffre o ha sofferto,

e sull’esame obiettivo, ovvero sull’analisi delle caratteristiche cliniche non solo delle chiazze glabre (localizzazione, forma, margini, evoluzione nel tempo), ma anche delle altre zone del cuoio capelluto e del corpo.

L’utilizzo del dermatoscopio manuale rappresenta un valido aiuto per osservare a maggior ingrandimento le caratteristiche dei capelli che si trovano ai margini delle chiazze o anche al loro interno (quando c’è ricrescita).

Prognosi e complicazioni

La prognosi dipende dal tipo di alopecia in questione.

  • Nelle aree di alopecia cicatriziale i capelli e i peli non possono ricrescere.
  • Nelle alopecie non cicatriziali invece le possibilità di guarigione o di arresto della patologia sono buone.

In assenza di trattamento, talvolta anche nonostante le terapie, l’alopecia androgenetica nell’uomo può progredire fino alla calvizie, condizione che invece nella donna non avviene mai.

L’alopecia areata in chiazze può

  • andare incontro a guarigione spontanea
  • oppure può evolvere in
    • alopecia totale (coinvolgimento di tutto il cuoio capelluto)
    • o universale (coinvolgimento di tutta la superficie cutanea).

La tricotillomania si associa talvolta alla tricofagia: i pazienti strappano i capelli e poi li ingeriscono, causando nei casi estremi, la formazione di tricobezoari (masse di capelli che ostruiscono l’intestino).

Cura

L’approccio terapeutico dipende dal tipo di alopecia in questione.

  • Nelle alopecie cicatriziali il trattamento è ininfluente.
  • Nell’alopecia androgenetica si possono usare trattamenti locali a base di Minodixil in soluzioni al 2% o 5% da applicare 2 volte al giorno o trattamenti sistemici (nelle donne solo se in post menopausa, negli uomini a qualsiasi età) a base di finasteride, un inibitore dell’enzima 5α-reduttasi di tipo II o terapie chirurgiche di autotrapianto.
  • Nell’alopecia areata i farmaci più utilizzati per bloccare l’(auto)aggressione della matrice del pelo sono i cortisonici (per via locale o sistemica).
  • Nelle forme gravi di tricotillomania con tricofagia ci si dovrebbe avvalere dell’aiuto di uno psicologo e/o di uno psichiatra.

Prevenzione

Non esistono purtroppo misure di prevenzione specifiche, mentre da un punto di vista generale per la salvaguardia della salute del capello si consiglia di:

  • evitare pettinature che prevedano trecce o elastici stretti in caso di capelli già indeboliti,
  • lavare ed asciugare sempre delicatamente i capelli, massaggiando e tamponando più che strofinare,
  • non eccedere in frequenza con i trattamenti aggressivi (permanente, colore, …),
  • attenersi ad una regolare igiene del capello, che tuttavia non deve essere eccessivamente frequente,
  • proteggere i capelli dai raggi UV,
  • smettere di fumare (fonte).

Fonti e bibliografia

  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.

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Globuli rossi alti, bassi e valori normali

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Cosa sono i globuli rossi?

I globuli rossi, anche detti eritrociti o emazie, sono cellule presenti nel sangue, la cui funzione principale è quella di trasportare l’ossigeno dai vasi ai tessuti.

Hanno una forma particolare, a disco biconcavo, dalle dimensioni di circa otto micrometri di diametro e presentano una parete flessibile, in grado di adattarsi al passaggio attraverso la parete dei vasi sanguigni, anche quelli più piccoli. I globuli rossi maturi inoltre sono più agevolati nei movimenti anche attraverso i vasi più piccoli, poiché privi di nucleo e delle altre strutture citoplasmatiche.

Forma dei globuli rossi

iStock.com/ClaudioVentrella

Contengono principalmente acqua, potassio ed emoglobina; quest’ultima in particolare è una struttura proteica costituita da quattro sub-unità, due alfa e due beta, ripiegate su se stesse, al centro delle quali è presente un gruppo Eme contenente un atomo di ferro. Ogni sub-unità è in grado di legare un atomo di ossigeno, per cui una molecola di emoglobina può contenere fino a quattro atomi di ossigeno in totale.

Mediamente si contano circa cinque milioni di eritrociti per ogni microlitro di sangue.

Produzione dei globuli rossi

I globuli rossi nell’adulto sono formati nel midollo osseo dello scheletro assiale (testa, tronco ed estremità prossimali agli arti);

Ematopoiesi e produzione dei globuli rossi

iStock.com/newannyart

mentre durante lo sviluppo fetale la loro formazione si svolge dapprima nel sacco vitellino, successivamente nel fegato e nella milza e infine nelle ossa.

Il processo di produzione dei globuli rossi prende il nome di eritropoiesi, e ha una durata di circa quattro o cinque giorni. Le prime cellule prodotte sono i proeritroblasti, che attraverso una serie di divisioni cellulari maturano in eritroblasti, reticolociti e infine eritrociti. Durante questo processo la cellula progenitrice perde il nucleo, l’apparato di Golgi e il nucleolo. L’eritropoiesi è un processo altamente selettivo, regolato dall’ormone eritropoietina, che inibisce la maturazione delle cellule che non hanno i requisiti idonei per lo sviluppo e stimola l’accrescimento dei progenitori adeguati. Una volta formatosi l’eritrocita maturo, questo ha una vita media di circa centoventi giorni e durante la quale coprono una distanza di 300- 500 Km, dopo i quali viene degradato dalle cellule del sistema reticolo-endoteliale, ovvero i monociti e i macrofagi a livello di milza e fegato. In seguito all’eritrocateresi vengono riutilizzate le componenti proteiche dell’eritrocita per la sintesi di nuove proteine, mentre il gruppo eme viene scomposto per idrolisi o scissione ossidativa fino a ricavarne la bilirubina.

Schema del ciclo di vita dei globuli rossi

iStock.com/normaals

Gruppi sanguigni

Sulla membrana possono essere esposte delle proteine antigeniche che determinano il gruppo sanguigno, ed eventualmente anche il fattore Rh. Le proteine anitgeniche possono essere A, B, entrambe o nessuna e determinano il gruppo sanguigno:

  • Gruppo 0: nessun antigene
  • Gruppo A: antigene A
  • Gruppo B: antigene B
  • Gruppo AB: entrambi gli antigeni
Schema dei gruppi sanguigni e relativi anticorpi

iStock.com/ttsz

L’individuo inoltre viene definito Rh positivo se è esposto il fattore Rh, altrimenti è Rh negativo.

A cosa servono?

I globuli rossi hanno diverse funzioni vitali per l’organismo, ma la funzione principale consiste nel trasportare l’ossigeno dai polmoni ai tessuti; gli eritrociti riescono a captare fino a quattro atomi di ossigeno a livello dei capillari polmonari e viaggiano nel circolo sanguigno per rifornire le cellule e i tessuti di tutto l’organismo. Inoltre riescono anche a legare l’anidride carbonica, che deve essere trasportata al contrario dai tessuti verso il polmone, dove viene poi eliminata tramite l’espirazione.

Schema della respirazione e del trasporto di ossigeno

iStock.com/ttsz

Il legame dell’ossigeno all’eritrocita si verifica a livello dell’emoglobina, per cui quando questa presenta tutti e quattro i siti di legame per l’ossigeno occupati, viene definita emoglobina satura. Il legame viene influenzato da diversi fattori, come la temperatura, il pH e la concentrazione di anidride carbonica. Inoltre nel feto l’emoglobina presenta una struttura differente, con maggiore affinità per l’ossigeno rispetto a quella dell’adulto..

Molecole di emoglobina nei globuli rossi

iStock.com/ttsz

Valori normali

Essendo un importante indicatore del nostro stato di salute, il numero degli eritrociti deve mantenersi stabile e rientrare entro determinati valori. A titolo indicativo possono essere presi come riferimento i seguenti intervalli:

  • 4.7 – 6.1 x106 per microlitro negli uomini;
  • 4.2 – 5.4 x106 per microlitro nelle donne.

Poiché gli intervalli di riferimento possono variare da un laboratorio all’altro, suggeriamo di fare fede al range presente sul referto del proprio esame diagnostico.

Globuli rossi alti

Si definiscono eritrocitosi quelle condizioni caratterizzate da un’aumentata produzione di globuli rossi.

In questo caso dobbiamo distinguere :

  • Eritrocitosi o policitemia primitiva: aumento dei globuli rossi senza un motivo apparente.
  • Policitemia secondaria: aumento di

I globuli rossi possono aumentare nel sangue quando si ha una diminuzione della componente plasmatica, per cui lo stesso numero di elementi corpuscolati si riscontra in una concentrazione di soluzione inferiore. Si verifica ad esempio in caso di

In altri casi invece la quantità di plasma è nella norma (non c’è disidratazione), mentre i globuli rossi sono in elevata concentrazione; si può verificare in caso di eritropoiesi intensa, ad esempio se aumenta la quantità di eritropoietina, in caso di patologie neoplastiche o altre condizioni (come la policitemia vera).

Si riscontra un aumento dei globuli rossi circolanti anche nelle condizioni in cui questo rappresenta un tentativo dell’organismo di compensare altre disfunzioni, ad esempio:

  • Malattie polmonari in cui il paziente non è in grado di respirare adeguatamente ed assorbire una quantità sufficiente di ossigeno (l’organismo tenta di compensare producendo più globuli rossi),
  • Malattie cardiache congenite: il cuore non è in grado di pompare efficacemente il sangue e, per sopperire alla riduzione della quantità di ossigeno che raggiunge i tessuti, aumenta la produzione di eritrociti.

L’aumento della concentrazione può anche essere legato ad alterazioni genetiche o all’uso di sostanze dopanti come l’epo.

Globuli rossi bassi

Le cause che possono determinare una concentrazione di globuli rossi inferiore alla norma possono essere racchiuse in due macro-categorie:

  • eccessiva distruzione dei globuli rossi,
  • carente produzione di globuli rossi da parte del midollo osseo.

Cause legate ad un’eccessiva distruzione degli eritrociti

Se il numero dei globuli rossi è basso, potrebbe dipendere dal fatto che queste cellule vengono distrutte dal nostro organismo, oppure che vi è un’eccessiva perdita di sangue (emorragia). Le cause più frequenti, in questo caso, sono le seguenti:

  • Emorragia (perdita di sangue in quantità considerevole). L’emorragia può verificarsi in seguito ad una ferita, ma anche in caso di flusso mestruale particolarmente abbondante. Più pericolose sono le emorragie occulte, che generalmente interessano il tratto gastrointestinale e che possono essere causate a loro volta da tumori o polipi.
  • Anemia emolitica. L’anemia emolitica è una patologia che provoca un’eccessiva distruzione degli eritrociti, che richiede cure specifiche.
Anemia

iStock.com/solar22

Cause legate ad una riduzione della produzione degli eritrociti

Se le analisi del sangue evidenziano globuli rossi bassi, le cause potrebbero essere legate a disfunzioni o patologie che interessano il midollo osseo. Questo naturalmente determina una minor produzione degli eritrociti, che quindi sono presenti in quantità inferiori nel sangue.

Tra le cause più comuni ricordiamo:

  • anemia mediterranea,
  • carenze nutrizionali: una carenza di vitamina B9 (acido folico) e vitamina B12 può portare ad una carenza di ferro e con il tempo anche dei globuli rossi. Le carenze nutrizionali di ferro possono dipendere anche da altri fattori: le donne incinte ad esempio possono andare incontro ad una carenza di questo nutriente e devono spesso integrarlo nell’organismo;
  • anemia falciforme, una condizione in cui i globuli rossi assumono forma di mezzaluna (che causa maggiori difficoltà di spostamento nei vasi più piccoli) e vita media ridotta (10-20 giorni);
  • terapie come la chemioterapia o la radioterapia,
  • esposizione a radiazioni ionizzanti,
  • leucemia.

La valutazione diagnostica del volume corpuscolare medio (MCV) può essere utile a fare chiarezza nella diagnosi differenziale tra carenza di ferro e talassemia:

  • un rapporto MCV/RBC inferiore a 13 depone per talassemia,
  • un rapporto superiore a 13 suggerisce una possibile carenza di ferro.

Anemia sideropenica

La causa più frequente nella pratica clinica di un numero insufficiente di globuli rossi è probabilmente l’anemia sideropenica, ossia

  • anemia: riduzione della concentrazione di emoglobina,
  • sideropenica: dovuta alla carenza di ferro.

Questa condizione può essere priva di sintomi, soprattutto quando sopraggiunge in modo graduale senza diventare mai eccessivamente severa (dando quindi tempo e modo all’organismo di instaurare meccanismi di compensazione), oppure manifestarsi con la comparsa di:

e, nei casi più gravi, anche

Se non è presente una quantità sufficiente di ferro nell’organismo, non sarà possibile produrre la quantità richiesta di globuli rossi, e la causa generalmente va cercata nelle seguenti possibilità:

Globuli rossi bassi, cosa fare? Quando preoccuparsi?

Il riscontro di valori insufficienti di eritrociti è piuttosto comune nella pratica clinica e solo raramente è indicativo di patologie gravi, ciononostante è necessario sempre rivolgersi al medico per una corretta diagnosi differenziale (tra le possibili cause viste in precedenza) e le relative indicazioni su come porre rimedio.

Altri fattori

Esistono alcuni fattori in grado di influenzare in modo anche significativo la quantità dei globuli rossi circolanti, tra i più importanti ricordiamo:

  • In caso di gravidanza il volume del plasma aumenta, quindi diminuisce la concentrazione di eritrociti perché dispersi in una quantità superiore di sangue.
  • Benché rara, anche un’eccessiva idratazione può condurre allo stesso risultato.
  • Vivere ad alta quota conduce ad valori più alti, perché l’organismo reagisce alla diminuzione dell’ossigeno aumentando la produzione di eritrociti.
  • Per lo stesso principio l’abitudine al fumo è causa di aumento dei valori.

Preparazione

L’esame del sangue per la conta dei globuli rossi prevede un normale prelievo venoso; non richiede alcuna preparazione specifica, né di essere a digiuno, ma viene spesso prescritto in contemporanea ad altri parametri che invece potrebbero necessitare di essere valutati dopo un digiuno di almeno 8 ore.

Esami di laboratorio

La quantità di globuli rossi presente nel sangue può essere facilmente rilevata sul campione ematico attraverso diversi test.

Emocromo o emocromocitometrico

Viene eseguito un prelievo di sangue venoso, conservato in una provetta con anticoagulante e analizzato da un’apposita macchina contaglobuli, che rileva la quantità di

  • globuli rossi,
  • globuli bianchi,
  • piastrine,
  • emoglobina
  • e basofili

presenti in un microlitro di sangue.

Il valore normale è nella donna tra i 4.2 – 5.4 x106 per microlitro, mentre tra i 4.7 – 6.1 x106 per microlitro negli uomini.

Ematocrito

L’analisi dell’ematocrito serve per valutare la percentuale di globuli rossi presente nel campione di sangue.

Dopo aver sottoposto la provetta a centrifugazione, si avrà la separazione del plasma, più della metà del campione e della componente cellulare. In particolare, sul fondo si depositeranno i globuli rossi, dal colore più tendente al rosso, mentre tra le due porzioni va ad interporsi una lente molto sottile, composta dai globuli bianchi e le piastrine, solitamente in misura inferiore all’1%.

La colonna di sangue centrifugato viene quindi misurata in base all’altezza percentuale, per cui normalmente si avrà circa il 55% di plasma, mentre la parte corpuscolata del sangue, cioè i globuli e le piastrine, dovrebbero mantenersi intorno a valori tra 38 e 52% nell’uomo, mentre nella donna lievemente inferiori, tra 36 e 46%.

L’aumento del valore dell’ematocrito può indicare:

  • disidratazione,
  • ustioni,
  • policitemia,
  • poliglobulia,
  • vomito,
  • diarrea,
  • permanenza ad altitudine elevata,
  • insufficienza renale.

Il rischio dell’aumento dei globuli rossi, principalmente dell’ematocrito è che il sangue diventa più viscoso, e quindi la circolazione è ostacolata per l’elevata pressione. Possono quindi aumentare i rischi che si sviluppino dei trombi nei vasi, ictus o infarto.

Emoglobina

il conteggio dell’emoglobina prevede la misurazione in grammi per decilitro di sangue.

Nell’uomo normalmente dovrebbe essere tra i tredici e i diciotto, mentre nella donna tra dodici e sedici.

L’aumento del valore dell’emoglobina può essere indice di:

  • enfisema,
  • disidratazione,
  • diarrea,
  • poliglobulia,
  • policitemia,
  • ustioni.

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Pemfigo volgare: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

Il pemfigo fa parte delle malattie cutanee bollose di tipo autoimmune ed è, tra queste malattie, la più diffusa e la più grave.

Si manifesta a qualsiasi età, ma specialmente nelle tra il 4° e il 5° decennio di vita.

Manifestazioni tipiche sono delle bolle flaccide, che si rompono facilmente formando ampie erosioni a livello cutaneo e mucoso.

La prognosi è buona una volta impostata la terapia corretta, che si fonda sull’uso di farmaci cortisonici per via orale. Prima dell’avvento della corticoterapia la malattia era addirittura mortale.

Causa

Il pemfigo è una malattia autoimmune, ovvero caratterizzata dalla presenza di anticorpi, o meglio autoanticorpi, diretti contro strutture della cute sana.

In particolare nel pemfigo volgare sono stati identificati degli autoanticorpi di classe IgG (talvolta IgA) diretti contro la desmogleina 3 e la desmogleina 1, proteine costituenti i desmosomi, cioè le strutture di adesione delle cellule, i cheratinociti, che costituiscono lo strato più superficiale della cute (epidermide) e delle cellule che costituiscono lo strato più superficiale delle mucose.

La perdita di coesione tra i cheratinociti porta alla formazione di ampie cavità scavate nella cute o nelle mucose, ripiene di cellule atipiche (definite cellule acantolitiche) che corrispondono clinicamente alla presenza di bolle ed erosioni cutanee/mucose.

Fattori di rischio

Non sono noti fattori di rischio particolari, se non la predisposizione genetica. La patologia sembrerebbe infatti essere più frequenti tra le popolazioni ebree.

Non si rilevano differenza di comparsa tra i due sessi.

Trasmissione e contagiosità

Il pemfigo non è contagioso né trasmissibile.

Sintomi

L’esordio del pemfigo è subdolo, iniziando con erosioni dolorose della mucosa orale (gengive, palato, superficie interna delle guance) che spesso vengono misconosciute o scambiate per semplici afte. Talvolta la malattia esordisce con erosioni della mucosa congiuntivale o genitale.

La comparsa delle bolle sulla cute si verifica a distanza di settimane o mesi dall’esordio sulle mucose. Le bolle, poco pruriginose, sono a contenuto limpido, compaiono su cute non infiammata (bolle aflegmasiche) e sono tipicamente flaccide, ovvero fragili ed in grado di rompersi facilmente; lasciano erosioni che possono interessare ampie regioni cutanee.

Le lesioni interessano specialmente le aree cutanee sottoposte a pressione:

  • ascelle,
  • inguine,
  • regione anogenitale,
  • regione periombelicale.

Lo stato generale è compromesso, in altre parole il paziente ne risulta provato e debilitato.

Diagnosi

La diagnosi si basa innanzitutto sull’osservazione clinica: nei casi di infiammazione persistente della mucosa orale (stomatite) il pemfigo andrebbe sempre sospettato. Caratteristico della malattia è il segno di Nikolski:

la pressione e lo stiramento con il polpastrello sulla cute sana ne determina facilmente lo scollamento.

Indagini specifiche che confermano la diagnosi clinica sono:

  • immunofluorescenza indiretta, ovvero la ricerca nel sangue del paziente di anticorpi anti-cute, che vengono documentati nell’80% dei casi di pemfigo; questa metodica consiste nel mettere in contatto il siero (parte liquida del sangue) del paziente con sospetto pemfigo (quindi un siero che si presume contenga gli anticorpi anti strutture epidermiche) con un substrato che contiene i possibili antigeni bersaglio degli autoanticorpi. Il substrato è quindi costituito da sezioni di cute umana normale oppure sezioni di esofago di scimmia o di vescica di ratto. Se il siero in esame contiene gli anticorpi (o immunoglobuline) diretti contro le proteine cutanee, questi si vanno a fissare al substrato. La successiva incubazione con anticorpi fluorescenti anti-immunoglobuline umane permette di localizzare questi complessi antigeni-(auto)anticorpi;
  • immunofluorescenza diretta che si esegue invece su un campione di cute sana o perilesionale, ovvero prelevata vicino la bolla, dimostra i depositi di anticorpi IgG e proteine del complemento (C3) sulla superficie dei cheratinociti con un tipico aspetto a rete. La differenza di questa metodica rispetto all’immunofluorescenza indiretta è che è la stessa cute prelevata da una lesione di un paziente con sospetto pemfigo ad essere incubata con anticorpi anti-immunoglobuline per la ricerca degli autoanticorpi;
  • metodica del Western blot, in grado di riscontrare che questi anticorpi sono diretti contro la desmogleina 3 o la desmogleina 1;
  • biopsia (ovvero il prelievo di un campione di cute lesionale) e l’esame istologico rilevano la presenza di una cavità scavata subito al di sopra dello strato basale dell’epidermide, ripiena di cellule epiteliali atipiche ed un infiltrato infiammatorio modesto, composto da linfociti, nel derma.

Gravidanza

Il pemfigo può causare complicazioni durante la gravidanza e causare seri danni al feto.

Gli autori di una recente revisione sulla gestione del pemfigo durante la gravidanza sostengono che programmare il concepimento quando la malattia è in remissione e/o quando la terapia sistemica è minimizzata il più possibile riduce significativamente il rischio che la malattia si riacutizzi.

I trattamenti con farmaci immunosoppressori quali corticosteroidi, azatioprina, micofenolato mefetile, metotrexate che si usano a dosaggio pieno nelle fasi acute della malattia possono causare anomalie nella crescita del feto, tuttavia, è documentato che dosaggi bassi di corticosteroidi per bocca e i corticosteroidi in crema possono essere usati anche durante la gestazione senza grossi rischi.

Prognosi e complicazioni

Il pemfigo è una malattia grave: prima dell’introduzione della corticoterapia il 70% dei pazienti soccombeva alla malattia in sé, alle sue conseguenze metaboliche, alle sovrainfezioni o alle complicazioni dei trattamenti. Con il cortisone e gli immunosoppressori la mortalità si è considerevolmente ridotta.

Sono descritti dei casi di pemfigo paraneoplastico, ovvero associato a neoplasie.

Cura

Il trattamento d’attacco consiste nell’uso di farmaci cortisonici per bocca o per via endovenosa. Il farmaco più usato è il prednisone, che s’intraprende a dosaggio pieno (1 mg per kg corporeo al giorno); una volta raggiunta la remissione clinica, il dosaggio viene ridotto gradualmente. Nel mantenimento della remissione, per economizzare sui corticosteroidi che possono avere numerosi effetti collaterali a lungo termine, si ricorre ad altri immunosoppressori, inizialmente associati ai cortisonici:

  • azatioprina,
  • ciclofosfamide,
  • methotrexate,
  • micofenolato mofetile.

Il trattamento topico è fondamentale per il benessere del paziente e mirato soprattutto ad evitare le sovrainfezioni. Risulta utile ad esempio la crema a base di sulfadiazina argentica da applicare sulle lesioni o l’aggiunta nell’acqua del bagno di agenti antibatterici.

Prevenzione

Non esistono misure per prevenire l’insorgenza della malattia, ma si possono invece prevenire le riacutizzazioni avendo l’accortezza di non interrompere bruscamente l’assunzione farmacologica, scalando sempre gradualmente il dosaggio e seguendo con scrupolo i consigli dello specialista.

Fonti e bibliografia

  • Tavakolpour S, Mirsafaei H, Delshad S. Management of pemphigus disease in pregnancy. Am J Reprod Immunol. 2017;77. doi: 10.1111/aji.12601.
  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.

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Noduli al seno: cause, sintomi e quando preoccuparsi

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Introduzione

La mammella, anche definita “ghiandola mammaria”, è un organo complesso deputato nella donna principalmente alla produzione di latte. Per la sua particolare conformazione appare come un rilievo cutaneo e simmetrico situato al di sopra delle coste della parete toracica, che poggia su due strutture muscolari, il muscolo grande pettorale e il muscolo dentato anteriore.

Lo sviluppo delle mammelle femminili raggiunge il suo massimo durante la pubertà quando, sotto l’influenza degli estrogeni, la componente adiposa e ghiandolare subiscono parallelamente una notevole crescita, mentre con il progredire dell’età si ha un calo di volume dell’organo, per riduzione della sua componente ghiandolare ed aumento della sola quota di tessuto adiposo.

I noduli al seno sono masse di dimensioni e consistenza variabili che si sviluppano nella mammella; la maggior parte sono innocui, ma alcuni possono essere indicativi di malattie più serie.

Da un punto di vista medico consistono in ispessimenti o protuberanze che al tatto si presentano diverse dal tessuto mammario circostante; possono essere un reperto indicativo di numerose patologie che interessano la mammella.

Vengono suddivisi in:

  • Noduli benigni o tumori maligni, in base alla natura istologica e all’evoluzione clinica di malattia;
  • Monolaterali o bilaterali, a seconda del fatto che interessino solo una o entrambe le ghiandole mammarie.

La loro presenza può inoltre essere accompagnata da:

  • dolore,
  • cute arrossata o retratta,
  • perdite ematiche dal capezzolo.

I noduli sono generalmente riscontrabili attraverso l’autopalpazione della mammella, ma eventuali ulteriori accertamenti medici (agoaspirato) e/o diagnostici (mammografia, ecografia) sono spesso indispensabili per chiarirne la natura al fine d’impostare un’adeguata strategia di trattamento quando necessario.

Nodulo al seno visto a seguito di mammografia

iStock.com/imv

Cenni di anatomia

La mammella è un organo pari e simmetrico, posto nella regione anteriore del torace, ai lati della linea mediana.

È rivestita da cute ed ha una struttura ghiandolare di consistenza nodulare; più nel dettaglio, il tessuto mammario risulta essere costituito da:

  • una componente ghiandolare, formata da 15 o 20 lobi, i quali sboccano nel capezzolo, attraverso un dotto galattoforo;
  • una componente adiposa, in cui risultano immerse le strutture ghiandolari;
  • una componente fibrosa, con funzione di sostegno.

Presso l’apice della mammella si trova il capezzolo, una sporgenza di forma conica, che consente l’eventuale fuoriuscita di latte durante l’allattamento materno.

La mammella femminile è sottoposta ad una continua trasformazione della sua struttura nodulare:

  • ogni mese, in rapporto al ciclo ormonale estro-progestinico,
  • nell’arco degli anni, in virtù della fecondità e della maternità, risultando essere più spessa durante la gravidanza e a seguito del parto;

si presenta più turgida nel periodo mestruale e costituita prevalentemente da tessuto adiposo durante l’invecchiamento.

Cosa sono i noduli al seno?

I noduli al seno consistono in un ispessimento o in una protuberanza che al tatto si presenta diversa dal tessuto mammario circostante e, nonostante siano relativamente comuni e spesso di natura benigna, possono talvolta essere un reperto indicativo di numerose patologie che interessano la mammella.

Nella maggior parte dei casi vengono scoperti in maniera casuale durante un’autopalpazione del seno, oppure attraverso un esame obiettivo medico di routine, ma quasi sempre è necessario svolgere ulteriori esami per poter differenziare noduli benigni da eventuali tumori maligni.

Noduli benigni e noduli maligni: sintomi e caratteristiche

I noduli benigni, si distinguono già al semplice esame obiettivo, per caratteristiche quali:

  • contorni netti, mobili,
  • forma tondeggiante od ovoidale,
  • dimensione e consistenza (solidi o molli) variabile in rapporto al momento della scoperta .

Le cause più comunemente implicate nella formazione di questi noduli sono:

  • fibroadenomi: si presentano generalmente nelle donne in età fertile e solo in alcuni casi possono presentare un eventuale rischio di trasformazione maligna. Appaiono come:
    • noduli lisci,
    • di forma arrotondata,
    • mobili,
    • non dolorosi.
  • alterazioni fibrocistiche: sono generalmente correlate alle oscillazioni mensili dei livelli ormonali femminili, estrogeni e progesterone, che stimolano il tessuto mammario. Non aumentano il rischio di tumore al seno, ma possono provocare:
    • dolore,
    • cisti a contenuto liquido, o a costituzione adiposa,
    • formazione di noduli singoli, o che interessano le mammelle bilateralmente.

I noduli maligni hanno caratteristiche, per la maggior parte, opposte ai noduli benigni:

  • I contorni non sono generalmente netti, poiché questi noduli infiltrano la ghiandola circostante.
  • Non sono mobili, ad eccezione di persone molto anziane con notevole prevalenza di tessuto adiposo in luogo del tessuto ghiandolare.
  • Determinano quasi sempre una retrazione della pelle, con una variabile modificazione della forma della mammella stessa.

Questi noduli potrebbero essere la spia di un eventuale tumore al seno e vengono spesso analizzati attraverso l’esecuzione di un agoaspirato, a cui potrà seguire una biopsia per porre diagnosi di certezza e confermare la natura maligna della lesione.

Altre cause

Talvolta i noduli possono avere origine da condizioni patologiche che tuttavia non determinano un aumentato rischio di cancro della mammella, quali:

  • Infezioni mammarie, fra cui raccolte di pus e ascessi.
  • Galattocele: ostruzione di ghiandola mammaria, solitamente a distanza di circa 6 mesi dall’interruzione dell’allattamento.
  • Lesioni, con conseguente formazione di tessuto cicatriziale.
  • Mastite: infiammazione della ghiandola mammaria, spesso correlata all’allattamento.
  • Ectasia duttale: dilatazione dei dotti galattofori nella regione sotto-areolare, frequente soprattutto in premenopausa.

Quando preoccuparsi?

È importante rivolgersi il prima possibile ad un medico nel caso siano presenti, all’autopalpazione del seno, questi sintomi o una di queste caratteristiche:

  • nodulo attaccato alla cute o alla parete toracica, non mobile,
  • nodulo di consistenza irregolare,
  • nodulo duro,
  • cute a buccia d’arancia accanto al nodulo,
  • linfonodi delle ascelle aumentati di volume, aderenti ai piani sottostanti,
  • perdita ematica dal capezzolo,
  • cute spessa o arrossata sul seno.

Diagnosi

Il medico, dopo accurata visita del seno, potrà avvalersi dei seguenti esami strumentali:

  • Ecografia: permette di distinguere in prima istanza i noduli solidi dalle cisti, che raramente sono maligne. Queste lesioni possono essere caratterizzate attraverso un esame condotto con agoaspirato, che consente di valutare il contenuto della lesione cistica e di evidenziare l’eventuale presenza di cellule tumorali.
  • Mammografia: viene utilizzata nei programmi di screening per la diagnosi precoce di cancro al seno e permette di distinguere la natura dei noduli solidi.

A questi esami, in caso di sospetta malignità, può seguire una biopsia che consentirà di campionare il tessuto del nodulo ed esaminarlo al microscopio per porre diagnosi di certezza.

Cosa fare?

Se il nodulo mammario non è canceroso il ginecologo/senologo deciderà se sia necessario un monitoraggio a breve/medio termine attraverso la ripetizione di uno o più esami di imaging, per rilevare eventuali cambiamenti.

Eventuali strategie terapeutiche dipendono invece dalla causa dei noduli e dai sintomi riferiti dalla paziente.

  • Sport, analgesici (paracetamolo) o antinfiammatori (FANS), insieme all’utilizzo di reggiseni morbidi e confortevoli, possono ridurre l’intensità dei sintomi nella paziente con cambiamenti fibrocistici della mammella.
  • Nel caso di cisti o fibroadenomi può esserne consigliata la rimozione chirurgica.
  • Nei casi gravi di cancro alla mammella il trattamento può variare ed avvalersi a seconda dei casi di

Fonti e bibliografia

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Psoriasi guttata: cause, sintomi, evoluzione e cura

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Introduzione

La psoriasi guttata è una forma di psoriasi caratterizzata da lesioni arrossate (eritematose) e desquamanti di piccole dimensioni (“a goccia”), talvolta puntiformi, diffuse su tutto l’ambito cutaneo ma specialmente sul tronco.

Circa il 30% dei casi totali di psoriasi si presenta in forma guttata.

Sono interessati entrambi i sessi, solitamente in età infantile e adolescenziale.

La prognosi è buona perché la malattia tende a risolversi in seguito al trattamento dell’infezione sottostante che la scatena, tipicamente un’infezione streptococcica, è tuttavia possibile l’evoluzione verso una psoriasi volgare a placche.

Schiena colpita da psoriasi guttata

By BobjgalindoOwn work, CC BY-SA 4.0, Link

Cause

La psoriasi non ha un’unica causa, ma piuttosto riconosce un’eziologia multifattoriale a cui concorrono fattori di predisposizione genetici e ambientali.

Tra i fattori genetici è stato dimostrato che tra il 50 e l’80% dei pazienti psoriasici di etnia caucasica è portatore del gene di suscettibilità Cw6, che rappresenta quindi il principale fattore di rischio per la malattia.

I fattori ambientali scatenanti sono numerosi:

  • i traumi fisici (che inducono il fenomeno dell’isomorfismo reattivo o fenomeno di Koebner, ovvero la comparsa di una lesione psoriasica nella sede del trauma dopo 1-2 settimane),
  • gli eventi stressanti dal punto di vista fisico (una malattia debilitante) o psicologico,
  • le abitudini voluttuarie come il fumo di sigaretta e l’assunzione di alcolici,
  • numerosi farmaci, tra cui beta-bloccanti, antimalarici, antiinfiammatori non steroidei (FANS), progesterone.

Nelle donne, inoltre, alcuni fattori endocrinologici svolgerebbero un ruolo aggravante: la malattia tende a riacutizzarsi nel periodo pre-mestruale e durante l’assunzione di estrogeni; sempre nel sesso femminile sono stati infine riscontrati picchi di incidenza nella pubertà ed in menopausa.

Nelle varie forme di psoriasi ed in quella guttata in particolare, alcuni episodi infettivi, specialmente infezioni batteriche da Streptococco beta emolitico di gruppo A a livello orofaringeo e perianale ed infezioni delle vie respiratorie superiori possono precedere di 1-3 settimane l’eruzione cutanea, rappresentandone il fattore scatenante.

Sono stati descritti dei casi di psoriasi guttata in seguito a terapia con farmaci biologici inibitori del TNF-alpha.

Sintomi

La psoriasi guttata è una forma di psoriasi eruttiva, ovvero ad esordio improvviso e con esteso coinvolgimento cutaneo.

Gli elementi caratteristici sono lesioni cutanee “a goccia”, ovvero

  • macule (lesioni piane) o papule (lesioni cutanee rilevate)
  • eritematose (arrossate)
  • di piccole dimensioni (da 2 mm a 1 cm) o puntiformi,
  • ricoperte da una squama e localizzate prevalentemente al tronco.

La confluenza di multiple lesioni puntiformi può determinare la formazione di lesioni di forma anulare o serpiginosa. Le lesioni sono pruriginose.

In questa forma di psoriasi non c’è solitamente coinvolgimento ungueale.

Diagnosi

L’esame clinico è sufficiente da solo a porre la diagnosi, tuttavia è utile indagare la presenza di sintomi/segni indicativi di una pregressa infezione che possa aver scatenato la psoriasi guttata (mal di gola e/o febbre nelle settimane precedenti l’eruzione, eritema faringeo) per impostare la terapia corretta.

Il dosaggio del titolo anti-streptolisinico (TASL) su sangue e/o un tampone faringeo possono documentare l’infezione streptococcica e confermare la diagnosi di psoriasi guttata.

La condizione deve essere differenziata da altre eruzioni cutanee diffuse con cui condivide alcune caratteristiche cliniche:

L’esame obbiettivo, la storia clinica e nei casi dubbi anche le indagini sierologiche e l’esame micologico (microscopico e colturale) sono d’aiuto nel definire la diagnosi.

Prognosi e complicazioni

La prognosi della psoriasi guttata è buona, anche se i test sulla qualità di vita dei pazienti psoriasici dimostrano il profondo impatto della malattia sulla vita personale e sociale dei pazienti.

Circa il 50% dei pazienti svilupperà in seguito la psoriasi volgare (a placche).

Cura

Nei casi lievi il trattamento con cortisonici (anche detti steroidi) topici è la prima scelta. Questi farmaci sono disponibili in varie formulazioni: unguenti, creme, lozioni, gel, spray, schiume e shampoo.

I corticosteroidi sono tuttavia controindicati in caso di infezioni batteriche, virali, micotiche, atrofia cutanea, gravidanza e allattamento; altri trattamenti topici includono gli analoghi della vitamina D (calcipotriolo) e l’acido salicilico per rimuovere l’ispessimento.

Per le forme di psoriasi moderate-gravi si sceglie invece come prima opzione la fototerapia, un approccio che consiste nell’esposizione a radiazioni ultraviolette con specifiche lunghezze d’onda all’interno di apposite cabine ad uso ospedaliero o in ambiente specialistico. Per le forme generalizzate di psoriasi guttata la fototerapia con UVB a banda larga è la terapia più indicata (mentre la fototerapia con UVB a banda stretta si usa per la psoriasi volgare). Per forme particolarmente estese, si può utilizzare anche la P-UVA terapia ovvero la fototerapia con radiazioni di tipo UVA, preceduta dall’applicazione di topici o dall’assunzione per bocca degli psoraleni, sostanze che aumentano la sensibilità della cute alle radiazioni.

Infine, in estate, la luce solare naturale (non senza l’applicazione di una fotoprotezione adeguata al tipo di pelle) ed i bagni nel mare costituiscono la terapia migliore (eliobalneoterapia). Infatti le soluzioni saline concentrate aiutano a rimuovere le squame e a ridurre l’infiammazione cutanea.

Prevenzione

Non esistono misure di prevenzione efficaci, tuttavia, le persone geneticamente predisposte alla psoriasi dovrebbero evitare di esporsi ai fattori di rischio ambientali che possano riacutizzare la patologia:

  • fumo di sigaretta,
  • assunzione di alcolici,
  • medicinali a rischio.

Fonti e bibliografia

  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Braun-Falco O., Plewing G., Wolff H.H., Burgdorf W.H.C. Dermatologia. Edizione italiana a cura di Carlo Gelmetti. Sprienger – Verlag Italia 2002.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.
  • Saleh D, Tanner LS. Psoriasis, Guttate. StatPearls. StatPearls Publishing; 2019.
    2018 Oct 27.

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Linfociti alti, bassi e valori normali

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Cosa sono i linfociti?

Il sangue circolante contiene da 4000 a 11000 globuli bianchi o leucociti per microlitro; da un punto di vista morfologico e funzionale si distinguono tre diverse popolazioni di globuli bianchi:

  • granulociti,
  • linfociti
  • e monociti.

I linfociti rappresentano la seconda popolazione, per numero, dei leucociti circolanti, anche se costituiscono una minuscola frazione (< 5%) del pool linfocitario totale. La maggior parte di queste cellule si trova nei linfonodi, nella milza e nelle mucose delle vie respiratorie e del canale digerente, mentre sono distribuiti in minor numero nel midollo osseo, nel fegato, nella cute e nei tessuti colpiti da infiammazione cronica.

Presentano delle dimensioni di 7-12 µm, con un nucleo rotondeggiante, un citoplasma scarso e pochi granuli.

Nel sistema immunitario i linfociti hanno il compito di reagire in modo specifico nei confronti di qualsiasi agente estraneo, o antigene, determinando in questo modo la risposta immunitaria.

Quest’ultima può essere:

  • umorale, con formazione di anticorpi,
  • cellulo-mediata, con elaborazione di linfochine,
  • citotossica, con produzione di linfociti killer citotossici.

Ogni linfocito possiede sulla membrana un recettore per l’antigene con una sola capacità combinatoria: ciò significa che è in grado di riconoscere e legarsi a uno solo dei tantissimi antigeni che potrebbero penetrare nell’organismo. La specificità del riconoscimento dell’antigene rimane immutata durante la vita del linfocito, il quale, una volta riconosciuto l’antigene, trasmette la specificità antigenica alle cellule-clone in cui si riproduce: questa espansione cellulare determina l’aumento del numero dei linfociti capaci di reagire verso quel determinato antigene.

Linfociti e risposta immunitaria

iStock.com/ttsz

Ma non è solo la specificità del riconoscimento dell’antigene a conferire ai linfociti il ruolo assolutamente speciale che essi svolgono nella difesa dell’organismo; in in seguito al riconoscimento dell’antigene, che genera una risposta immunitaria primaria, alcuni linfociti vivono per lungo tempo conservando una memoria del riconoscimento antigenico. I linfociti-memoria, che hanno già riconosciuto l’agente infettivo, venendo nuovamente a contatto con lo stesso antigene danno origine a una risposta immunitaria, detta secondaria, molto più rapida e intensa.

Al contrario degli altri leucociti responsabili di una risposta immunitaria aspecifica, innata, i linfociti innescano una risposta immunitaria specifica, che utilizza meccanismi di difesa basati sul riconoscimento dell’invasore. Le due caratteristiche della risposta immunitaria (specificità e memoria), oltre a conferire l’immunità naturale da malattie infettive, rendono possibile la profilassi delle malattie infettive attraverso la vaccinazione.

Alla luce del loro ruolo di difesa dell’organismo è quindi normale rilevare temporanei aumenti della loro quantità nel sangue, espressione del loro lavoro di protezione.

Se dal punto di vista morfologico i linfociti sembrano una popolazione omogenea dal punto di vista funzionale, sono distinti in tre principali tipi,

  • i linfociti B,
  • i linfociti T
  • e i linfociti “non B e non T” (o “cellule nulle”), per esempio, le cellule natural killer.

Nell’adulto sano circa il 75-80 % dei linfociti circolanti è costituito da cellle T e il 10-15% da cellule B; la restante percentuale è costituita dalle cellule non B e non T.

Nello specifico:

  • I linfociti B, cioè le plasmacellule, sono i linfociti deputati alla produzione di anticorpi e all’attivazione dei linfociti T. Si chiamano B dall’iniziale del luogo dove maturano, il Bone Marrow (midollo osseo).
  • I linfociti T, si chiamano così dall’iniziale del distretto corporeo dove maturano, cioè il Timo. I linfociti T a loro volta si dividono in:
    • linfociti T Helper (Th) sono fondamentali per l’attivazione e la modulazione della risposta immunitaria degli altri linfociti,
    • linfociti T citotossici (Tc),  o linfociti attivati, che hanno azione diretta verso batteri virus ed altri agenti ostili all’organismo.
    • I linfociti T regolatori, detti anche linfociti T soppressori, sono coinvolti nei processi di autoregolazione della risposta immunitaria.
  • I linfociti NK, chiamati più semplicemente linfociti Natural Killer, cellule Natural Killer o cellula NK, sono cellule ad alto potenziale citotossico

Linfociti: quali sono i valori medi di riferimento?

I linfociti costituiscono, in condizioni di normalità, solitamente il 20-45 per cento dei leucociti globali; indipendentemente dal laboratorio di analisi, quindi, i valori normali di linfociti sono più o meno pari a 1500-3000 unità per µl di sangue.

WBC  Globuli bianchi 4 – 10 cellule x 103/μL
NEUT  neutrofili 40 – 75 %
LINF  linfociti 20 – 45 %
MONO  monociti 2 – 10 %
EOS  eosinofili 1 – 6 %
BASO  basofili < 1 %

Linfociti alti (linfocitosi)

I valori o conteggi che attestano una condizione di linfocitosi sono:

  • più di 4000 linfociti/µl nell’adulto
  • più di 7200 linfociti/ml nel bambino

L’aumento dei linfociti può essere determinato da

  • infezioni virali o batteriche,
  • patologie infiammatorie croniche,
  • neoplasie ematologiche,
  • ipersensibilità nei confronti dei farmaci.

Proprio a causa del ruolo attivo nella difesa dalle infezioni virali e batteriche, il riscontro di valori moderatamente aumentati dei linfociti è spesso legato a patologie relativamente comuni, come per esempio l’influenza, la mononucleosi o un ascesso dentale.

Tra le altre patologie in grado di innescare una linfocitosi ricordiamo:

Linfociti bassi (linfocitopenia)

La linfocitopenia (o linfopenia) è la rilevazione di un basso numero di linfociti nel sangue e di norma si presenta con i seguenti valori:

  • meno di 1000 linfociti/µl nell’adulto,
  • meno di 2500 linfociti/ml nel bambino.

Le condizione in cui i valori sono bassi ed inferiori all’intervallo di riferimento è sicuramente più rara e può essere per esempio causata da:

  • sindromi da immunodeficienza:
    • HIV,
    • difetti congeniti dell’immunità cellulo-mediata,
    • terapie immunosoppressive;
  • esposizione ad adrenalina e corticosteroidi:
    • Iperattività delle ghiandole surrenali,
    • tumori ipofisari ACTH-secernenti,
    • somministrazione di steroidi;
  • malattie gravi, debilitanti di ogni tipo:
  • difetti della circolazione linfatica:
    • disordinii della mucosa intestinale,
    • drenaggio del dotto toracico,
    • linfangectasia intestinale.

Si sottolinea che il riscontro di valori bassi non deve essere necessariamente interpretato come una diagnosi di una delle patologie elencate, in quanto moderate fluttuazioni di dei valori sono possibili anche nel soggetto sano e solo il medico è in grado di formulare una diagnosi o valutare l’eventuale necessità di ulteriori esami di approfondimento.

Altri fattori

Nei bambini di età compresa tra i 4 mesi e i 4 anni il riscontro di valori elevati di linfociti in rapporto agli altri globuli bianchi è del tutto normale.

Qualsiasi terapia farmacologica in grado di ridurre la portata dell’attività del sistema immunitario è in grado di ridurre il numero di linfociti circolanti (cortisone, chemioterapia, radioterapia, terapie immunosoppressive post-trapianto, …), così come moderate riduzioni possono essere manifestazione di stress.

Preparazione

Il conteggio dei linfociti, assoluto o percentuale, richiede un normale prelievo di sangue venoso e non richiede il digiuno né altra forma di preparazione.

Domande frequenti

Come aumentare i linfociti?

Il riscontro occasionale di valori ai limiti inferiori della norma, o anche leggermente sotto, è spesso causa di grande preoccupazione del paziente anche in seguito alle necessarie rassicurazioni del medico curante. Il “come aumentare i linfociti” è per questa ragione una domanda legittima e comune, che tuttavia nella maggior parte dei casi viene liquidata con un semplice “non è necessario fare nulla”.

Per le ragioni spiegate in precedenza è infatti possibile rilevare modeste diminuzioni occasionali prive di significato, destinate quindi a rientrare nella norma in breve tempo; più in generale per aiutare il sistema immunitario a lavorare meglio è comunque possibile dire senza timori di smentita che uno stile di vita sano è la strada in assoluto più efficace per la totalità della popolazione sana, mentre non esistono soluzioni (erboristiche, farmacologiche né tantomeno omeopatiche) di documentata efficacia. Per approfondire si rimanda al seguente articolo.

Non esiste infine una dieta specifica per aumentare i valori dei linfociti, quello che è necessario mangiare è infatti perfettamente sovrapponibile alle linee guida di una sana alimentazione.

Come abbassare i linfociti?

Non è possibile intervenire dall’esterno per contribuire all’abbassamento dei valori, se non intraprendendo uno stile di vita sano che consenta di mantenere il sistema immunitario in condizioni di perfetta efficienza (ed in grado quindi di reagire prontamente ed efficacemente già in termini di difesa preventiva dalle piccole o grandi malattie).

Quando vengono rilevati valori aumentati, ma questi sono giudicati privi di valore clinico dal medico, è sufficiente aspettare che la reazione immunitaria finisca il suo corso per vedere diminuire i valori.

Linfociti alti/bassi: quando preoccuparsi?

È molto difficile fornire una risposta generale a questa domanda, perché inevitabilmente non può essere che “dipende”; dipende da fattori come l’eventuale presenza di altri sintomi, l’entità dello spostamento dei valori rispetto a quelli di riferimento, la presenza di altri parametri alterati, nonché eventuali malattie croniche e/o terapie in corso.

La valutazione della conta linfocitaria non può quindi che prescindere da una valutazione medica che tenga conto di tutte queste altre valutazioni; da un punto di vista generale è possibile affermare che risultati lievemente diversi da quelli normali rilevati in occasione di esami di routine (cioè richiesti a scopo di controllo) e in assenza di altre variazioni significative raramente sono indicativi di patologie gravi, così come valori che rientrano nella norma a distanza di qualche settimana da un primo riscontro alterato.

Si raccomanda in ogni caso di rivolgersi sempre al medico per una valutazione ragionata, che potrà eventualmente avvalersi di una valutazione specialistica (ematologo) in caso di dubbi.

Cos’è l’inversione della formula leucocitaria?

Per inversione della formula leucocitaria si intende la riduzione dei neutrofili associata all’aumento dei linfociti, rispetto al totale dei globuli bianchi; è un fenomeno relativamente comune e tipicamente dovuto a banali infezioni virali, ma per approfondirne le cause si rimanda all’articolo dedicato.

Esami di laboratorio

Poiché la formula leucocitaria è espressa in valori percentuali (e i linfociti sono una componente di tale formula) è necessario conoscere il numero totale dei globuli bianchi per comprendere il significato fisiopatologico del conteggio differenziale.

Quest’ultimo non viene effettuato sempre, per esempio , non viene effettuato quando il numero totale è nella norma e non vi sono evidenze cliniche o di laboratorio di alterazioni ematologiche; tuttavia va tenuto conto che molte condizioni morbose di natura neoplastica, infiammatoria o immunologica possono determinare degli spostamenti dei valori percentuali senza alterare il numero totale dei leuciti.

Il conteggio dei globuli bianchi e di conseguenza di tutte le cellule appartenenti, fra cui anche i linfociti, viene effettuato su un piccolo campione di sangue processato su macchine che si basano su principi di conta elettronica delle particelle o di diffusione della luce.

Qualora fosse necessario il conteggio differenziale l’esame visivo dello striscio di sangue resta il metodo elettivo e più usato.

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Arnica montana in gel, crema, granuli, …: a cosa serve?

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Cos’è l’arnica montana?

L’Arnica Montana è una pianta perenne originaria delle zone montuose dell’Europa centrale.

Il suo nome deriva dal greco arnakis, che significa “pelle di agnello”, per via della consistenza morbida delle sue foglie. Dal punto di vista botanico appartiene al genere Compositae; i suoi fiori gialli con venature centrali a raggiera le hanno fatto meritare il nome di “margherita di montagna”.

L’Arnica è stata usata come rimedio naturale in Europa, soprattutto in Germania, sin dal XVI secolo, per il trattamento locale di lividi e contusioni e per dare sollievo in caso di dolori muscolari; la sua efficacia resta tuttavia ancora controversa, esistono in letteratura studi controllati sull’utilizzo dell’arnica, ma presentano grossi limiti in termini di

  • numero di partecipanti,
  • condizioni di salute di partenza,
  • dosaggi utilizzati,

con conseguente inevitabile eterogeneità dei risultati ottenuti [1].

Immagine del fiore di arnica montana

Arnica in gel, crema e pomata: funziona?

L’Arnica è usata principalmente ad uso topico come antidolorifico e antinfiammatorio in caso di traumi fisici di varia natura (ematomi, contusioni, stiramenti muscolari, …), oppure come rimedio in caso di punture di insetti e leggere infiammazioni cutanee.

L’uso topico è considerato relativamente sicuro (vedi paragrafo “Effetti collaterali”), ma in letteratura non si trovano conferme inequivocabili sulla sua efficacia: gli studi sono pochi e generalmente associati a difetti metodologici importanti, oppure condotti in presenza di conflitti d’interesse che ne limitano inevitabilmente l’utilità.

Alle dosi comunemente usate non ci sono quindi evidenze che ne supportino l’utilizzo, benché questo sia considerato ragionevolmente sicuro, mentre a dosi più elevate non è possibile trarre conclusioni per scarsità di dati.

Applicazione di crema sul ginocchio

iStock.com/LightFieldStudios

Uso topico per il trattamento dell’osteoartrite

Secondo la classificazione di medLinePlus [9], sulla base dell’evidenza scientifica i rimedi naturali vengono classificati in base alla seguente scala di efficacia:

  • Efficaci
  • Probabilmente efficaci
  • Possibilmente efficaci
  • Possibilmente inefficaci
  • Probabilmente inefficaci
  • Inefficaci
  • Non classificabili per insufficienza di test eseguiti

L’Arnica rientra nei Possibilmente efficaci per quanto riguarda l’utilizzo nell’osteoartrite, uno dei più comuni disturbi articolari che colpisce in prevalenza dopo i 65 anni e fino all’80% delle persone oltre i 75 anni di età, e che si caratterizza per

  • degenerazione articolare,
  • perdita di cartilagine,
  • modificazioni ossee.

Per il trattamento vengono spesso prescritti antinfiammatori non steroidei per uso orale, ma il loro utilizzo comporta un’elevata incidenza di effetti collaterali, in particolare a carico del tratto gastrointestinale.

Nel 2002 è stato pubblicato uno studio multicentrico, condotto da due scienziati svizzeri, per verificare efficacia e sicurezza del gel di Arnica Montana in casi di osteoartrite al ginocchio da lieve a moderata [6]. Lo studio fu condotto su 26 uomini e 53 donne, per 6 settimane con due applicazioni giornaliere e il risultato fu positivo sia in termini di sollievo dal dolore che di recupero funzionale. Gli effetti indesiderati si verificarono nel 7.6% dei casi (reazioni cutanee di lieve entità), inclusa una reazione allergica.

In una ricerca dell’ospedale universitario di Zurigo condotta nel 2007, ibuprofene e gel di arnica sono stati messi a confronto nel trattamento di pazienti con osteoartrite alle mani, diagnosticata tramite indagini radiologiche [7]. L’esperimento è stato condotto in doppio cieco su 204 pazienti, divisi in modo casuale fra i due gruppi (ibuprofene o arnica), per 21 giorni. La valutazione dell’efficacia è stata fatta sulla base della percezione del dolore e del recupero funzionale delle mani: ebbene, non si sono viste differenze tra i due gruppi, a significare il buon esito di entrambi trattamenti (anche se, per valutarne in modo inequivocabile l’efficacia, l’esperimento andrebbe ripetuto con un gruppo di controllo con placebo). In più, gli eventi avversi sono stati del 6% nel gruppo dell’ibuprofene e del 4,8% in quello dell’arnica.

Arnica per uso sistemico (compresse, tintura, granuli, …)

Per uso sistemico la si ritrova in diversi preparati omeopatici [4,5], per esempio per il trattamento di problemi dell’apparato

ma anche per la cura dei reumatismi e dolori muscolari.

L’ingestione a diluizioni omeopatiche non comporta rischi per la salute, al contrario dell’ingestione del preparato non diluito (ad esempio la tintura madre) che può avere effetti pericolosi (vedi paragrafo “Effetti collaterali”).

Globuli e gocce omeopatiche di arnica

iStock.com/Animaflora

Non si hanno ad oggi evidenze di efficacia.

Composizione e meccanismo d’azione

Gli ingredienti attivi presenti nei fiori di Arnica Montana sono i lattoni sesquiterpenici (in particolare la Elenanina e i suoi esteri), insieme ad acido acetico, isobutirrico e metacrilico, glicosidi flavonoici, cumarine e oli volatili.

Il meccanismo d’azione si esplica attraverso l’inibizione selettiva, ad opera dell’Elenalina, del fattore di trascrizione NF-kB, un mediatore dell’infiammazione che controlla la trascrizione dei geni delle citochine (interleuchine- le citochine prodotte dalle cellule del sistema immunitario)2,3.

Detto in parole povere, l’Arnica, grazie all’Elenanina, blocca il meccanismo infiammatorio a monte.

Alcuni studi in vitro hanno evidenziato come l’arnica riesca a disattivare l’NF-kB anche a concentrazioni molto basse.

Effetti collaterali

Se ingerita, la tintura madre di Arnica non diluita può provocare:

Per queste proprietà un tempo L’Arnica pianta era utilizzata come veleno.

I rimedi in diluizione omeopatica non sono associati ad eventi avversi.

A livello cutaneo gli eventuali eventi avversi sono di lieve entità [1] (salvo ipersensibilità individuale) e riguardano

Se ne sconsiglia tuttavia l’utilizzo a soggetti allergici alle Compositae (echinacea, artemisia, tarassaco) perché in grado di scatenare fenomeni di allergia crociata.

Si raccomanda altresì di applicarla solo sulla pelle integra

Da evitare l’assunzione per bocca in gravidanza e durante l’allattamento.

Segnaliamo che è noto in letteratura un caso di anemia emolitica in un neonato, probabilmente associata all’uso di arnica da parte della madre [8].

Interazioni

Si raccomanda cautela nell’assunzione in concomitanza con anticoagulanti e antiaggreganti piastrinici [9]: secondo alcune ricerche, l’Arnica potrebbe aumentare il rischio di sanguinamento. Tra i farmaci che possono rallentare la coagulazione del sangue ricordiamo

La stessa considerazione vale per i rimedi erboristici con uguale indicazione (anticoagulanti e antiaggreganti piastrinici), come

  • angelica,
  • chiodo di garofano,
  • salvia radice,
  • aglio,
  • zenzero,
  • ginkgo,
  • panax ginseng.

Non sono note interazioni con i cibi.

Fonti e bibliografia

  1. Systematic Review on the Efficacy of Topical Arnica montana for the Treatment of Pain, Swelling and Bruises Journal Of Musculoskeletal Pain, Vol. 22(2): 216–223, 2014 Noe Brito, Paul Knipschild, and Jorge Doreste-Alonso
  2. Drugs and Lactation Database (LactMed). National Library of Medicine (US); 2006-. Arnica. Updated 2018 Dec 3.
  3. Helenalin, an anti-inflammatory sesquiterpene lactone from Arnica, selectively inhibits transcription factor NF-κB. Lyss G, Schmidt TJ, Merfort I, Pahl HL. Biol Chem. 1997;378:951-961.
  4. Efficacy of homeopathic arnica: a systematic review of placebo-controlled clinical trials. Arch Surg 33: 1187–1190, 1998. Ernst E, Pittler MH:
  5. Zur Wirksamkeit des homoopathischen Arzneimittels Arnica montana (On the effectiveness of the homeopathic remedy Arnica montana). Ludtke R, Hacke D. Wien Med Wochenschr 155: 482–490, 2005.
  6. Arnica montana Gel in Osteoarthritis of the Knee: An Open, Multicenter Clinical Trial. Advances In Therapy®,Vol 19 No. 5 Sep/Oct2002, Otto Knuesel, M.D., Michel Weber
  7. Choosing between NSAID and arnica for topical treatment of hand osteoarthritis in a randomized, double-blind study. Widrig R1, Suter A, Saller R, Melzer. J. Rheumatol Int. 2007 Apr;27(6):585-91.
  8. Miller AD, Ly BT, Clark RF. Neonatal hemolysis associated with nursing mother ingestion of arnica tea. Clin Toxicol (Phila). 2009;47:726.
  9. MedLinePlus

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Zenzero (ginger): proprietà, usi e controindicazioni

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Cos’è lo zenzero?

Originario dell’estremo oriente, conosciuto e utilizzato da millenni nella medicina ayurvedica e cinese, diffusosi nel Mediterraneo sin dai tempi di Alessandro Magno, lo zenzero (Zingiber officinalis) è oggi conosciuto in tutto il mondo ed è una delle spezie più utilizzate in ambito gastronomico (specie nella cucina orientale), per insaporire zuppe e salse, grazie al suo sapore leggermente piccante.

Noto anche con il nome inglese di ginger, oltre che come spezia e come aromatizzante per le bevande (pensiamo al famoso Ginger Ale), lo zenzero è conosciuto e utilizzato da lungo tempo nella medicina popolare per le sue proprietà

  • digestive,
  • antiemetiche e antinausea
  • e come antinfiammatorio nella sindrome influenzale.

In commercio troviamo la radice fresca o essiccata, lo zenzero candito a cubetti oppure l’estratto in polvere (ad uso culinario o sotto forma di capsule nel mondo dell’integrazione alimentare).

Fotografia della radice di zenzero

iStock.com/Photopips

Zenzero e digestione

Secondo numerosi studi clinici, lo zenzero promuove la digestione attraverso molteplici meccanismi:

  • aumentando il tono della muscolatura gastrica,
  • favorendo la secrezione di saliva e la produzione di succhi gastrici,
  • facilitando lo svuotamento dello stomaco tramite stimolazione della peristalsi.

Per trarre beneficio in termini di digestione è sufficiente masticare un pezzo (2 cm circa) di radice fresca all’occorrenza, dopo il pasto; è altresì efficace nella forma di cubetti canditi – meglio senza zuccheri aggiunti – e come estratto secco.

L’assunzione costante di zenzero contribuisce, inoltre, ad alleviare i sintomi del reflusso esofageo.

L’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) classifica come Traditional Use [4] l’utilizzo dello zenzero come digestivo: questo significa che nonostante gli studi clinici non siano ancora sufficienti e definitivi, l’efficacia di questo rimedio è considerata plausibile ed esistono prove in merito alla sicurezza del suo utilizzo da almeno 30 anni (di cui almeno 15 anni nell’UE). L’uso previsto, inoltre, non richiede la supervisione medica.

Zenzero e nausea

L’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) classifica come Well Established Use [4] l’utilizzo dello zenzero come anti-nausea: questo significa che esistono dati bibliografici che forniscono prove scientifiche dell’efficacia e della sicurezza dello zenzero usato a tale scopo, riguardanti un periodo di almeno 10 anni nell’UE.

Lo zenzero si è dimostrato efficace in diversi studi clinici nel contrastare di versi tipi di nausea [1], tra cui

Nausea da cinetosi

Il Comitato per i medicinali di origine vegetale dell’EMA (Agenzia Europea del Farmaco) ha considerato alcuni studi clinici condotti con lo zenzero, volti a valutarne l’efficacia confrontandolo con placebo o con altri medicinali usati per la prevenzione di nausea e vomito da cinetosi. Ebbene, lo zenzero è risultato più efficace del placebo e altrettanto efficace di altri medicinali utilizzati per lo stesso scopo [4].

La dose efficace nel trattamento delle cinetosi è quella corrispondente a 1-2 grammi di estratto secco in polvere, da assumersi almeno un’ora prima di mettersi in viaggio.

Nausea in gravidanza

Secondo quanto riportato in una meta-analisi pubblicata nel 2014, mezzo cucchiaino di zenzero in polvere (circa 1 g al giorno) preso per soli 4 giorni è stato associato a una diminuzione pari a 5 volte di nausea e vomito mattutini in gravidanza [2].

Nausea da chemioterapia

In uno studio randomizzato versus placebo [3], condotto in doppio cieco, 80 donne in trattamento con chemioterapia per il cancro al seno sono state divise casualmente in due gruppi: per 6 giorni hanno ricevuto, rispettivamente, 250 mg di zenzero in polvere oppure la stessa dose di placebo, per 4 volte al giorno (1 g totale). Al termine dell’esperimento,

  • sia la nausea acuta (quella che si manifesta nelle prime 24h),
  • sia quella dei giorni successivi,
  • sia quella cosiddetta “anticipata”,

dovuta ad esperienze pregresse di chemioterapia (il paziente manifesta nausea e vomito ancora prima della chemioterapia, perché pensa che insorgeranno, come accaduto in precedenza) sono risultate significativamente ridotte nel gruppo trattato con lo zenzero.

Zenzero e mal di testa

Lo zenzero può rappresentare un rimedio efficace in caso di attacchi acuti di mal di testa.

Uno studio pubblicato nel 2014 [5] ha messo a confronto zenzero e Sumatriptan (Imitrex®), un principio attivo di uso comune tra le persone che soffrono di frequenti mal di testa (in particolare emicranie e cefalee a grappolo).

L’esperimento è stato condotto in doppio cieco su 100 pazienti soggetti ad attacchi acuti di mal di testa (senza aura), divisi casualmente in due gruppi: ad uno è stato somministrato il farmaco (50mg Sumatriptan), all’altro 250mg di zenzero. La valutazione dell’efficacia è stata fatta sulla base del tempo di comparsa dell’attacco, la durata, l’intensità, per 5 attacchi consecutivi.

Sulla base dei risultati ottenuti, i due rimedi si sono dimostrati equivalenti: l’efficacia dell’estratto secco di zenzero è comparabile a quella del Sumatriptan, col vantaggio di un’incidenza sensibilmente minore di effetti collaterali.

Zenzero e dolori mestruali (dismenorrea)

Lo zenzero si è rivelato molto efficace nel ridurre i dolori mestruali, quei dolori comuni a molte donne (si calcola che ne soffra il 90% delle donne in età fertile) che si avvertono nel basso ventre e in zona pelvica prima o durante l’inizio del ciclo mestruale, in maniera più o meno intensa.

Sono stati pubblicati quattro studi randomizzati [6] sull’uso dello zenzero per i dolori mestruali e tutti e quattro hanno evidenziato benefici in caso di assunzione dell’estratto secco qualche giorno prima dell’inizio del ciclo, in dosi da 750 mg a 2 g.

Sembra inoltre che l’estratto sia in grado anche di ridurre l’entità del flusso quando troppo abbondante, effetto che rappresenta uno dei principali disturbi ginecologici delle donne in giovane età.

In un recente studio [7] 92 giovani donne in età scolare, soggette a flusso mestruale abbondante, sono state divise casualmente in due gruppi e sottoposte per 3 cicli consecutivi a trattamento con zenzero o con solo placebo. Al termine dell’esperimento è stata osservata una diminuzione significativa del flusso mestruale: nelle donne trattate con zenzero il flusso si era ridotto della metà.

Composizione e meccanismo d’azione

Le radici di zenzero sono costituite da

  • 40-60% carboidrati,
  • 10% proteine,
  • 10% grassi,
  • 5% fibre,
  • 6% minerali,
  • 10% acqua,
  • 1-4% oli essenziali,
  • 5-8% resine e mucillagini.

I principi attivi che caratterizzano lo zenzero sono

  • gingeroli e shogaoli, responsabili del sapore intenso e caratteristico,
  • componenti volatili (sesquiterpeni e monoterpeni), responsabili del profumo caratteristico

Pur non essendo ancora stati del tutto chiariti i meccanismi attraverso i quali lo zenzero esplica la propria attività in vivo, gli studi in vitro suggeriscono, almeno per quanto riguarda l’effetto antiemetico e digestivo, un’azione

  • di antagonismo nei confronti dei recettori serotoninergici 5-HT3 e colinergici M [8] [9],
  • di modulazione diretta della motilità gastrica e intestinale.

Effetti collaterali, controindicazioni e interazioni

Nelle dosi generalmente raccomandate (1-2 g di estratto secco al giorno come dose massima) lo zenzero risulta in genere ben tollerato.

Se assunto in dosi eccessive può causare disturbi a carico di stomaco e intestino [4], tra cui:

Si raccomanda cautela in pazienti affetti da

  • bruciore di stomaco, poiché lo zenzero stimola la secrezione gastrica,
  • calcoli biliari, per l’effetto coleretico e colagogo.

Pur non essendo dimostrato in via definitiva l’effetto antitrombotico e ipoglicemizzante dello zenzero, se ne consiglia cautela in caso di assunzione concomitante di farmaci quali

Fonti e bibliografia

  1. Is ginger beneficial for nausea and vomiting? An update of the literature. W Marx, N Kiss, L Isenring. Curr Opin Support Palliat Care. 2015 Jun;9(2):189-95.
  2. Effects of ginger for nausea and vomiting in early pregnancy: a meta-analysis. M Thomson, R Corbin, L Leung.J Am Board Fam Med. 2014 Jan-Feb;27(1):115-22.
  3. Ginger as a miracle against chemotherapy-induced vomiting. Z P Yekta, S M Ebrahimi et al. Iran J Nurs Midwifery Res. 2012 Jul;17(5):325-9.
  4. EMA
  5. Comparison between the efficacy of ginger and sumatriptan in the ablative treatment of the common migraine Maghbooli M, Golipour F, Moghimi Esfandabadi A, Yousefi M. Phytother Res. 2014 Mar;28(3):412-5.
  6. Efficacy of Ginger for Alleviating the Symptoms of Primary Dysmenorrhea: A Systematic Review and Meta-analysis of Randomized Clinical Trials. J W Daily, X Zhang, K Da Sol, S Park.Pain Med. 2015 Dec;16(12):2243-55.
  7. Effect of ginger (Zingiber officinale) on heavy menstrual bleeding: a placebo-controlled, randomized clinical trial. F Kashefi, M Khajehei, M Alavinia, E Golmakani, J Asili. Phytother Res. 2015 Jan;29(1):114-9
  8. Mode of action of gingerols and shogaols on 5-HT3 receptors: binding studies, cation uptake by the receptor channel and contraction of isolated guineapig ileum. Abdel-Aziz H, Windeck T, Ploch M, Verspohl EJ. Eur J Pharmacol 2006;530:136–43
  9. Effects of ginger constituents on the gastrointestinal tract: role of cholinergic M3 and serotonergic 5-HT3 and 5-HT4 receptors. Pertz HH, Lehmann J, Roth-Ehrang R, Elz S. Planta Med 2011;77:973–8.
  10. NutritionFacts.org

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Tè verde e tè nero: proprietà, benefici e rischi

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Introduzione

Il tè rappresenta la bevanda più consumata al mondo dopo l’acqua ed è una delle più antiche conosciute (le prime testimonianze risalgono al 2700 a.C.) [1]. I primi ad apprezzarne gusto e benefici furono i Cinesi, seguiti dai Giapponesi, mentre in Europa il tè fece la sua comparsa nel XV secolo, portato dai commercianti portoghesi di ritorno dall’oriente. Nel XVII secolo comparve nei salotti inglesi, dove divenne presto un tradizione così forte da meritarsi il titolo di bevanda nazionale.

Oggi è disponibile in sei principali varietà (ma ne esistono innumerevoli sottotipi), che differiscono per il processo di fermentazione cui sono sottoposte le foglie.

Il tè può essere prodotto solo in presenza di condizioni agro-ambientali molto particolari, caratteristiche dei climi tropicali e sub-tropicali (Cina, Sri-Lanka e India sono i principali produttori).

Secondo il rapporto FAO del 2018 [2], il consumo di tè e la sua produzione a livello globale sono in continua crescita e destinati a mantenere lo stesso trend nel prossimo decennio, grazie soprattutto alla domanda crescente da parte dei Paesi in via di sviluppo. I maggiori consumatori nei Paesi grandi produttori di tè, ossia Cina e India, pare inoltre che siano i giovani, alla ricerca di prodotti “alla moda” (come tè pregiati e di qualità), ma anche sempre più attenti a origine e sviluppo sostenibile. Curiosamente invece, sottolinea lo stesso rapporto, i Paesi europei tradizionalmente importatori, ad eccezione di Italia e Germania, hanno visto un calo nei livelli di consumo: nel Regno Unito, addirittura, il tè sarebbe in procinto di essere soppiantato dal caffè!

La produzione mondiale di tè nero è prevista crescere del 2,2% annuo nel corso del prossimo decennio e quella di tè verde a un tasso ancora maggiore, pari al 7,5% annuo.

Il rapporto FAO sottolinea come questo trend globale in crescita sia la conseguenza dell’aumento di consapevolezza sulle proprietà antinfiammatorie e antiossidanti della bevanda: pare che proprio i benefici in termini di salute e benessere rappresenteranno i principali fattori della crescita della domanda in futuro.

Tazza di tè con limone

iStock.com/solidcolours

Classificazione

Il tè si ottiene dalle foglie della Camelia Sinensis, pianta coltivata sin dall’antichità in India, Cina e Giappone.

La distinzione più semplice tra le diverse tipologie di tè è quella fatta in base alla fermentazione delle foglie, che distingue tre grandi categorie:

  • tè fermentati (neri), le cui foglie vengono lasciate ossidare e acquisiscono il caratteristico colore scuro,
  • tè non fermentati (verdi), le cui foglie vengono trattate con il calore per impedirne l’ossidazione e restano quindi verdi,
  • tè semi-fermentati (oolong) con una grado di ossidazione intermedio.

Una classificazione più completa è quella tuttora adottata in Cina, che distingue sei tipi di tè:

  • Tè nero/rosso: secondo la classificazione cromatica cinese, i tè rossi sono quelli che in occidente chiamiamo comunemente tè neri e sono quelli che si ottengono da foglie essiccate, fatte completamente ossidare dopo la raccolta. È la varietà di tè più ricca in caffeina: una tazza di tè nero (150 mL) contiene da 40 a 100 mg di caffeina, al pari di un espresso (80mg).
  • Tè verde: definito come “non fermentato”, il tè verde viene preparato a partire da foglie trattate con calore secco (tipico dei tè verdi cinesi) o umido (tipico dei tè verdi giapponesi). Il calore inattiva gli enzimi responsabili dell’ossidazione e permette quindi alle foglie di essiccare mantenendo il colore verde. Rispetto al tè nero, è più povero in caffeina ma più ricco di antiossidanti, il più abbondante dei quali è l’epigallocatechina 3-gallato (EGCG), considerata responsabile dei principali benefici attribuiti al tè verde.
  • Tè oolong o azzurro: è un tè semifermentato, le cui foglie subiscono un’ossidazione solo parziale. A seconda del grado di ossidazione si ottengono tè con caratteristiche organolettiche e colorazione ben definite.
  • Tè bianco: Un tempo retaggio esclusivo della corte imperiale, è una specialità molto rara, non eccessivamente fermentata, originaria della Cina. I germogli (nei tè bianchi più pregiati) o le giovani foglie vengono lasciati appassire all’aria per lungo periodo dopo la raccolta. Raggiunto il livello di appassimento desiderato, i germogli e le foglie vengono essiccati e impacchettati per essere pronti all’uso.
  • Tè giallo: si tratta di una variazione del tè verde, per aggiunta di una fase di “ingiallimento” delle foglie, ottenuta tramite leggera ossidazione. È prodotto in quantità limitata in alcune aree della Cina
  • Tè nero fermentato Pu-ehr: i tè neri, secondo la classificazione cinese, sono quelli le cui foglie subiscono un processo di vera e propria fermentazione dopo la raccolta – e per questo assumono una colorazione molto scura. I più pregiati subiscono un invecchiamento di almeno 5 anni prima di essere commercializzati.

Proprietà e benefici

Il tè è stato utilizzato in oriente per centinaia di anni a scopo curativo per diverse patologie [3].

Se diamo un’occhiata alla letteratura scientifica, troviamo studi sulle applicazioni più svariate del tè in ambito terapeutico. Gli articoli riguardano prevalentemente tè nero e tè verde, le due tipologie di più largo consumo a livello globale. Tra gli effetti più studiati troviamo:

  • aumento della concentrazione e della performance mentale,
  • trattamento di cefalee ed emicrania,
  • attività antiossidante,
  • effetto dimagrante,
  • effetto ipolipidemizzante,
  • prevenzione dell’aterosclerosi,
  • prevenzione delle malattie cardiache,
  • prevenzione dell’ictus,
  • prevenzione del morbo di Parkinson,
  • riduzione del rischio di osteoporosi,
  • riduzione del rischio di sviluppo tumori.

Molti di questi studi sono solo osservazionali oppure risultano incompleti,

  • perché condotti su scala ridotta,
  • perché manca il gruppo di controllo con placebo,
  • e per altri difetti metodologici.

I risultati, tuttavia, sono incoraggianti, tanto da rendere di sicuro interesse la prosecuzione della ricerca sul tema.

Le evidenze più promettenti, ad oggi, riguardano

  • l’aumento delle performance mentali,
  • la prevenzione delle malattie cardiache (attraverso la riduzione dei fattori di rischio, quali pressione sanguigna, ipercolesterolemia, irrigidimento della parete dei vasi sanguigni),
  • la prevenzione del morbo di Parkinson (per via del contenuto in caffeina, così come visto anche per il caffè) [4],[12].

Uno dei componenti principali del tè verde, l’epigallocatechina gallato (EGCG), è stato oggetto di numerosi studi per verificarne possibili effetti protettivi sia nei confronti delle malattie cardiache che di alcuni tipi di cancro.

L’EGCG è un composto polifenolico, una categoria di molecole il cui effetto antiossidante è noto da tempo in letteratura: la prevenzione dello stress ossidativo e dei danni a livello di DNA renderebbero conto dell’attività preventiva del tè sullo sviluppo tumorale.

L’effetto preventivo del tè (in particolare del tè verde) nei confronti del cancro è stato dimostrato in modelli sperimentali su diversi tipi di tumore, tuttavia gli studi epidemiologici forniscono ancora dati contrastanti [5][6]. Il limite intrinseco degli studi epidemiologici, d’altronde, è che coinvolgono troppe variabili difficilmente isolabili:

  • lo stile di vita,
  • la predisposizione genetica,
  • l’entità del consumo di tè,

Esistono studi clinici [7] sull’effetto preventivo del tè nei confronti di alcune forme tumorali, ma purtroppo ancora troppo limitati; lo stesso meccanismo tramite cui si esplicherebbe l’azione antitumorale non è ancora chiaro.

Effetti collaterali e controindicazioni

Quando consumato come bevanda in dosi moderate, il tè è considerato relativamente sicuro [12] negli adulti in buona salute.

A dosi eccessive possono manifestarsi reazioni indesiderate, dovute al contenuto in caffeina, quali:

Si può bere il tè in gravidanza?

Si raccomanda tuttavia, come sempre, cautela in gravidanza e allattamento, dato il contenuto di caffeina (tra l’altro ampiamente variabile a seconda della varietà consumata, nonché delle modalità d’infusione).

Interazioni

Il tè verde è stato visto ridurre i livelli ematici (e quindi l’efficacia) del Nadololo, un farmaco beta-bloccante usato per l’ipertensione arteriosa [3]

È altresì controindicato in caso di terapia antitumorale con Bortezomib, poiché le catechine del tè verde si legano alle molecole del farmaco impedendo loro il legame con le cellule tumorali [11]

Per una lista più completa di farmaci con cui ci potrebbero essere interazioni rimandiamo al sito MedLinePus [12].

Interazioni coi cibi

Secondo alcune ricerche, il tè nero può interferire con l’assorbimento del ferro. Se si è carenti di questo elemento, si consiglia di bere il tè lontano dai pasti, in modo da non interferire con l’assorbimento.

L’aggiunta di latte al tè nero sembra ridurne l’effetto cardioprotettivo [12], anche se sono necessarie più ricerche per confermare l’indicazione.

Domande frequenti

Il tè fa dimagrire?

Il consumo abituale della bevanda potrebbe in effetti indurre un modesto effetto di riduzione del peso corporeo, ma questo è considerato non significativo in termini quantitativi.

Tè col latte o col limone?

Un gruppo di ricercatori tedeschi ha pubblicato uno studio [8] sull’effetto protettivo del tè nero, con o senza l’aggiunta di latte, nei confronti della parete endoteliale (il rivestimento interno delle nostre arterie). Lo studio è stato fatto su un numero limitato di individui, ma il risultato è comunque degno di nota (e supportato da prove in vitro):

l’aggiunta del latte al tè inibisce completamente l’effetto protettivo di quest’ultimo (vedi figura seguente).

Il colpevole sembra essere la caseina, probabilmente in grado di inibire l’attività protettiva dei flavonoidi, motivo per cui l’effetto negativo non si rileva aggiungendo per esempio latte di soia (in modo peraltro del tutto simile a quanto visto per il caffè macchiato).

Grafico che mostra la riduzione dell'effetto protettivo del tè a seguito dell'aggiunta di latte

Vasodilatazione flusso-mediata (FMD) indotta dal tè, confrontata con sola acqua e con tè addizionato di latte vaccino (photo credit: https://academic.oup.com/eurheartj/article/28/2/219/2887513)

Sull’onda di questa pubblicazione, l’European Society of Cardiology ha emesso un comunicato [9] suggerendo ai consumatori abituali di tè col latte (prevalentemente i cittadini britannici) di prendere in considerazione l’idea di eliminare il secondo.

Per quanto riguarda l’aggiunta di limone, l’effetto più significativo si rileva con tè verde e bianco, ossia con tè non fermentati. Secondo una ricerca americana del 2007 [10], l’aggiunta di limone aumenta in maniera significativa la biodisponibilità delle catechine antiossidanti (EGCG) – e nel il tè bianco in maniera ancora più evidente che in quello verde, aumentando così potenzialmente l’effetto protettivo.

Figura 2. Effetto dell’aggiunta di limone sulla disponibilità di antiossidanti nel tè verde e nel tè bianco .

Figura 2. Effetto dell’aggiunta di limone sulla disponibilità di antiossidanti nel tè verde e nel tè bianco
(Fonte immagine: https://nutritionfacts.org/video/green-tea-vs-white/)

Caffeina o teina?

I due termini sono sinonimi, quindi è possibile affermare senza timore di smentita che il tè contiene caffeina (fa quindi eccezione il tè deteinato).

 

La quantità contenuta in una tazza di tè è tuttavia ampiamente variabile in relazione alla varietà consumata, ma l’effetto che esplica dipende anche dalle modalità di infusione (temperatura e durata):

  • un’infusione breve (circa 2 minuti) estrae dalle foglie di tè soprattutto caffeina, conferendo quindi principalmente un effetto stimolante;
  • un’infusione più lunga (3-5 minuti) estrae anche acido tannico, una molecola in grado di limitare l’effetto della caffeina (oltre a rendere più amaro il sapore).

Fonti e bibliografia

  1. World tea production and trade – Current and future development (FAO) 
  2. Global tea consumption and production driven by robust demand in China and India
  3. NIH.gov
  4. Tea consumption and risk of cardiovascular outcomes and total mortality: a systematic review and meta-analysis of prospective observational studies. Zhang C, Qin YY, Wei X, Yu FF, Zhou YH, He J. Eur J Epidemiol. 2015 Feb;30(2):103-13.
  5. Does tea prevent cancer? Evidence from laboratory and human intervention studies. Lambert JD. Am J Clin Nutr. 2013 Dec;98(6 Suppl):1667S-1675S.
  6. Antioxidative and anti-carcinogenic activities of tea polyphenols. Yang CS1, Lambert JD, Sang S. Arch Toxicol. 2009 Jan;83(1):11-21.
  7. Chemoprevention of human prostate cancer by oral administration of green tea catechins in volunteers with high-grade prostate intraepithelial neoplasia: a preliminary report from a one-year proof-of-principle study. Bettuzzi S, Brausi M, Rizzi F, Castagnetti G, Peracchia G, Corti A Cancer Res 2006;66:1234–40.
  8. Addition of milk prevents vascular protective effects of tea. Lorenz M1, Jochmann N, von Krosigk A et al. Eur Heart J. 2007 Jan;28(2):219-23.
  9. escardio.org
  10. Common tea formulations modulate in vitro digestive recovery of green tea catechins. Green R.J., Murphy A.S., Schulz B., Watkins B.A., Ferruzzi M.G. Mol. Nutr. Food Res. 2007;51:1152–1162
  11. Humanitas
  12. MedLinePlus

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Vaginite: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

La vaginite è l’infiammazione della mucosa vaginale che, talvolta, si estende fino ad interessare  anche la vulva, la parte esterna della vagina (vulvovaginite).

Le vaginiti comprendono alcune delle malattie ginecologiche più comuni, soprattutto nelle donne in età fertile, e possono causare:

  • irritazione,
  • prurito,
  • perdite vaginali,
  • bruciore,
  • cattivo odore,
  • disagio psicosociale.

Si tratta di condizioni che possono essere causate e sostenute da agenti patogeni specifici (come batteri, funghi o parassiti), quando l’alterazione del pH della mucosa provoca un disequilibrio della flora vaginale, favorendo la crescita incontrollata di microorganismi patogeni.

Vengono classificate in

  • infettive (la maggior parte dei casi di natura batterica, fungina e parassitaria),
  • non infettive o infiammatorie aspecifiche

e sono molto più comuni in età adulta, sebbene possano venire diagnosticate anche nella popolazione pediatrica.

Le forme più comuni sono quelle batteriche, tipicamente legate ad infezioni da Candida e Trichomonas.

La cura viene prescritta in modo specifico in base alla causa alla base dell’infiammazione.

Vaginite

iStock.com/ttsz

Cause

Le vaginiti possono essere così classificate:

  • non infettive,
  • infettive:
    • batteriche (le più comuni),
    • micotiche (cioè sostenute da funghi),
    • parassitarie.

L’età rappresenta un fattore chiave nella trattazione delle infiammazioni che coinvolgono la vagina, principalmente per due aspetti:

  • alterazioni del pH acido vaginale (normalmente compreso fra 3.8 e 4.2 nella donna in età fertile) predispongono a modifiche della composizione della flora batterica vaginale,
  • l’attività sessuale rappresenta un importante fattore di rischio per varie ragioni:
    • il rapporto sessuale può determinare una porta d’ingresso a batteri patogeni (per esempio in forma di malattie sessualmente trasmesse),
    • le variazioni ormonali (legate per esempio al ciclo mestruale, alla menopausa, alla gravidanza, alla contraccezione ormonale, …) possono predisporre a cali delle difese immunitarie locali,
    • l’utilizzo di dispositivi contraccettivi (spirale, preservativo, …) rappresenta un fattore di rischio anche per lo sviluppo di vaginiti non infettive.

A prescindere dall’età, invece, tra i fattori di rischio più comuni ricordiamo:

  • condizioni igieniche,
  • malattie della pelle,
  • presenza di fistole fra intestino e tratto genitale (le fistole sono dei veri e propri canalicoli che si formano in diverse circostanze e che mettono in comunicazione due organi o apparati vicini, provocando il passaggio del materiale di un tessuto all’altro; nel caso delle vaginiti avremo la colonizzazione della vagina per opera di batteri intestinali),
  • calo delle difese immunitarie:
    • uso di antibiotici (in grado di distruggere la flora batterica vaginale normalmente presente),
    • radioterapia,
    • chemioterapia,
    • tumori,
    • HIV,
    • cortisone,
    • terapie immunosoppressive post-trapianto, …
  • utilizzo di materiali e sostanze in grado di irritare la mucosa e causare vulvite non infettiva:
    • saponi aggressivi sul pH,
    • assorbenti,
    • detersivi e ammorbidenti,
    • fibre sintetiche,
    • carta igienica,
    • creme vaginali.

Vaginiti nelle bambine

In questa fascia d’età sono frequenti le infezioni vaginali innescate da batteri provenienti dall’intestino, a causa di un’igiene intima non corretta (ad esempio lavarsi dall’ano alla vagina dopo l’evacuazione, non lavarsi le mani, …) o dell’utilizzo di prodotti irritanti (nel bagnoschiuma o in altri detergenti per l’igiene intima) o in seguito a corpi estranei (anche la semplice carta igienica potrebbe irritare la mucosa vaginale, particolarmente delicata in età prepubere).

Vaginiti in età riproduttiva

  • Vaginosi batterica: è la causa più comune (40-50%) nelle donne dai 15 ai 44 anni e si presenta in seguito a uno squilibrio fra i batteri “buoni” (lactobacilli, che diminuiscono) e quelli “cattivi” (anaerobi, che aumentano) normalmente presenti sulla mucosa vaginale, a causa della modifica del pH. Tra le possibili ragioni di questo squilibrio ricordiamo:
    • scarsa igiene personale,
    • frequenti irrigazioni con lavande vaginali,
    • terapia con antibiotici,
    • contraccettivi orali e intrauterini,
    • sesso non protetto con un nuovo partner,
    • gravidanza.
  • Vaginite da Candida (candidiasi): è la seconda causa più frequente di vaginite. Candida sp (solitamente Candida Albicans) è un fungo che vive normalmente nel corpo e che, quando le difese immunitarie si abbassano, può crescere in maniera incontrollata sulla mucosa vaginale. È rara nelle donne in post-menopausa, mentre si riscontra nel 20-40% delle donne in gravidanza e il 15-20% di quelle non in gravidanza. Le cause della crescita incontrollata includono:
    • terapia con antibiotici (molto comune è per esempio la candida vaginale a seguito dell’assunzione di amoxicillina-acido clavulanico),
    • terapia con cortisonici,
    • rapporti sessuale non protetti,
    • gravidanza,
    • diabete,
    • HIV o immunodepressione,
    • uso di Indumenti stretti e non traspiranti,
    • contraccettivi orali e intrauterini.
  • Vaginite da Trichomonas: Trichomonas è un parassita comunemente trasmesso per via sessuale e si ritrova nell’80% dei partner sessuali della persona infetta. È la terza causa di vaginite e si riscontra nel 15-20% dei casi. I fattori di rischio sono:
    • rapporti sessuali non protetti con partner multipli,
    • contraccettivi intrauterini,
    • stato immunitario compromesso.
  • Corpi estranei o prodotti utilizzati per l’igiene personale: raramente, gli assorbenti interni possono provocare una vaginite infiammatoria non infettiva. Anche prodotti quali spray vaginali, irrigazioni vaginali, detersivi, ammorbidenti e saponi possono sensibilizzare la mucosa e la vulva.

Vaginiti in menopausa

In menopausa si assiste alla diminuzione della produzione di estrogeni e alla perdita della funzione nutritiva che svolgono sulla mucosa vaginale; questo predispone a vaginite infiammatoria (in particolare vaginite atrofica).

Nelle donne più anziane si rileva in alcuni casi anche un problema d’igiene, soprattutto in caso di incontinenza urinaria e fecale, nonché in caso di pazienti allettate o con cateteri vescicali, dove l’irritazione di urina e feci può produrre un’infiammazione cronica o un’infezione aspecifica.

Sintomi

I sintomi di vaginite dipendono dalla causa che ha provocato l’infiammazione o l’infezione, ma tra i più importanti spiccano le perdite vaginali (leucorrea); queste perdite sono diverse dalle normali secrezioni che servono a mantenere la mucosa in salute, in condizioni fisiologiche le secrezioni sono bianche, inodori e non sono irritanti, mentre le perdite dovute a infiammazione hanno caratteristiche diverse e possono essere accompagnate da altri sintomi come:

  • prurito,
  • eritema (chiazza rossastra dovuta all’irritazione localizzata),
  • bruciore,
  • lieve sanguinamento,
  • difficoltà e dolore nella diuresi e durante i rapporti sessuali (disuria, stranguria e dispareunia), soprattutto quando l’infiammazione è estesa o quando la mucosa vaginale è atrofica (assottigliata) nei casi di carenza ormonale.

Secondo la vaginite, per quanto riguarda la quantità, il colore, e/o l’odore, possono presentarsi:

    • Vaginosi batterica: perdite grigiastre, sottili, dal tipico odore di pesce (spesso dopo il rapporto sessuale) e frequentemente associate a prurito e irritazione. Non è presente dolore durante i rapporti sessuali.
    • Vaginite da Candida: perdite spesse e biancastre simili alla ricotta, intenso prurito vaginale e talvolta vulvare. Possono essere presenti bruciori, eritema (rossore) e dolore nel rapporto sessuale.
    • Vaginite da Trichomonas: perdite giallo-verdastre importanti, maleodoranti, prurito, eritema, bruciore e difficoltà durante la minzione e i rapporti sessuali
    • Vaginite infiammatoria: secrezione purulenta, secchezza vaginale, assottigliamento della mucosa, dolore nei rapporti sessuali e nella diuresi.

Complicazioni

Solitamente la prognosi delle vaginiti è buona e il trattamento è efficace. In alcuni casi le infezioni ricorrenti possono provocare:

  • irritazione cronica,
  • escoriazioni,
  • cicatrici,
  • problemi durante i rapporti sessuali come dolore (dispareunia),
  • stress emozionale e psicosociale.

È importante trattare le vaginosi batteriche e le vaginiti da Trichomonas poiché sono considerate dei fattori di rischio per:

  • trasmissione di malattie sessuali, incluso HIV,
  • malattia infiammatoria pelvica, una pericolosa infezione cronica, associata al rischio d’infertilità permanente,
  • endometriti.

In gravidanza la presenza di una vaginite predispone a:

  • rottura prematura delle membrane,
  • parto pre-termine,
  • basso peso alla nascita
  • ed endometrite post-partum

Diagnosi

La diagnosi di vaginite e della causa sottostante si basa su:

  • Anamnesi: raccolta della storia clinica, in particolare in riferimento a:
    • attività sessuale,
    • metodi contraccettivi,
    • infezioni sessualmente trasmesse,
    • storia clinica personale,
    • riconoscimento dei sintomi:
      • quando si sono presentati,
      • se è la prima volta,
      • se sono associati a dolore o sanguinamento;
  • Esame obiettivo (visita ginecologica),
  • Analisi di laboratorio:
    • Analisi macroscopica delle secrezioni vaginali per quanto riguarda:
      • quantità,
      • durata,
      • colore,
      • consistenza,
      • odore;
    • Analisi microscopica delle secrezioni vaginali tramite microscopia a fresco;
    • Esame colturale: se la ricerca tramite microscopia a fresco ha dato risultati inconcludenti, la secrezione può essere messa in coltura per fare crescere eventuali ceppi di funghi o Trichomonas.

Le secrezioni vaginali non sono unicamente il prodotto di infiammazione o infezione genitali, ma anche di altre condizioni che è bene escludere, come:

Nelle bambine pre-puberi il reperto di vaginite da Trichomonas, la presenza di perdite atipiche o cervicite, è sempre patologica e deve essere posta in diagnosi differenziale con abuso sessuale.

Cura

Il trattamento delle vaginiti poggia le basi sul mantenimento di una buona igiene intima, oltre che ovviamente eliminare la causa che ha provocato l’infiammazione e le eventuali complicanze.

  • Misure igieniche: è bene mantenere pulita la vulva il più possibile, evitare saponi irritanti, prodotti non essenziali e qualsiasi fattore possa essere collegato all’irritazione (vedi sezione Cause).
  • Possono ridurre l’irritazione e il prurito impacchi freddi alternati a bagni caldi, con o senza bicarbonato di sodio.
  • Farmaci sintomatici, per il prurito e l’irritazione, come cortisonici in crema o antistaminici per via orale.
  • Farmaci antibiotici e antimicotici: nei casi d’infezione il trattamento dovrebbe essere assunto anche dal partner sessuale per il rischio di contagio e di reinfezione.
  • Creme agli estrogeni (in caso di secchezza vaginale da cambiamenti ormonali o menopausa).

Prevenzione

Alcuni accorgimenti possono essere utili per diminuire il rischio di vaginiti, di reinfezioni e delle complicanze associate.

  • Proteggere sempre i rapporti sessuali con partner occasionali (o counseling nei casi di malattia sessualmente trasmessa),
  • adeguata igiene intima
  • evitare l’uso di irrigazioni (lavande) e le creme vaginali non espressamente prescritte da un medico, che potrebbero diffondere l’infezione alle zone circostanti, alla cervice o all’utero, aumentando il rischio di malattia infiammatoria pelvica e di endometriti.

Fonti e bibliografia

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Maculopatia degenerativa: sintomi, pericoli e cura

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A cura del dott. Paolo Aiello e del dott. Giuseppe Fraganza, specialisti in Oculistica presso l’Ospedale San Carlo di Nancy, struttura di GVM Care & Research accreditata con il SSN

Cos’è la maculopatia

La maculopatia è una malattia tipicamente legata all’invecchiamento; la condizione colpisce la macula, una zona nell’occhio che si trova al centro della retina e la cui funzione è la visione distinta centrale. Viene erroneamente chiamata anche maculopatia retinica, ma in realtà non è la retina ad essere colpita, bensì i tessuti su cui la retina si appoggia, ovvero l’epitelio pigmentato e la coroide, e dai quali dipende il suo funzionamento.

Immagine con descritta l'anatomia dell'occhio umano

Anatomia dell’occhio umano (Di derivative work: B3t (talk) – Schematic_diagram_of_the_human_eye_en.svg, Pubblico dominio, Collegamento)

La maculopatia provoca la perdita progressiva della visione centrale, anche se purtroppo nelle fasi iniziali si presenta senza sintomi.

Vi sono due diverse tipologie di maculopatie:

  • ereditarie, come
    • la distrofia maculare giovanile,
    • la distrofia vitelliforme,
    • la distrofia maculare pseudo-infiammatoria di Sorsby,
    • la distrofia maculare North Carolina,
    • la distrofia maculare tipo Butterfly
    • e l’edema maculare cistoide dominante;
  • acquisite, come
    • la maculopatia miopica,
    • l’edema maculare cistoide,
    • il foro maculare idiopatico
    • e la maculopatia degenerativa legata all’età.

La tipologia più diffusa è la maculopatia degenerativa che si distingue in due diverse forme:

  • maculopatia degenerativa secca o atrofica, con un’evoluzione lenta, colpisce spesso entrambi gli occhi;
  • maculopatia essudativa o umida, meno comune ma più aggressiva. Vede la formazione di vasi sanguigni retinici nella zona della macula che creano delle cicatrici sottoretiniche.

L’OMS stima che rappresenti la terza causa mondiale di cecità, dopo cataratta e glaucoma (è invece la prima causa nei Paesi industrializzati); anche quando non evolve verso una completa cecità, la perdita della visione centrale può rendere difficile riconoscere i volti, guidare, leggere e svolgere altre attività della vita quotidiana.

Cause

Lo sviluppo di una maculopatia presenta alcune cause comuni:

  • età;
  • predisposizione genetica;
  • fumo.

I fattori di rischio in grado di aumentare le probabilità di sviluppo della patologia sono:

  • obesità,
  • ipertensione e le malattie cardiovascolari in genere,
  • eccessiva esposizione alla luce solare nel corso della propria vita.

Classificazione

Degenerazione maculare

Si tratta della prima causa di cecità in Occidente e la terza nel mondo: la degenerazione maculare è una malattia retinica che provoca alterazione e riduzione della funzionalità della macula, la zona centrale della retina. Si perde la visione centrale ed è una delle principali cause di ipovisione (riduzione della vista).

È una malattia legata all’avanzare dell’età, diffusa principalmente nei soggetti sopra i 70 anni e che per questo viene dunque definita anche degenerazione maculare senile. Gli uomini sono i soggetti più colpiti, specialmente nei casi di abuso di alcol e fumo e di uno stile di vita sedentario, e chi è affetto da diabete. Anche la famigliarità un un fattore di rischio.

Due sono le tipologie di degenerazione maculare senile:

  • Maculopatia secca o atrofica: si verifica in seguito ad assottigliamento progressivo della retina centrale. I capillari si atrofizzano a causa della morte di cellule fotosensibili determinando l’insorgenza di una cicatrice sulla macula. Oggigiorno non esiste cura per la maculopatia secca. È possibile però agire preventivamente con lo stile di vita, con l’attività fisica regolare e idonea, adottando una dieta alimentare equilibrata. Anche gli antiossidanti giocano un ruolo importante nel rallentare l’insorgenza della patologia combattendo la formazione dei radicali liberi.
  • Maculopatia essudativa o umida: i nuovi capillari che si formano hanno una parete molto fragile e sono quindi permeabili al plasma, causando distacchi sierosi dell’epitelio pigmentato retinico. Ci sono due possibili terapie che il soggetto affetto da tale patologia può intraprendere: una a base di iniezioni intravitreali di farmaci anti-VEGF (farmaci che vengono iniettati all’interno dell’occhio che bloccano i fenomeni di neovascolarizzazione, impedendo quindi la formazione di nuovi vasi sanguigni nella retina); l’altra è la terapia fotodinamica (si bloccano i nuovi vasi in maniera selettiva con un laser che permette la formazione di trombi, senza danneggiare il tessuto retinico) che viene però utilizzata raramente. L’ultima novità, da associare a volte alle iniezioni intravitreali nei casi resistenti, è il trattamento con un nuovo laser giallo micropulsato che stimola un riassorbimento del liquido ed una chiusura dei vasi, senza ledere il tessuto circostante.

Maculopatia miopica

Le persone affette da miopia elevata (superiore alle 6 diottrie) possono sviluppare la maculopatia miopica (o retinopatia miopica), patologia che interessa la retina e può manifestarsi in giovane età e progredire con il passare degli anni.

La forte miopia causa l’allungamento dell’occhio, provocando alterazioni anatomiche della retina, che può stirarsi e ledersi ed è più incline a subire rotture.

I sintomi principali per riconoscere la maculopatia miopica sono:

  • oggetti sfocati: l’occhio ha difficoltà a mettere a fuoco sulla lunga distanza,
  • gli occhi risultano spesso affaticati,
  • mal di testa,
  • strabismo.

La macula può essere interessata da un’atrofia dei vasi sottoretinici: si crea una zona “bianca” al centro dell’occhio non vedente, sia da lontano che da vicino. È possibile che si presenti una rottura di una membrana sottoretinica e la comparsa di neovasi e di una maculopatia umida che necessitano di una terapia con iniezioni intravitreali di farmaci anti-vegf. Il laser non si può utilizzare perché può provocare ampie cicatrici.

Maculopatia diabetica

Una complicanza del diabete consiste nella comparsa di maculopatia diabetica, la prima causa di perdita della vista o di ipovisione nei diabetici.

Per curare la maculopatia diabetica è bene tenere sotto controllo i valori diabetici, ovvero glicemia ed emoglobina glicata. I farmaci ipoglicemizzanti ed eventualmente specifici integratori alimentari contribuiscono ad evitare anche l’insorgenza della malattia.

Un controllo imperfetto della malattia conduce inevitabilmente allo sviluppo di alterazioni dei piccoli vasi sanguigni, sfociando in due diversi tipi di maculopatia diabetica:

  • una forma non proliferante in cui si manifestano emorragie retiniche, edemi e ischemie;
  • una forma proliferante che si verifica quando ci sono molti capillari occlusi che causano sofferenza retinica e sviluppano nuovi vasi sanguigni anomali.

Sintomi

I sintomi principali, campanelli d’allarme della presenza di una maculopatia, sono:

  • la vista si abbassa, ad esempio durante la lettura;
  • le immagini vengono visualizzate distorte ed alterate;
  • i colori risultano meno nitidi e brillanti;
  • si visualizzano macchie grigie nel campo visivo;
  • vi è una perdita di visione centrale (scotoma) che rende impossibile vedere nel punto in cui si fissa lo sguardo.
Esempio di visione con maculopatia

By National Eye Institute, National Institutes of Health – http://www.nei.nih.gov/photo/keyword.asp?narrow=Eye+Disease+Simulation&match=all (TIFF image), Public Domain, Link

Diagnosi

Gli esami diagnostici che confermano la presenza della maculopatia sono:

  • l’esame del fondo oculare,
  • la tomografia a coerenza ottica,
  • la fluoroangiografia,
  • l’angiografia.

Il metodo più utilizzato, veloce, indolore e affidabile per diagnosticare la maculopatia è l’OCT della macula (tomografia a coerenza ottica), un esame che permette di visualizzare i singoli strati della retina, della macula e della papilla in sequenze fotografiche, per formulare una diagnosi precoce delle patologie oculari, quantificare il danno e seguirne l’andamento.

Un ulteriore strumento a disposizione degli specialisti è l’Angio OCT, approccio che permette di studiare con un’alta definizione la rete vascolare retinica e coroideale, quindi i vasi sanguigni della retina, senza iniezioni di mezzo di contrasto ma con l’uso di un raggio laser a bassa emissione.

Il test dell’acuità visiva valuta la definizione dell’immagine del paziente e permette di riscontrare l’eventuale presenza di patologie grazie alla lettura della tabella ottotipica, composta da numeri, lettere e simboli.

Per l’esame del fondo oculare si procede, infine, con il biomicroscopio ed apposite lentine. Il medico dilata le pupille del paziente tramite collirio, per indagare la retina centrale.

Test di Amsler per le maculopatie

Per monitorare la salute degli occhi esiste un test che consente di verificare lo stato della retina e l’eventuale evoluzione della maculopatia, il test della griglia di Amsler, che consiste nell’osservare, un occhio per volta, la griglia a quadretti con un puntino nero al centro. Qualora il paziente vedesse righe storte o quadretti non delle stesse dimensioni, è bene rivolgersi ad uno specialista.

Il test è indicato a

  • miopi,
  • persone oltre i 50 anni,
  • persone già interessate dalla maculopatia adun occhio,
  • persone dichiarate a rischio di contrarre tale patologia.

Il reticolo di Amsler è uno strumento di diagnostica che permette di rilevare i difetti visivi causati da imperfezioni

  • della macula,
  • del nervo ottico
  • e della trasmissione di impulsi visivi al cervello.

Come si cura la maculopatia

Gli specialisti possono scegliere tra diverse cure a seconda della differente tipologia di maculopatia (la forma secca è una triste eccezione, in quanto ad oggi non è purtroppo curabile), ma il primo approccio necessario è un atteggiamento preventivo fondato su un’alimentazione ricca di frutta e verdura (e, se prescritti, eventuali integratori vitaminici con vitamine del gruppo C ed E, antiossidanti, Omega 3, tutti elementi nutritivi che riducono il rischio di una degenerazione della macula).

Fare prevenzione è dunque possibile ed efficace, mentre se la patologia è già conclamata i rimedi naturali possono rallentarne l’evoluzione.

Per la cura della maculopatia essudativa vi sono invece 4 terapie:

  • terapia farmacologica: i farmaci antiangiogenici vengono iniettati nell’occhio tramite anestesia locale. Questi farmaci bloccano l’azione dei fattori di crescita dei neovasi e ne arrestano lo sviluppo. Si tratta della prima scelta tra le terapie. Prima viene attuata, migliori saranno i risultati anche a lungo termine;
  • terapia fotodinamica: la verteporfina iniettata si lega ai capillari anomali e un raggio laser illumina proprio i vasi anomali attivando il farmaco che procede alla loro chiusura;
  • terapia con laser: il laser giallo micropulsato ha il compito di far riassorbire l’edema retinico;
  • traslocazione retinica: tecnica chirurgica altamente invasiva da riservare ai pazienti che presentano casi limite.

Gli occhiali telescopici possono, infine, essere un ausilio: sfruttano i recettori della retina ancora sani e non danneggiati.

Chirurgia della maculopatia

Esistono alcune forme di maculopatia, cosiddette “trazionali”, che possono essere affrontate chirurgicamente:

  • pucker maculare;
  • foro maculare;
  • sindrome da trazione vitreo-maculare.

Il pucker maculare consiste nella formazione sulla macula, cioè la parte centrale della retina, di una membrana sottile che cresce e si contrae provocando così deformazione della macula e quindi dell’immagine percepita dal paziente (metamorfopsie).

Il foro maculare è un piccolo “buco” che si forma nella macula, con perdita quasi totale della visione centrale.

La trazione vitreo-maculare è causata da un’anomala contrazione del vitreo (il gel che riempie l’occhio), questo provoca una trazione sulla macula e quindi sua deformazione.

L’unica soluzione possibile per questo gruppo di malattie è l’intervento chirurgico che consiste nella vitrectomia mini-invasiva.

La Vitrectomia è una chirurgia del segmento posteriore del bulbo oculare (cavità vitreale) che prevede l’asportazione del vitreo, una sostanza gelatinosa trasparente, costituita in gran parte da acqua e da sostanze quali l’acido ialuronico, presente all’interno dell’occhio (responsabile tra l’altro delle cosiddette mosche volanti), al quale dà forma e volume. La vitrectomia viene eseguita praticando dei forellini all’interno dell’occhio attraverso i quali vengono inserite delle microsonde. Il diametro di queste microsonde determina l’invasività dell’intervento: tanto più piccolo è il diametro, tanto migliore sarà la compliance da parte dell’occhio del paziente e tanto migliori saranno i risultati post-operatori dell’intervento chirurgico.

Grazie allo sviluppo tecnologico degli strumenti di calibro ridotto, la vitrectomia mininvasiva consente la creazione d’incisioni autosigillanti di meno di 1 mm, che nella maggior parte dei casi non necessitano di punti di sutura. Ne consegue un recupero funzionale più veloce con minore infiammazione intraoculare. I pazienti inoltre lamentano meno disturbi rispetto alla chirurgia tradizionale. La novità, da qualche anno, è l’utilizzo di cannule di calibro ulteriormente ridotto (27 Gauge), quindi forellini di poco meno di 400 micron di diametro. L’intervento chirurgico si esegue in anestesia loco-regionale, che blocca i movimenti e la sensibilità del bulbo oculare e che insieme a una accurata sedazione rende l’intervento molto più tollerabile per il paziente.

 

A cura del dott. Paolo Aiello e del dott. Giuseppe Fraganza, specialisti in Oculistica presso l’Ospedale San Carlo di Nancy, struttura di GVM Care & Research accreditata con il SSN

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Intervento per ernia inguinale: rischi, convalescenza, …

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Che cos’è l’ernia inguinale?

L’ernia inguinale consiste nella fuoriuscita di una parte di un viscere (generalmente l’intestino tenue o piccolo intestino) dalla cavità addominale attraverso un punto di debolezza della parete addominale anteriore.

Può apparire come un gonfiore all’inguine o, nei casi più severi, come un rigonfiamento dello scroto (la sacca che contiene i testicoli); in alcuni casi può essere dolorosa.

L’ernia inguinale è una tra le più comuni patologie di interesse chirurgico: è colpito il 5-10% della popolazione generale, più spesso maschile nella fascia d’età compresa . Colpisce più spesso i maschi tra i 50 e i 70 anni: in questa categoria di pazienti, più del 25% presenterà un problema di ernia inguinale nella vita.

La causa di formazione di un’ernia inguinale può essere:

  • aumento della pressione interna all’addome per
  • lassità delle strutture muscolari della parete addominale anteriore,
  • malattie genetiche dei tessuti connettivali.

È importante non confondere l’ernia inguinale con il laparocele, un’ernia che si viene a formare a livello di una vecchia cicatrice chirurgica relativa ad un precedente intervento.

L’ernia inguinale non complicata, cioè nelle fasi precoci della sua formazione, ha la caratteristica di essere riducibile, il viscere può cioè essere riposizionato in addome attraverso la semplice compressione del sacco erniario.

L’ernia inguinale complicata si può invece classificare in

  • Ernia incarcerata: non è più possibile riposizionare il viscere nella cavità addominale per la formazione di aderenze a livello della porta erniaria.
  • Ernia strozzata o strangolata: si verifica un ostacolo all’irrorazione sanguigna del segmento di viscere erniato che può portare a necrosi (cioè a morte delle cellule) di quel tratto di intestino. Anche un’ernia incarcerata si può complicare ulteriormente in un’ernia strozzata.

Nella maggior parte dei casi, il medico constaterà la presenza di ernia inguinale con un semplice esame clinico (la visita medica) che permetterà anche di capire la direzione dell’ernia: esistono infatti ernie dirette ed oblique e la loro differenziazione può implicare la scelta di diversi tipi di intervento chirurgico.

Nel caso di dubbio, potrà essere prescritta una ecografia o altri esami di imaging (TAC o Risonanza Magnetica).

Chirurgo che esegue un intervento di riparazione di ernia inguinale

iStock.com/castillodominici

Quando un’ernia inguinale è da operare?

L’unica terapia definitiva dell’ernia inguinale è la chirurgia, sebbene le tempistiche possano essere dilazionate se non si hanno sintomi; l’intervento sarà invece più urgente in caso di ernia incarcerata o strozzata:

  • Nel caso di assenza di sintomi, la chirurgia può essere programmata nelle settimane o mesi successivi.
  • Nel caso di ernia strangolata è indicata la chirurgia tra le 4 e le 6 ore per evitare un danno importante a carico dell’intestino.

Tecniche chirurgiche

L’intervento di riduzione di un’ernia inguinale prende il nome di ernioplastica inguinale e le tecniche più utilizzate sono:

  • ernioplastica tradizionale o a cielo aperto,
  • ernioplastica laparoscopica.

I vantaggi delle tecniche laparoscopiche comprendono:

  • riduzione del dolore post-operatorio e quindi minor ricorso a farmaci antidolorifici,
  • miglior risultato estetico.

Preparazione all’intervento

Nelle settimane precedenti all’intervento è possibile che siano richiesti esami del sangue di routine, i cui risultati verranno discussi durante una visita anestesiologica.

È necessario informare il personale sanitario riguardo l’assunzione di farmaci anticoagulanti e/o antiaggreganti.

A meno che il medico non abbia dubbi circa la natura dell’ernia o la presenza di altre patologie che possono aumentare i rischi chirurgici, non sono necessari esami di imaging (come TAC o Risonanza Magnetica).

Generalmente non è necessaria una preparazione intestinale con lassativi come avviene per interventi eseguiti sull’intestino, a meno che il medico non la richieda espressamente.

La regione dell’ernia inguinale verrà invece depilata ed è possibile che venga consigliato un lavaggio con antisettico.

Anestesia

L’intervento può essere eseguito in anestesia generale o, in base alle condizioni cliniche, possono essere applicate tecniche di anestesia

La procedura laparoscopia viene in genere praticata a seguito di anestesia generale.

Quanto dura l’intervento?

La durata dell’intervento è di circa 30-60 minuti, variabile a seconda di fattori tecnici.

Come avviene l’intervento

Nella maggior parte dei casi, indipendentemente dalla tecnica utilizzata, l’intervento è svolto in regime di day-surgery cioè eseguito la mattina e con la dimissione, salvo buon decorso post-operatorio, che avviene la sera stessa.

I casi in cui può essere consigliata una degenza ospedaliera di una notte sono:

  • difficoltà ad urinare per ritenzione di urina,
  • nausea,
  • plurime patologie del paziente.

Ci sono due tipi di intervento chirurgico, entrambi definiti “ernioplastica”.

Nel caso di ernia inguinale strozzata sarà necessario valutare le condizioni dell’intestino con un intervento più complesso e, nel caso in cui il chirurgo noti la presenza di aree non più vitali, si procederà ad asportare il segmento di intestino malato; la degenza ospedaliera in questi casi si protrae fino ad almeno 4-5 giorni.

Intervento a cielo aperto

inizialmente si esegue un’incisione cutanea effettuata a livello del sacco erniario, di lunghezza generalmente inferiore a 10 cm ma variabile a seconda delle dimensioni dell’ernia.

Successivamente si riposiziona il viscere in cavità addominale e si fissa con dei punti di sutura a livello della parete addominale interna una piccola rete, sagomata dal chirurgo al momento in base alle caratteristiche anatomiche del paziente, per evitare la recidiva di ernia.

Chirurgo che modella la rete per l'ernia inguinale

iStock.com/PhotoGraphyKM

Intervento laparoscopico

Concettualmente è lo stesso tipo di intervento, con l’importante differenza che viene effettuato dal lato della cavità addominale e non dall’esterno, ma sempre con l’obiettivo di posizionare una rete per evitare la recidiva.

Generalmente si eseguono 3 piccole incisioni sull’addome, attraverso cui sono inseriti gli strumenti:

  • una telecamera dotata di luce
  • e due strumenti che serviranno per ridurre l’ernia.
Fotografia di medici che stanno operando il laparoscopia

iStock.com/JazzIRT

Quale preferire?

Attraverso alcuni studi si è giunti alla conclusione, senza però elaborare una vera e propria raccomandazione, che l’intervento laparoscopico possa essere più indicato in persone giovani, altrimenti sane ed in grado quindi di meglio sopportare un’anestesia generale, che eseguono notevoli sforzi per motivi lavorativi o per altri motivi; viceversa l’intervento tradizionale può essere utilizzato in persone anziane con diverse patologie.

A giudizio del NICE il rischio di recidiva è paragonabile per entrambi i tipi d’intervento.

Fa male?

Durante l’intervento l’anestesia è in grado di impedire qualsiasi percezione di dolore, mentre nei primi giorni post-chirurgia gli antidolorifici prescritti permetteranno un efficace controllo di eventuali fastidi.

Dopo l’intervento

Dato che l’ernia inguinale è causata, nella maggior parte dei casi, da uno sforzo fisico eccessivo che porta ad un aumento della pressione addominale, sarà necessario astenersi da sforzi per le 4 settimane successive all’intervento. Si potrà tornare al lavoro già 2-3 giorni dopo l’intervento, a patto che non richieda sforzi fisici eccessivi; attività leggere come camminare possono aiutare la ripresa e vengono in genere caldeggiate dal chirurgo al momento della dimissione.

È possibile ricominciare a bere e mangiare lo stesso giorno dell’intervento, mentre è consigliabile disporre della presenza di un adulto nelle 24 ore post-intervento

Se è presente dolore questo verrà trattato in modo ottimale con farmaci analgesici. Nei pazienti trattati con tecnica laparoscopica potrebbe esserci anche dolore cervicale o alla spalla legato al fatto che viene inserita anidride carbonica nell’addome per distenderlo durante l’intervento e questo può causare irritazione di alcuni nervi. Questo tipo di dolore di solito regredisce in pochi giorni.

Nelle settimane seguenti l’intervento sarà inoltre programmata una visita ambulatoriale con il chirurgo, volta a

  • verificare il decorso post-operatorio,
  • rimuovere i punti di sutura.

Sarà possibile riprendere a guidare non appena nelle condizioni di effettuare se necessario una frenata d’emergenza (in genere circa una settimana o poco meno).

Verrà consigliata una breve astinenza sessuale nei primi giorni, poi la ripresa potrà essere graduale senza previste complicazioni.

Complicanze e rischi dell’intervento

L’intervento di ernia inguinale, grazie alle attuali tecniche chirurgiche ed anestesiologiche, è considerato ad oggi molto sicuro, ma come ogni operazione il paziente può essere soggetto ad alcuni rischi e complicazioni di cui è bene essere consapevoli.

Le principali complicanze, sia della chirurgia a cielo aperto che della chirurgia laparoscopica sono:

  • infezione della rete posizionata a livello della parete addominale,
  • lesioni di alcuni nervi della regione con conseguente dolore cronico o perdita di sensibilità,
  • ischemia testicolare o dolore testicolare cronico,
  • recidiva dell’ernia,
  • complicanze generali della chirurgia:

Quando chiamare il medico

Una volta a casa si raccomanda di contattare il medico in caso di:

Fonti e bibliografia

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Ginecomastia nell’uomo: cause, rimedi ed intervento

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Introduzione

La ginecomastia è una condizione clinica caratterizzata da un ingrandimento del tessuto mammario nell’uomo, generalmente per ragioni non tumorali.

Questo anomalo aumento di volume delle mammelle, che si verifica nel 32-36% degli individui di sesso maschile, dona al petto un aspetto femmineo, con importanti ripercussioni dal punto di vista

  • psicologico,
  • sociale
  • e sessuale.

Possiamo distinguere

  • una ginecomastia ”classica”, con un aumento esclusivo della componente ghiandolare della mammella dell’uomo,
  • da forme “miste” e forme di “pseudoginecomastia”, caratterizzate anche da un contemporaneo sviluppo del tessuto adiposo sottocutaneo.

L’ingrandimento delle mammelle costituisce l’aspetto principale della ginecomastia e può essere accompagnato da un aumento della sensibilità cutanea e dalla comparsa di aree di rilievo dolorose al di sotto del capezzolo.

Tra le cause che ne sono all’origine, si annoverano:

  • squilibri ormonali (principalmente aumento di estrogeni),
  • assunzione di farmaci (in particolare spironolattone, steroidi anabolizzanti, antiandrogeni, farmaci anti-HIV ed antidepressivi),
  • alterazioni genetiche o squilibri ormonali dipendenti da altre patologie (ipogonadismo, tumori testicolari con eccesso di testosterone, ipertiroidismo, insufficienza epatica, insufficienza renale),
  • abuso di sostanze (alcolici, marijuana, eroina, anfetamine),
  • aumento dei livelli di prolattina (per uso di medicinali o tumori benigni dell’ipofisi).

Una “ginecomastia fisiologica” può invece essere presente in età puberale o durante l’età senile e regredire in maniera spontanea nell’arco di 6 mesi-2 anni.

Generalmente la ginecomastia si riduce spontaneamente o scompare dopo la sospensione del farmaco in causa o dopo trattamento della patologia di base e solo in alcuni casi, il medico, dopo attenta valutazione clinica e strumentale, consiglierà al paziente la corretta strategia terapeutica che potrà essere

  • farmacologica (basata sull’utilizzo di antiestrogeni, inibitori dell’aromatasi o cure topiche con creme a base di diidrotestosterone)
  • o chirurgica (basata sulla rimozione del tessuto mammario in eccesso).

Cause

Durante l’infanzia e la pubertà l’ingrandimento della mammella maschile può essere considerato normale (ginecomastia fisiologica). In questa epoca dello sviluppo il fenomeno è

  • transitorio,
  • bilaterale (interessa entrambe le mammelle),
  • morbido
  • e si distribuisce simmetricamente sotto l’areola,

tendendo poi a regredire nell’arco di 6 mesi- 2 anni.

Modificazioni analoghe possono ricomparire in età senile ed essere monolaterali o bilaterali, principalmente causate da una riduzione dei livelli di testosterone, principalmente nei soggetti obesi.

Tra le cause che ne sono all’origine, riconosciamo:

  • Mutamenti ormonali naturali, cioè fluttuazioni nei livelli di estrogeni e testosterone che possono determinare ginecomastia;
    • Eccesso di testosterone: il testosterone è l’ormone deputato al monitoraggio della crescita delle caratteristiche maschili (massa muscolare, peluria) e il suo aumento può verificarsi normalmente in età puberale, oppure in seguito all’assunzione di steroidi anabolizzanti; in presenza di un eccesso di questo ormone, il corpo reagisce determinando una sua conversione in ormoni femminili (estrogeni), determinando in tal modo l’anomalo sviluppo mammario.
    • Eccesso di estrogeni: monitorano le caratteristiche femminili ( tra cui lo sviluppo del seno) e il loro aumento può essere naturale ( predisposizione genetica) o determinato da altre sostanze, come ad esempio i farmaci.
  • Condizioni di salute differenti, ma in grado di determinare squilibri ormonali, quali
  • Uso di medicinali, principalmente
  • Abuso di sostanze, come alcolici, marijuana, eroina, anfetamine;
  • Aumento dei livelli di prolattina, per uso di medicinali o tumori benigni dell’ipofisi.

Classificazione

In base all’origine è possibile classificare la ginecomastia in:

  • Ginecomastia puberale: transitoria, fisiologica, compare tra i 12 e i 17 anni e regredisce nell’arco di 6 mesi-2 anni;
  • Ginecomastia congenita: è dovuta ad un’alterazione ormonale ereditaria, caratteristicamente presente all’interno del nucleo familiare;
  • Ginecomastia indotta: dovuta all’assunzione di farmaci o sostanze in grado di compromettere la funzione ormonale.

Per le sue caratteristiche distintive, possiamo inoltre classificarla in:

  • Ginecomastia vera: l’aumento di volume delle mammelle è causato dall’aumento esclusivo della componente ghiandolare;
  • Ginecomastia falsa (o pseudoginecomastia): l’aumento di volume delle mammelle è dovuto ad un aumento del tessuto adiposo della regione mammaria;
  • Ginecomastia mista: vi è contemporaneamente un aumento del tessuto adiposo e della componente ghiandolare.

Sintomi e segni di allarme

La ginecomastia è caratterizzata da un aumento di volume delle mammelle maschili che solo occasionalmente è fonte di fastidi o dolore.

Possono destare una particolare preoccupazione i seguenti reperti:

  • gonfiore mammario localizzato, secrezioni dal capezzolo, aree di consistenza dura e fissità ai tessuti sottostanti;
  • segni e sintomi di ipogonadismo:
    • pubertà ritardata (ritardo nella maturazione sessuale),
    • atrofia testicolare (riduzione del volume di uno o entrambi i testicoli),
    • disfunzione erettile,
    • diminuzione della massa magra (muscolare),
    • alterazioni visive;
  • sintomi e segni di ipertiroidismo:
  • comparsa di una massa testicolare;
  • ginecomastia dolorosa e tesa in un soggetto adulto.

L’individuazione di queste condizioni cliniche aiuterà il medico nella ricerca di un’eventuale causa sottostante e nella diagnosi differenziale nei confronti di altre patologie più allarmanti, come il cancro del seno (infrequente, ma non impossibile negli uomini).

Diagnosi

L’esame obiettivo è di fondamentale importanza e verrà condotto dal medico attraverso una semplice palpazione, talora supportata dall’ecografia mammaria, per distinguere l’eventuale natura adiposa del rigonfiamento (falsa ginecomastia) o dall’ecografia testicolare (nel sospetto di una condizione secondaria a patologie della gonade maschile).

Può essere utile effettuare alcuni esami del sangue, quali:

  • esami ormonali per controllare la funzione testicolare,
  • dosaggio dei livelli di prolattina,
  • valutazione della funzionalità epatica, tiroidea e renale.

Come curare la ginecomastia?

Il trattamento varia a seconda della causa che, una volta risolta, determina generalmente una recessione della ginecomastia.

Nell’eventualità in cui non fosse possibile individuare una causa scatenante, può essere impostata una terapia farmacologica “sintomatica” che prevede la somministrazione di

  • antiestrogeni (tamoxifene, entro un anno dall’esordio),
  • inibitori dell’aromatasi
  • o cura topica con creme a base di diidrotestosterone.

Una ginecomastia di lunga data può aver determinato una sostituzione del normale tessuto ghiandolare con parenchima fibroso e non essere pertanto più passibile di trattamento conservativo; in questi casi è possibile valutare la possibilità di effettuare un intervento chirurgico, basato sulla rimozione del tessuto mammario in eccesso con ritorno del paziente alle attività quotidiane nell’arco di pochi giorni.

Prevenzione

È possibile adottare alcune strategie comportamentali per prevenire l’insorgenza della ginecomastia, quali:

  • Limitare il consumo di carne ed accettarsi della provenienza ( in alcuni Paesi extracomunitari, i controlli possono essere inferiori), eliminare inoltre il grasso visibile in cui si accumulano le sostanze tossiche.
  • Mantenere alto l’apporto di fibra, in quanto i vegetali non commestibili possono ridurre l’eccesso di estrogeni nel corpo.
  • Praticare regolare attività fisica ed esercizio di tonificazione mirato.
  • Tenere sotto controllo il peso corporeo (nei soggetti obesi i livelli di testosterone diminuiscono, mentre aumenta il quantitativo degli estrogeni, responsabili dell’eventuale aumento di volume delle mammelle).

Fonti e bibliografia

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Grani di miglio (punti bianchi) su viso ed occhi: cause e rimedi

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Cosa sono i grani di miglio?

I grani di miglio, anche detti “punti bianchi” sono delle piccole (1-2 mm) formazioni cutanee tondeggianti bianco-giallastre, localizzate sul volto; possono manifestarsi a qualsiasi età ed hanno una natura benigna, pur rappresentando talvolta un problema estetico.

Il termine popolare grani di miglio deriva dalla spiccata somiglianza che queste formazioni hanno nei confronti dei semi dell’omonima pianta.

Sono da distinguere dai comedoni bianchi (o comedoni chiusi), una forma di acne non infiammatoria.

Grani di miglio sotto l'occhio

iStock.com/vchal

Cause e fattori di rischio

Nel neonato i grani di miglio sono causati da una ritenzione di sebo transitoria nella cute su base ormonale (dovuta agli ormoni androgeni materni entrati in circolo nel neonato); nell’adolescente e nell’adulto si formano per ostruzione dei follicoli piliferi delle zone sebacee del volto per accumulo di cheratina.

In età adulta sono più comuni nelle donne rispetto agli uomini.

Non si tratta di lesioni contagiose o trasmissibili, ma alcuni autori ritengono che possano essere favoriti dall’utilizzo di creme eccessivamente grasse o abrasive per la cute, nonché un’insufficiente o scorretta pulizia del viso.

Un’esagerata esposizione ai raggi UV (tipicamente al sole) sembra infine poterne favorire la comparsa.

Manifestazioni cliniche e sintomi

Il grano di miglio, o milio o punto bianco, è una piccola cisti epidermica di 1-2 mm di diametro di colore dal bianco al giallo contenente cheratina, localizzata nei follicoli pilo sebacei delle zone

  • delle palpebre,
  • zigomi,
  • fronte.
Punti bianchi nell'adulto

iStock.com/vchal

Nei neonati i grani di miglio sono spesso numerosi e tendono a scomparire spontaneamente in alcune settimane.

Grani di miglio sul naso di un neonato

By SerephineOwn work, CC0, Link

Nell’adolescente e nell’adulto, più frequentemente nelle donne, possono insorgere ex novo oppure in seguito ad un trauma della cute (come un’abrasione od un’ustione) o in associazione con varie patologie infiammatorie cutanee che ostruiscono i follicoli piliferi, come ad esempio:

Anche per queste ragioni l’esordio è tipicamente improvviso e, benché mai molto grandi, manifestano la tendenza di comparire a gruppi anche particolarmente numerosi.

Diagnosi

Si basa sulla semplice osservazione clinica, non sono richiesti esami specifici.

Prognosi e complicazioni

La prognosi è buona poiché si tratta di lesioni di natura assolutamente benigna che possono talvolta rappresentare un problema estetico, soprattutto in virtù del fatto che si manifestano principalmente sul viso.

Quali rimedi per toglierli?

È importante evitare il “fai da te” schiacciando il grani di miglio tra le dita, perché si traumatizzerebbe inutilmente la cute senza ottenerne la rimozione, in quanto cisti privi di sbocco esterno.

Nei neonati non si esegue alcun trattamento anche perché i milia regrediscono spontaneamente.

Negli adulti il trattamento non è strettamente necessario, ma si può eseguire quando i “punti bianchi” costituiscono un problema estetico, in quanto non vanno incontro a risoluzione spontanea.

Non esistono creme in grado di eliminarli, quindi l’intervento può essere eseguito con il bisturi oppure con il laser, eventualmente previa anestesia locale.

Prevenzione

La prevenzione negli adulti consiste nell’evitare i fattori che favoriscono l’occlusione dei follicoli piliferi, come

  • l’utilizzo di cosmetici eccessivamente grassi (ad esempio che contengono oli minerali o lanolina)
  • e la scorretta pulizia del viso (l’accumulo di residui di trucco o di detriti/polveri inquinanti possono favorire la formazione dei tappi di cheratina nei follicoli piliferi, per questo si raccomanda sempre un accurato lavaggio del viso alla sera prima del riposo notturno).

Si raccomanda infine di scegliere prodotti per il make-up di qualità e, soprattutto, non occludenti.

Fonti e bibliografia

  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.

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Carcinoma spinocellulare: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

Il carcinoma spinocellulare, anche chiamato spinalioma, carcinoma epidermoide o carcinoma squamocellulare, è un tumore maligno della cute che origina dalle cellule che costituiscono l’epidermide, i cheratinociti, o dall’epitelio degli annessi cutanei (unghie, peli, capelli).

Si verifica più spesso nell’uomo che nella donna, tra il 6° e il 7° decennio di vita, su aree cutanee fotoesposte (regione della testa e del collo), presentandosi in molteplici modi:

  • come lesione piana o rilevata,
  • a superficie liscia o verrucosa,
  • con o senza ulcerazione.

Questo tumore tende a dare metastasi quindi la prognosi dipende dalla precocità della diagnosi e della terapia.

Carcinoma Squamocellulare, modello semplificato

iStock.com/ttsz

Cause e fattori di rischio

Il principale fattore causale è l’esposizione cronica al sole in pazienti con carnagione chiara (fototipi I e II di Fitzpatrick ovvero persone con cute chiara, capelli biondi o rossi, occhi azzurri e che si abbronzano con difficoltà). Esiste una correlazione lineare tra l’incidenza degli spinaliomi e la quantità di energia ricevuta attraverso l’irradiazione dei raggi ultravioletti.

I raggi ultravioletti svolgono una duplice azione:

  1. da un lato, inducono mutazioni a livello del DNA cellulare, determinando un accumulo progressivo di alterazioni genetiche che, se non adeguatamente riparate, portano allo sviluppo del tumore;
  2. dall’altro, gli ultravioletti riducono la funzione del sistema immunitario determinando un’immunodepressione relativa che ostacola l’eliminazione delle cellule danneggiate e di quelle tumorali da parte del sistema immunitario.

Oltre agli ultravioletti, rappresentano cause di spinaliomi anche

  • l’esposizione alle radiazioni ionizzanti (a cui sono esposti i membri dell’equipaggio degli aerei),
  • le infezioni da papillomavirus umano (HPV),
  • diverse sostanze chimiche quali l’arsenico e gli idrocarburi policiclici aromatici,
  • l’immunosoppressione per cause infettive (ad esempio AIDS) e/o iatrogene (farmaci antirigetto, cure croniche con cortisone, immunosoppressori, …),
  • malattie dermatologiche con formazione di ulcere o cicatrici.

Fattori di rischio per i carcinomi spinocellulari, specialmente quelli delle labbra e della mucosa orofaringea, sono infine il fumo di sigaretta e il consumo di bevande alcoliche.

Manifestazioni cliniche e sintomi

Sulla cute il carcinoma spinocellulare può insorgere

  • ex novo (ovvero su cute precedentemente sana)
  • oppure può essere può essere preceduto da lesioni precancerose come una cheratosi attinica o una malattia di Bowen.

In fase iniziale lo spinalioma si presenta come una lesione

  • rilevata,
  • papulosa (dimensioni minori di 1 cm di diametro) o nodulare (dimensioni maggiori di 1 cm),
  • arrossata (eritematosa) di forma irregolare,
  • margini non ben definiti,
  • con superficie ruvida e spessa (cheratosica), talvolta ulcerata.
Carcinoma spinocellulare sulla testa di un uomo

iStock.com/DouglasOlivares

In fase avanzata, essendo aumentate le dimensioni, la lesione si presenta come una placca o un nodulo sempre di forma irregolare, con superficie cheratosica e tendenzialmente ulcerata.

Anche sulle mucose e nelle zone di passaggio cute-mucosa (bocca, ano, vulva) lo spinalioma può insorgere ex novo o essere preceduto da lesioni pre-cancerose come

Il tumore si presenta dapprima come una lesione papulosa biancastra e/o eritematosa con margini sfumati e tendenza all’ulcerazione, per evolvere poi in fase avanzata in una placca o un nodulo che alla palpazione mostra consistenza dura ed infiltra i tessuti sottostanti. In queste sedi il tumore è rapidamente invasivo e metastatizzante.

Una variante anatomo-clinica particolare di carcinoma spinocellulare è il carcinoma verrucoso, un tumore a basso grado di malignità, che può interessare le mucose (orale, genitale, nasale) o la cute. Si manifesta inizialmente come una lesione esofitica verrucosa, protrudente, “a cavolfiore” che raggiunge diversi centimetri di diametro e che tende con il tempo ad infiltrare i tessuti profondi distruggendoli. Esempi di carcinoma verrucoso sono

  • il carcinoma cuniculatum, che si presenta specialmente in regione plantare,
  • la papillomatosi florida del cavo orale,
  • il tumore di Buschke-Lowenstein degli organi genitali e della regione anale e perianale.

Diagnosi

La diagnosi si basa sull’anamnesi (raccolta di informazioni attraverso una serie di domande mirate che lo specialista rivolge al paziente) e sull’esame clinico (osservazione visiva della lesione), mentre viene confermata dall’esame istologico. Quest’ultimo è in grado di mettere in evidenza

  • le masse di cheratinociti atipici che proliferano nel derma e talvolta nell’ipoderma,
  • la presenza di un infiltrato infiammatorio dermico composto da linfociti e plasmacellule
  • e infine la degenerazione delle fibre elastiche del derma (elastosi solare), segno del danno cronico e progressivo della cute provocato dall’azione lesiva dei raggi ultravioletti.

Il carcinoma spinocellulare deve essere differenziato dalle lesioni precancerose che possono precederlo, ovvero

  • la cheratosi attinica (specialmente quella ipertrofica),
  • la malattia di Bowen,
  • la leucoplasia e l’eritroplasia.

Lo spinalioma deve anche essere distinto da altri tumori quali:

  • carcinoma basocellulare (o basalioma), che presenta un bordo periferico rilevato e ha una superficie lucida con dilatazione dei vasi capillari superficiali (teleangectasie arborescenti);
  • cheratoacantoma, una variante di carcinoma spinocellulare a rapida crescita e risoluzione spontanea che ha una caratteristica forma a cupola con un cratere centrale ripieno di materiale cheratinico.

Prognosi e complicazioni

La maggior parte dei carcinomi spinocellulari ha una prognosi ottima, tuttavia si tratta di tumori potenzialmente metastatici, prima per via linfatica e poi per via ematica, e come tali devono essere considerati.

I fattori che determinano la prognosi sono:

  • il grado di differenziazione (ovvero di maturità) delle cellule che costituiscono il tumore,
  • il diametro della neoplasia,
  • la profondità di invasione,
  • la rapidità di crescita,
  • la sede anatomica,
  • le recidive post-trattamento
  • e l’immunodepressione.

Per quanto riguarda il grado di differenziazione, i tumori con scarso differenziamento istologico hanno una tendenza a recidivare ed a metastatizzare maggiore rispetto ai tumori ben differenziati; circa le dimensioni, i tumori di diametro superiore a 2 cm presentano un rischio di recidiva e di metastasi rispettivamente doppio e triplo rispetto a quelli con diametro < di 2 cm; in caso di invasione dei tessuti oltre il derma reticolare, il rischio di recidiva e/o metastasi è aumentato; per quanto concerne la sede anatomica, i carcinomi delle mucose hanno un rischio di recidiva e di metastasi maggiore rispetto a quelli localizzati sulla cute; le neoplasie che hanno già presentato delle recidive hanno una prognosi peggiore poiché hanno un comportamento più invasivo; infine l’immunosoppressione determina un aumento dell’aggressività del tumore con un più alto rischio di metastatizzazione.

Le complicazioni sono dovute all’insorgenza di metastasi: la sede elettiva è costituita dai linfonodi locoregionali, secondariamente possono essere interessati

  • i polmoni,
  • il fegato,
  • le ossa,
  • l’encefalo.

Cura

L’asportazione chirurgica è la terapia d’elezione; si esegue solitamente in anestesia locale considerando dei margini di resezione di 4-5 mm per lato. In caso di tumori di grosse dimensioni non operabili si opta per la radioterapia, eventualmente associata alla chirurgia nel trattamento di tumori ad alto rischio o localizzati in zone critiche (ad esempio il labbro).

In caso di tumori localizzati in sedi ad alto rischio di metastasi, dopo la conferma istologica sulla cute è sempre necessario escludere l’interessamento linfonodale.

Prevenzione

La prevenzione consiste nell’evitare le esposizioni eccessive alle radiazioni ultraviolette, che rappresentano il principale fattore di rischio per questo tumore. Inoltre, in caso di esposizione al sole, l’applicazione di schermi solari ovvero creme con fattori di protezione adeguati al tipo di cute, rappresenta una misura di prevenzione molto efficace.

Fonti utilizzate

  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Braun-Falco O., Plewing G., Wolff H.H., Burgdorf W.H.C. Dermatologia. Edizione italiana a cura di Carlo Gelmetti. Sprienger – Verlag Italia 2002.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.

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Cheratosi seborroiche: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

La cheratosi seborroica è una lesione rilevata sul piano cutaneo, a superficie verrucosa (è anche definita verruca seborroica), di colore variabile dal marrone chiaro al nero, molto comune nell’età adulta specialmente dopo i 40 anni ed anziana.

Si tratta di una lesione benigna che non necessita di trattamento, se non per fini estetici.

Cause

La cheratosi seborroica non riconosce una causa precisa.

Corrisponde istologicamente alla proliferazione dei cheratinociti (le cellule che costituiscono l’epidermide), in particolare ad un ispessimento delle cellule dello strato corneo, la porzione più superficiale dell’epidermide, composta da cellule prive di nucleo (corneociti); non si conosce però cosa determini questo ispessimento.

Pelle e cheratinociti, schema grafico

iStock.com/ttsz

L’associazione tra l’esposizione alle radiazioni ultraviolette ed il numero delle lesioni non è certa, mentre è probabile che esista una predisposizione genetica. Le forme eruttive di cheratosi seborroiche, ovvero multiple cheratosi che insorgono contemporaneamente ed improvvisamente, potrebbero essere legate alla circolazione ematica di fattori di crescita nell’ambito di una neoplasia maligna di un organo interno, neoplasia di cui potrebbero rappresentare un primo segno (segno di Leser-Trelat, vedi foto seguente).

Anche se talvolta hanno un aspetto simile alle verruche virali, le cheratosi seborroiche non hanno una causa infettiva, pertanto non sono contagiose né trasmissibili da una persona all’altra.

Manifestazioni cliniche e sintomi

Le cheratosi seborroiche

  1. iniziano come delle lesioni piane (macule)
  2. che progressivamente si ispessiscono, trasformandosi in
    • papule (lesioni rilevate di dimensioni inferiori al centimetro)
    • o placche (lesioni rilevate di dimensioni maggiori di 1 centimetro che spesso derivano dalla confluenza delle papule).

A questo punto possono rimanere tali per sempre, a meno che non vengano rimosse o traumatizzate.

Cheratosi seborroica in rilievo

Fonte immagine: https://www.my-personaltrainer.it/benessere/cheratosi-seborroica.html

Sono lesioni superficiali che sembrano semplicemente appoggiate alla pelle, senza infiltrazione sottostante. Specialmente la parte superficiale verrucosa, infatti, è ricoperta da squame untuose ed è poco aderente, tanto che si può staccare con un colpo d’unghia o con una curette (un bisturi di forma rotonda).

Il colore è variabile dal giallo al marrone chiaro/marrone scuro, fino al nero. Si tratta spesso di lesioni multiple, in numero variabile da poche unità fino a centinaia, di forma tonda, ovale o irregolare.

Quando le cheratosi seborroiche sono numerose possono essere disseminate disordinatamente oppure disporsi linearmente seguendo le pieghe cutanee o le direzioni verso cui si esercita lo sfregamento degli indumenti (ad esempio le pieghe sottomammarie). La localizzazione preferenziale è nelle zone seborroiche di

  • volto,
  • torace (regione sternale),
  • dorso,

ma si trovano spesso anche sull’addome e nelle pieghe ascellari e inguinali.

Sugli arti inferiori le lesioni sono poco frequenti e possono comparire sotto forma di elementi multipli di colore grigiastro (stuccocheratosi). Quando la cheratosi seborroica è clinicamente molto scura può essere chiamata melanoacantoma: in essa, dal punto di vista istologico, oltre alla proliferazione dei cheratinociti, si osserva un cospicuo aumento dei melanociti, le cellule cutanee che producono la melanina e sono responsabili della pigmentazione cutanea.

Diagnosi

La diagnosi di una cheratosi seborroica si basa sul semplice esame clinico, supportato dalla dermatoscopia manuale, metodica non invasiva che consente di visualizzare con un ingrandimento di 10 volte le caratteristiche morfologiche degli strati superficiali della cute e quindi delle lesioni cutanee, non altrimenti apprezzabili ad occhio nudo.

La cheratosi seborroica deve essere differenziata da altre lesioni cutanee, specialmente da quelle maligne con decorso e prognosi ben diversi:

  • Melanoma a diffusione superficiale, che si presenta come una lesione piana, isolata, con pigmento distribuito in modo non uniforme e a bordi irregolari.
  • Melanoma nodulare, lesione rilevata di colore scuro ed in fase avanzata talvolta sanguinante.
  • Carcinoma basocellulare pigmentato, lesione piana, di forma irregolare con orletto rilevato periferico.
  • Carcinoma spinocellulare, lesione talvolta spessa, verrucosa e sanguinante, infiltrata sui piani sottostanti.

La cheratosi seborroica deve essere anche distinta da altre lesioni benigne tra cui:

  • Lentigo solare (o macchia solare), lesione piana non palpabile, marrone.
  • Nevo melanocitario che ha una superficie liscia non desquamante.
  • Cheratosi attinica pigmentata, più rara, interessa il volto ed ha una superficie più secca della cheratosi seborroica; è una lesione che, in assenza di trattamento ed in un periodo di tempo variabile, può evolvere in carcinoma spinocellulare.

Prognosi e complicazioni

L’evoluzione e la prognosi sono benigne: le cheratosi seborroiche progressivamente si moltiplicano e si ingrandiscono, ma alcune possono sfaldarsi spontaneamente. Fattori irritativi o traumatici locali possono modificare la morfologia della lesione che aumenta di volume, si arrossa e può andare incontro a sanguinamento (cheratosi seborroica irritata o infiammata).

Rimedi e cura

La cheratosi seborroica non richiede alcun trattamento, se non per finalità puramente estetiche. Per via della localizzazione superficiale e della morfologia esofitica, la rimozione della lesione può avvenire mediante creme cheratolitiche (ad esempio con concentrazioni di urea al 40-50%) che però vanno applicate solo entro i limiti della cheratosi risparmiando la cute sana circostante; si possono anche trattare con

  • crioterapia con azoto liquido,
  • diatermocoagulazione
  • o curettage.

L’escissione chirurgica con successivo esame istologico viene riservata ai casi dubbi in cui ci sia il sospetto di una possibile neoplasia cutanea maligna.

Prevenzione

Non sono possibili misure di prevenzione.

Fonti e bibliografia

  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.

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Sudamina (miliaria) in bambini e adulti: foto e rimedi

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Introduzione

La miliaria, comunemente chiamata sudamina o più raramente sudorina, è un disturbo della pelle caratterizzato dalla comparsa di:

  • macchie, vescicole e/o pustole,
  • bianche o rosse,
  • più o meno pruriginose

e accompagnate da infiammazione cutanea.

Qualsiasi parte del corpo può essere interessata da questa patologia, sebbene le zone più colpite siano:

  • collo,
  • schiena,
  • spalle,
  • petto e solco sottomammario,
  • ascella,
  • inguine,
  • interno cosce.

L’eruzione cutanea tipica della miliaria si manifesta a seguito dell’ostruzione delle ghiandole sudoripare e dei loro dotti; tale ostruzione è causa di un ostacolo al normale deflusso del sudore all’esterno, che di conseguenza tende a ristagnare nella pelle, negli strati di epidermide o derma.

È ovviamente più comune nei climi caldi ed umidi, nei mesi estivi, ma la miliaria può colpire ugualmente persone di ogni età, sia uomini che donne, sebbene risultino più a rischio

  • i neonati ed i bambini a causa dell’immaturità dei dotti sudoripari,
  • i soggetti che hanno la tendenza a sudare molto.

Quanto dura la sudamina?

Solitamente questo disturbo della pelle si risolve in breve tempo (tipicamente pochi giorni), spontaneamente o con l’ausilio di una terapia medica.

Ghiandole sudoripare

Le ghiandole sudoripare sono diffusamente presenti nel nostro corpo, in quanto deputate alla formazione del sudore. Anatomicamente sono costituite da due porzioni:

  • una porzione glomerulare (simile ad un gomitolo) presente nel derma ed in cui avvengono gli scambi elettrolitici che portano alla formazione del sudore,
  • un dotto escretore, grazie al quale il liquido prodotto viene riversato all’esterno del corpo.
Ghiandole sudoripare, anatomia semplificata

iStock.com/ttsz

Con la produzione del sudore le ghiandole sudoripare assolvono importanti funzioni come:

  • eliminazione di sostanze quali acqua, sodio, potassio, cloro, urea, acidi grassi, colesterolo, creatinina, ammoniaca, …
  • difesa della cute da batteri ed altri patogeni, grazie al suo pH acido ed alla formazione di un film idrolipidico che forma una barriera protettiva sulla superficie della pelle,
  • termoregolazione.

Quando la temperatura corporea si innalza, il corpo umano risponde con la vasodilatazione cutanea e la produzione di sudore. Affinché il sudore raffreddi il corpo, tuttavia, è essenziale che evapori: il sudore, passando dallo stato liquido a quello gassoso, sottrae calore al corpo. L’umidità ambientale è il principale ostacolo all’evaporazione del sudore.

L’uomo possiede circa 3 milioni di ghiandole sudoripare, distribuite in tutta la superficie del corpo:

  • la maggior parte sono ghiandole sudoripare eccrine, con dotti escretori che sboccano indipendenti sull’epidermide,
  • in minima parte sono ghiandole sudoripare apocrine, con dotti escretori che sboccano nei dotti piliferi. Quest’ultime dunque sono ghiandole più rappresentate nelle zone del corpo ricoperte di peli, come ascelle e zona ano-genitale.

Cause

La sudamina è dovuta ad un’infiammazione acuta della pelle, causata dall’ostruzione dei dotti delle ghiandole sudoripare .

L’ostruzione del dotto ghiandolare può esser conseguente ad:

  • accumulo di detriti cutanei,
  • presenza di batteri come lo Staphylococcus epidermidis,
  • sudorazione eccessiva,
  • immaturità delle ghiandole sudoripare (nei neonati).

Il sudore prodotto, di conseguenza, non può liberarsi all’esterno del nostro corpo e resta intrappolato in uno strato della pelle (nell’epidermide o nel derma) in base al livello in cui il dotto si è ostruito.

In particolare l’occlusione del dotto può verificarsi al livello

  • dello strato più superficiale della pelle, detto corneo, in caso di miliaria cristallina,
  • dello strato sub-corneale, in caso di miliaria rubra,
  • della giunzione dermo-epidermica o del derma papillare, in caso di miliaria profonda.
Anatomia semplificata degli strati della pelle

iStock.com/Paladjai

L’ostruzione del dotto è causa di uno stato infiammatorio cutaneo acuto che richiama nella sede dell’ostruzione un infiltrato di cellule linfocitarie, più o meno abbondante, e determina una sovra-distensione e gonfiore delle cellule costitutive del dotto stesso che, a loro volta, contribuiscono ad occludere ulteriormente il condotto della ghiandola sudoripara stessa.

Fattori di rischio

L’eccessiva sudorazione (iperidrosi) è il fattore di rischio principale per la miliaria.

Condizioni di caldo ed umido oppure febbre alta possono associarsi alla comparsa di episodi di sudamina, così come una delle seguenti situazioni predisponenti :

  • uso di abbigliamento troppo succinto o pesante,
  • applicazione di cerotti transdermici,
  • pseudoipoaldosteronismo di tipo I,
  • esercizio fisico intenso,
  • farmaci,
  • creme corpo dense,
  • sovrappeso,
  • allettamenti o ospedalizzazione per periodi prolungati.

Le prime due condizioni sfavoriscono la normale traspirazione della pelle, a causa dell’occlusione dei condotti delle ghiandole sudoripare , e così ostacolano la normale eliminazione del sudore dal corpo.

I pazienti con pseudoipoaldosteronismo di tipo I mostrano una resistenza verso i mineralcorticoidi (ormoni responsabili dell’equilibrio idrosalino) che è causa di perdita di sodio attraverso le ghiandole sudoripare e si associa a miliaria rubra.

Alcuni farmaci possono indurre una sudorazione eccessiva e scatenare la miliaria, come ad esempio

Classificazione

Esistono 3 diversi tipi di miliaria, distinti in base al quadro clinico in:

  • Miliaria rubra: è la forma più comune di sudamina. Frequente nei neonati, specie nelle prime settimane di vita. Può interessare gli adulti in una percentuale di circa il 30%, in particolare chi vive in zone particolarmente caldo-umide. È caratterizzata dalla comparsa di tante piccole vescicole rossastre e pruriginose che coprono un’area circoscritta della pelle, rendendola ruvida al tatto ed arrossata.
  • Miliaria cristallina: Colpisce fino al 9% dei neonati nelle primissime settimane di vita. Può manifestarsi anche negli adulti che vivono o si sono trasferiti in paesi dal clima caldo ed umido. In questa forma di miliaria compaiono vescicole puntiformi, non accompagnate da rossore e prurito.
  • Miliaria profonda: È la forma meno comune di miliaria. Interessa quei soggetti che soffrono di miliaria rubra ricorrenti o che si sono esposti recentemente a nuovi climi caldo-umidi. Si tratta di una forma grave di miliaria, causata da un’ostruzione dei dotti delle ghiandole sudoripare negli strati più profondi della pelle. Si manifesta con papule di grosse dimensioni, urenti o dolenti.

Sintomi

I sintomi tipici della sudamina consistono in

  • piccole eruzioni cutanee rosse (papule),
  • irritazione,
  • prurito.

Sebbene possa comparire in qualsiasi parte del corpo, è più comune su

  • collo,
  • schiena,
  • spalle,
  • petto e solco sottomammario,
  • ascella,
  • inguine,
  • interno cosce.

Miliaria rubra

Nelle forme di miliaria rubra, la più comune, si osserva in particolare la formazione di papule e vescicole di colore rosso e pruriginose. Il prurito tende ad essere più intenso durante la sudorazione.  Se sono presenti pustole, la miliaria rubra viene chiamata miliaria pustulosa e ciò può indicare la co-presenza di un’infezione batterica. Le aree del corpo più comunemente coinvolte sono:

  • inguine, ascella e collo nei neonati,
  • tronco , braccia e gambe sono tipicamente colpite nel caso degli adulti.

Il volto è generalmente risparmiato.

Miliaria cristallina

Le forme di miliaria cristallina sono caratterizzate dalla formazione di vescicole sulla superficie della cute, piccole, di dimensione compresa tra 1 a 2 mm, simili a goccioline d’acqua sulla pelle che facilmente si rompono.

È la forma più leggera, tanto che la cute attorno non appare arrossata e di norma nemmeno pruriginosa.

Il tronco, il collo e la testa sono i siti più colpiti sia negli adulti che nei neonati. Le vescicole compaiono di solito entro pochi giorni dall’esposizione a fattori di rischio (quali il caldo) e si risolvono in breve tempo.

Miliaria profonda

Si tratta della forma meno comune, ma potenzialmente più severa di sudamina; si osserva la formazione di papule confluenti, grandi, color carne. L’eruzione può essere estremamente pruriginosa. Il tronco è la sede più comune negli adulti, ma anche le braccia e le gambe possono essere coinvolte.

Non è raro rilevare bruciore o dolore e rilevare la formazione di piaghe cutanee.

Foto e immagini

Miliaria rubra sul petto di un uomo

Miliaria rubra sul petto di un uomo, by Sentient PlanetOwn work, CC BY-SA 3.0, Link

Miliaria sul petto

By JurfeldOwn work, CC BY 4.0, Link

Prognosi

La sudamina è una malattia della pelle a decorso generalmente benigno, che di solito si risolve spontaneamente, in tempi brevi, soprattutto evitando tutti i fattori predisponenti a partire dagli ambienti caldo-umidi.

Nei casi in cui l’eruzione cutanea tenda a persistere, senza segni di miglioramento, è bene consultare un dermatologo per escludere altre eruzioni cutanee più gravi che possono imitare la miliaria (vedi diagnosi differenziale).

Complicanze

La miliaria profonda può complicarsi con la formazione di piaghe cutanee.

Altra complicanza è lo sviluppo di un colpo di calore, che è caratterizzato da

dovuti al deficit della termoregolazione corporea causato dall’assenza della sudorazione (detta anidrosi) .

Un’altra complicanza delle forme di miliaria rubra o profonda consiste nello sviluppo d’infezioni; in questi casi le vescicole cutanee appariranno più gonfie, rosse e dolenti ed inizieranno a rilasciare pus. Può comparire febbre ed un ingrossamento dei linfonodi del collo, ascella e/o inguine.

Come riconoscerla

La diagnosi di sudamina è essenzialmente clinica e si basa su un’attenta valutazione della pelle e dell’eruzione cutanea. In particolare il medico di famiglia (o meglio il dermatologo) deve annotare

  • sede e dimensioni delle vescicole o delle papule (macchie rosse),
  • presenza/assenza di eritema (arrossamento cutaneo),
  • presenza di altri sintomi associati (bruciore, dolore, prurito).

L’uso del dermatoscopio può essere utile per favorire un’occhiata più da vicino della pelle, specialmente nel caso di pazienti con la pelle più scura.

Gli esami di laboratorio sono poco utili per la diagnosi di miliaria, ma possono consentire l’esclusione di altre malattie della pelle quando c’è un sospetto diagnostico.

Una biopsia cutanea o esami strumentali (quali TAC o RMN), possono essere richiesti in rari casi dubbi.

Diagnosi differenziale

La miliaria va distinta da altre malattie della pelle che si possono manifestare con eruzioni cutanee simil-vescicolari, come ad esempio:

  • morsi di artropodi, come ragni, scorpioni, acari, millepiedi, …
  • infezioni da virus, come herpes simplex o varicella,
  • infezioni fungine da Candida Albicans o altri agenti fungini,
  • follicolite, batterica o da funghi (ad esempio malassezia),
  • eruzioni cutanee da droghe,
  • acne neonatale od eritema tossico neonatale,
  • malattia di Grover,
  • tumori benigni (ad esempio linfocitoma cutaneo o pseudolinfoma cutaneo a cellule T).

Cosa fare? I rimedi più efficaci

La miliaria cristallina non richiede particolari cure: si tratta di una forma di miliaria che tende a guarire spontaneamente nel giro di qualche giorno.

La miliaria rubra richiede un trattamento con pomate a base di ossido di zinco o lanolina anidra, oppure lozioni a base di calamina per ridurre il prurito e l’infiammazione. Utile anche la somministrazione di farmaci antistaminici per calmare il prurito.

Le polveri mentolate, utili per alleviare il prurito, tendono anche ad ostruire ulteriormente gli sbocchi delle ghiandole sudoripare, per cui andrebbero evitate od utilizzate con moderazione.

I corticosteroidi (cortisone) andrebbero somministrati con cautela e per breve tempo, nonché solo in caso di papule e pustole gravi e particolarmente infiammate. In caso di sovra-infezioni è richiesta una cura antibiotica topica, ad esempio con pomate a base di clindamicina.

È importante inoltre evitare tutte quelle condizioni che possano favorire la produzione di sudore od impedirne la sua evaporazione dalla pelle, trattenendo dunque il calore corporeo. In particolare si consiglia di:

  • mantenere fresca ed asciutta la zona del corpo colpita dall’eruzione cutanea, tamponando la pelle con un asciugamano di cotone morbido per assorbire il sudore,
  • indossare abiti larghi e leggeri in cotone o lino, meglio se di colore chiaro,
  • fare un bagno con acqua tiepida con l’aggiunga di un cucchiaio di bicarbonato, amido di riso o di avena, dall’effetto emolliente e lenitivo sulla cute. Asciugarsi all’aria, senza l’uso di accappatoi,
  • utilizzare saponi neutri per l’igiene personale,
  • soggiornare in ambienti freschi e ben ventilati,
  • effettuare frequenti ricambi d’aria negli ambienti della casa o al lavoro, in generale nei luoghi in cui si trascorre più tempo o far uso di condizionatori/ventilatori,
  • evitare creme corpo troppo dense ed occludenti la pelle,
  • indossare un abbigliamento adeguato e traspirante durante l’attività fisica e comunque non praticare attività sportive fino a regressione della miliaria,
  • non coprire troppo neonati e bambini.

Deodoranti all’allume di potassio (conosciuto anche come allume di Rocca) possono essere un rimedio efficace per prevenire l’eccessiva sudorazione ed il cattivo odore.

Fonti e bibliografia

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Dermatomiosite: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

La dermatomiosite è una malattia infiammatoria autoimmune che colpisce la cute ed i muscoli scheletrici.

Il nome deriva dall’osservazione dei sintomi tipici:

  • dermato– per la presenza di lesioni cutanee rosso-violacee nelle aree fotoesposte (cioè esposte al sole, come volto, collo, mani, tronco),
  • miosite, e dal coinvolgimento infiammatorio di numerosi muscoli (polimiosite), in particolar modo quelli delle spalle e degli arti.

Può insorgere in età infantile come in età adulta, ma in questo secondo caso può essere associata a neoplasie maligne degli organi interni e quindi con una prognosi che può essere severa.

Manifestazioni cutanee della dermatomiosite sul volto

By Elizabeth M Dugan, Adam M Huber, Frederick W Miller, Lisa G Rider – http://dermatology.cdlib.org/1502/reviews/photoessay/24.jpg, CC BY-SA 3.0, Link

Causa

La dermatomiosite è una malattia autoimmune, ovvero caratterizzata da una eccessiva attività del sistema immunitario che, anziché aggredire gli agenti estranei per proteggerci dalle infezioni, aggredisce le cellule dell’organismo stesso (nel caso della dermatomiosite quelle della cute e dei muscoli) generando una reazione infiammatoria.

Non si conosce la causa precisa che scatena l’aggressione autoimmune verso la cute ed i muscoli, ma sono state proposte diverse ipotesi:

potrebbero scatenare un’alterazione della regolazione immunitaria.

Non si tratta di una malattia contagiosa.

Sintomi

Le manifestazioni cutanee della malattia possono precedere o seguire quelle muscolari, ma di fatto spesso si verificano entrambe simultaneamente.

Manifestazioni e sintomi cutanei

Le manifestazioni cutanee più caratteristiche sono

  • l’eritema eliotropo,
  • l’edema
  • e la poichilodermia.

L’eritema è un arrossamento cutaneo definito eliotropo perché si verifica nelle zone tipicamente esposte al sole, in particolar modo palpebre e dorso delle mani (articolazioni metacarpo-falangee, interfalangee e regione periungueale). Al dorso della mani si possono osservare le tipiche papule di Gottron, lesioni eritematose rilevate e confluenti.

Possono essere interessati dall’eritema color rosso-lilla anche l’intero viso, le ginocchia, i gomiti, il cuoio capelluto (con o senza alopecia), la parte superiore del torace e le braccia.

L’eritema è talvolta finemente desquamante, quasi sempre associato ad edema (gonfiore) locale e sensazione di tensione e/o prurito. L’edema delle palpebre può essere così marcato da restringere la rima palpebrale.

Edema ed eritema da dermatomiosite

By Elizabeth M. Dugan, Adam M. Huber, Frederick W. Miller, Lisa G. Rider – http://dermatology.cdlib.org/1502/reviews/photoessay/17.jpg, CC BY-SA 3.0, Link

Nelle forme croniche l’eritema viene sostituito dalla poichilodermia ovvero un assottigliamento della cute (atrofia) con dilatazioni arborescenti dei capillari superficiali (teleangectasie), chiazze cutanee di colore più chiaro della cute normale (aree leucodermiche) e fine desquamazione.

Altre manifestazioni meno specifiche consistono in:

  • Papule follicolari cheratosiche: piccole lesioni cutanee rilevate con superficie ruvida localizzate su viso, tronco e braccia (dermatomiosite spinulosica).
  • Lesioni bollose: si osservano raramente e solo in corrispondenza di un edema marcato.
  • Calcinosi cutanea: depositi sottocutanei di Sali di calcio che costituiscono, in prossimità delle articolazioni, placche dure o noduli che possono andare incontro all’ulcerazione con fuoriuscita dalla cute di materiale bianco pastoso, tipo gesso.
  • Chiazze sclerodermiformi: zone di cute atrofica talvolta con indurimento profondo;
  • Lesioni mucose: macule eritematose o erosioni che interessano il cavo orale (enantema), eritema dei genitali e/o delle congiuntive.

Manifestazioni e sintomi muscolari

Nella fase acuta sono presenti dolore (spesso confuso con infiammazione articolare) e debolezza muscolare (ipostenia), talvolta molto marcata (astenia).

La debolezza muscolare dovuta all’infiammazione (miosite) è progressiva e colpisce i muscoli della spalla e degli arti in modo simmetrico; occasionalmente sono interessati anche i muscoli facciali e quelli che governano la respirazione e la deglutizione (muscolatura faringea ed esofagea). Il paziente ha quindi difficoltà ad eseguire movimenti semplici come

  • salire le scale,
  • sollevare gli oggetti,
  • pettinarsi i capelli.

L’interessamento muscolare può anche essere assente (dermatomiosite amiopatica).

Manifestazioni e sintomi degli organi interni

Le manifestazioni a carico degli organi interni sono rare.

Si tratta di

Diagnosi

Per porre diagnosi di dermatomiosite devono essere presenti specifici criteri:

  • manifestazioni cutanee spcifiche e/o aspecifiche;
  • debolezza muscolare (ipostenia o astenia);
  • aumento dei valori degli enzimi muscolari su siero (creatina fosfochinasi (CPK), aldolasi, lattico deidrogenasi (LDH));
  • alterazioni tipiche all’elettromiografia (EMG), un esame strumentale che serve a valutare la funzionalità dei muscoli. Nel muscolo che deve essere esaminato viene inserito un elettrodo ad ago sterile monouso necessario a registrare l’attività elettrica a riposo e durante la contrazione muscolare. In caso di miosite l’EMG evidenzia una tipica triade:
    • potenziali polifasici di ampiezza diminuita,
    • potenziali di fibrillazione a riposo,
    • scariche ripetute;
  • istologia muscolare: il prelievo di un campione di cute (biopsia cutanea) per l’esame istologico non risulta diagnostico se non è associato al prelievo del tessuto muscolare (biopsia muscolare) che mette in evidenzia l’infiammazione. Tuttavia, in una situazione di astenia muscolare, la presenza all’esame istologico della cute di formazione di vacuoli (vacuolizzazione) nelle cellule dell’epidermide, l’edema del derma con infiltrati perivascolari e l’atrofia epidermica sono altamente suggestivi di dermatomiosite.

La diagnosi di dermatomiosite è:

  • Certa, in presenza di manifestazioni cutanee più altri 3 criteri soddisfatti.
  • Probabile, in presenza di manifestazioni cutanee più altri 2 criteri soddisfatti.
  • Possibile, in presenza di manifestazioni cutanee più 1 altro criterio soddisfatto.

Gravidanza

In letteratura sono disponibili pochi studi sull’esito della gravidanza in pazienti con dermatomiosite, il più recente è uno studio americano che ha analizzato 853 donne con dermatomiosite/polimiosite che sono state confrontate con altrettante donne della popolazione generale; in entrambi i gruppi si trattava di donne che erano state ricoverate in ospedale per il parto. Gli autori non hanno riscontrato differenze tra i due gruppi nel tasso di rottura prematura delle membrane, limitazione della crescita intrauterina e necessità di eseguire il parto cesareo. Le donne con dermatomiosite/polimiosite però erano a maggior rischio di ipertensione in gravidanza e restavano ricoverate per tempi più lunghi rispetto alle donne della popolazione generale.

Prognosi e complicazioni

La prognosi è favorevole, specialmente quando la diagnosi è precoce ed il trattamento per via orale è tempestivo.

Nei pazienti adulti è purtroppo comune l’associazione con tumori, che interessano prevalentemente:

In questi pazienti la prognosi è peggiore, così come in quelli con interessamento polmonare; un efficace trattamento oncologico determina spesso un netto miglioramento della dermatomiosite.

Le più comuni complicazioni sono le infezioni, la compromissione cardiaca e polmonare.

Cura

La terapia cardine consiste nel ricorso a farmaci antiinfiammatori corticosteroidei (cortisone). La posologia di attacco è di 0.5-1 mg/kg corporeo al giorno di prednisone (solitamente in due dosi giornaliere). Il miglioramento clinico avviene in 1-6 settimane.

La riduzione graduale del dosaggio andrebbe iniziata quando gli enzimi muscolari si avvicinano ai livelli normali. La terapia corticosteroidea può durare 2-3 anni e sia durante il trattamento sia alla sospensione possono presentarsi delle recidive che impongono un nuovo incremento della posologia.

In caso di resistenza agli steroidi, si possono utilizzare altri farmaci immunosoppressori:

  • methotrexate,
  • ciclofosfamide,
  • ciclosporina,
  • agenti anti fattore di necrosi tumorale (TNF).

Prevenzione

Non esistono misure preventive per questa patologia.

Fonti e bibliografia

  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.
  • Wolff K., Johnson R., Saavedra A. Fitzpatrick Manuale ed Atlante di Dermatologia clinica. Edizione italiana sulla settima di lingua inglese a cura di Mauro Alaibac. Piccin 2015.
  • Kolstad KD, Fiorentino D, Li S, Chakravarty EF, Chung L. Pregnancy outcomes in adult patients with dermatomyositis and polymyositis. Semin Arthritis Rheum. 2018;47(6):865-869. doi: 10.1016/j.semarthrit.2017.11.005.

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Sarcoma di Kaposi: cause, sintomi, pericoli e cura

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Introduzione

Il morbo di Kaposi (o sarcoma di K.) è un tumore raro di origine vascolare, caratterizzato dalla proliferazione tumorale delle cellule endoteliali dei vasi (cellule che ricoprono l’interno dei vasi sanguigni o linfatici); la malattia è inoltre multifocale, si presenta cioè contemporaneamente in diverse aree cutanee ed extra-cutanee.

Il tumore è causato dall’infezione da herpesvirus-8 umano (HHV-8), ma è importante sottolineare che la maggior parte delle persone infette non svilupperà mai il morbo; la trasformazione maligna è invece probabile per soggetti con sistema immunitario indebolito, per esempio a causa di:

  • AIDS,
  • farmaci immunosoppressivi (in grado cioè di ridurre le difese immunitarie).

Le manifestazioni sulla cute consistono in lesioni di color rosso-violaceo sotto forma di

  • macule (lesioni piane),
  • papule (lesioni rilevate),
  • placche e noduli (derivanti dalla confluenza delle papule);

le lesioni solo raramente sono associate ad altri sintomi (come dolore o prurito).

Analoghe lesioni possono interessare le mucose e gli organi interni (ad esempio nel tratto digerente o nei polmoni), soprattutto nei paziente sieropositivi (affetti cioè dall’HIV). In questi casi i sintomi variano a seconda dell’organo colpito:

Sulla base delle caratteristiche cliniche ed epidemiologiche si distinguono quattro forme:

  • classica,
  • epidemica,
  • africana
  • e iatrogena

con prognosi variabile: il decorso della malattia può essere lento e progressivo (come nella forma mediterranea) oppure molto rapido (come nella forma endemica florida o in alcune forme AIDS-correlate). Le complicazioni si verificano quando c’è coinvolgimento degli organi interni.

Il trattamento dipende dalla localizzazione delle lesioni e dalla loro gravità; le principali opzioni terapeutiche consistono in

Foto e immagini

Sarcoma di Kaposi a livello orale

iStock.com/watanyou

By UnknownNational Cancer Institute, AV-8500-3620, Public Domain, Link

By Michael Sand, Daniel Sand, Christina Thrandorf, Volker Paech, Peter Altmeyer, Falk G Bechara – https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2903548/, CC BY 2.5, Link

Sarcoma di Kaposi, prima e dopo trattamento con interferonre (1987)

Sarcoma di Kaposi, prima e dopo trattamento con interferonre (1987).
Photo Credit: https://visualsonline.cancer.gov/details.cfm?imageid=2266 & https://visualsonline.cancer.gov/details.cfm?imageid=2265

Causa

La letteratura disponibile dimostra che la causa del morbo di Kaposi risiede nell’infezione da parte di un virus della famiglia degli herpesvirus, l’herpes virus umano 8 (HHV-8), infatti sequenze di DNA di HHV-8 sono state riscontrate con la tecnica della reazione a catena della polimerasi (PCR) in oltre il 90% delle lesioni del morbo di Kaposi. Il virus risulta invece assente o presente a bassa carica nei tessuti sani degli stessi pazienti.

Inoltre l’HHV-8 può essere individuato nelle cellule mononucleate circolanti dei pazienti affetti.

L’infezione da parte del virus non significa sviluppo certo del sarcoma di Kaposi, che al contrario è in genere limitato a pazienti con sistema immunitario indebolito da malattie (tipicamente AIDS, ma non solo) o da farmaci, per esempio somministrati a seguito di un trapianto d’organo.

La quantificazione della carica virale ematica del virus (viremia) è correlata alla gravità della malattia, specialmente nei soggetti ad alto rischio, tanto che scompare nei pazienti che rispondono efficacemente al trattamento.

Trasmissione e contagiosità

Il virus HHV-8 si trova nella saliva, mentre è assente nello sperma: si trasmette prevalentemente per via sessuale, in particolare in corso di rapporti oro-genitali e oro-anali.

È stata dimostrata anche una trasmissione intra-familiare orizzontale (sempre attraverso la saliva) e verticale per via materno-fetale.

Classificazione

In base alle specifiche caratteristiche cliniche (sintomi) ed epidemiologiche (soggetti in cui è più diffuso) è possibile individuare quattro forme del morbo di Kaposi.

  • classica,
  • epidemica,
  •  endemica o africana
  • e iatrogena

La forma classica o mediterranea del sarcoma di Kaposi si verifica in individui adulti, soprattutto di sesso maschile (rapporto maschi : femmine = 3 : 1) e di età compresa tra i 50 e gli 80 anni, che vivono nei paesi del mediterraneo (Grecia, Italia, Albania), in Europa orientale (persone di discendenza ebrea) e settentrionale (Norvegia, Svezia). L’elevata in incidenza della forma classica di morbo di Kaposi in queste aree geografiche fa supporre la presenza di fattori genetici di predisposizione che interagiscono con determinati fattori ambientali.

Il morbo di Kaposi epidemico si verifica in persone adulte (età media 30-40 anni) con infezione da HIV, tipicamente in fase avanzata, ovvero quando si configura l’AIDS (sindrome da immunodeficienza acquisita).

Il sarcoma di Kaposi endemico è anche definito “africano” perché si verifica frequentemente nei paesi dell’Africa equatoriale o orientale (Uganda, Zambia), dove rappresenta il 10% di tutte le neoplasie maligne. Ha una netta prevalenza nei soggetti di sesso maschile, con un rapporto maschi : femmine di 10 : 1. Quando colpisce soggetti di sesso femminile, tuttavia, il decorso risulta molto più aggressivo.

Il morbo di Kaposi iatrogeno insorge in persone immunodepresse per cause farmacologiche:

  • pazienti affetti da malattie autoimmuni,
  • neoplasie maligne
  • o pazienti sottoposti a trapianto d’organo che devono eseguire per lunghi periodi terapie immunosoppressive (nei trapiantati la malattia di Kaposi è fino a 500 volte più diffusa rispetto alla popolazione generale).

Sintomi

Forma classica (o mediterranea)

Questa forma del sarcoma di Kaposi si manifesta con lesioni cutanee piane (macule) tondeggianti o ovalari, rosso-violacee, asintomatiche, localizzate alle estremità degli arti inferiori (caviglie, piedi) e/o superiori (mani, polsi).

La comparsa avviene prima su unico lato del corpo, per poi svilupparsi simmetricamente anche all’altro lato; le macule possono evolvere ispessendosi e diventando papule (singole lesioni cutanee rilevate), noduli o placche (derivanti dalla confluenza delle papule).

Le placche hanno un tipico aspetto angiomatoso, ovvero un colore rosso-vino, contorni netti, forma irregolare e superficie liscia. Anche i noduli hanno queste caratteristiche e quando hanno dimensioni notevoli possono andare incontro ad ulcerazione.

Nella forma mediterranea di morbo di Kaposi, la crescita delle lesioni è molto lenta.

Forma epidemica

Talvolta il morbo di Kaposi rappresenta la prima espressione dell’AIDS, la sindrome da immunodeficienza acquisita conseguente all’infezione da HIV.

Questa forma è caratterizzata da una grande variabilità di manifestazioni cliniche, sono possibili

  • lesioni angiomatose (di colore rosso-vino) singole oppure multiple (forme floride) localizzate non solo agli arti superiori e inferiori (come nella forma mediterranea), ma diffusamente al tronco, volto, arti, mucosa orale, genitale e congiuntivale;
  • la presenza di lesioni al palato puro e alla punta del naso è caratteristica del morbo di Kaposi epidemico (la presenza di lesioni nodulari alla mucosa orale e congiuntivale è indicativa di infezione da HIV avanzata).

L’aspetto delle lesioni non è sempre tipico, essendo possibili lesioni

  • ipercheratosiche (spesse con superficie ruvida),
  • ecchimotiche (tipo ematomi con stravasi di sangue in periferia)
  • ed edematose (gonfie).

Nella malattia di Kaposi epidemica, più che nelle altre forme, la proliferazione delle cellule endoteliali non si limita alla cute e alle mucose, ma sono possibili localizzazioni a carico di organi interni:

Queste localizzazioni sono diagnosticabili come sarcoma di Kaposi solo mediante prelievo di un campione (biopsia) e successivo esame istologico. Una radiografia del torace e nei casi dubbi una TAC dovrebbe quindi essere eseguita di prassi a tutti i pazienti con morbo di Kaposi epidemico. Le lesioni localizzate al tubo digerente solo raramente determinano importanti sanguinamenti, pertanto, in assenza di segni clinici, non è necessario eseguirne la ricerca sistematica.

Forma endemica (o africana)

Questo tipo di morbo di Kaposi si può presentare:

  • nella forma nodulare con lesioni tipo noduli emorragici che hanno un decorso lento e localizzazione agli arti inferiori;
  • nella forma florida con voluminose lesioni vegetanti diffuse che hanno un decorso rapido;
  • nella forma infiltrante associata ad intenso edema distrettuale;
  • nella forma linfoadenopatica in cui la cute è risparmiata ma sono colpiti i linfonodi: questa forma interessa i bambini e può essere mortale.

Forma iatrogena

In questi casi la malattia può essere disseminata con papule e noduli che interessano non solo la cute, ma anche gli organi interni; tuttavia, quando l’immunodepressione viene ridotta, la malattia tende alla risoluzione.

Diffusione e sopravvivenza

Il sarcoma di Kaposi è un tumore raro, che in Italia rende conto dello 0,2% circa di tutti i tumori nel sesso maschile e dello 0,1% nel sesso femminile.

La sopravvivenza è strettamente dipendente dalla forma contratta, ma da un punto di vista generale statistiche americane stimano un tasso di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi pari a circa tre pazienti su quattro.

Diagnosi

La diagnosi si basa sull’esame clinico e sull’esame istologico di una lesione asportata mediante biopsia. L’istologia mette in evidenza la proliferazione di strutture vascolari di forma irregolare disposte nel derma superficiale in associazione con un denso infiltrato infiammatorio di linfociti e plasmacellule.

Il morbo di Kaposi deve essere differenziato, clinicamente e talvolta anche attraverso l’esame istologico, da altre patologie che possono avere manifestazioni cutanee simili:

  • granuloma piogenico,
  • angiomi,
  • angiomatosi bacillare.

Per evidenziare eventuali interessamenti degli organi interni si ricorre ad esami strumentali come:

  • radiografiaTC  e broncoscopia per valutare la condizione polmonare,
  • endoscopia gastrointestinale per l’intestino (recentemente spesso sostituita da esami meno invasivi, che fanno uso di speciali telecamere da deglutire in quanto della dimensione di una compressa).

Cura

La terapia dipende dal tipo di sarcoma di Kaposi, quindi da fattori quali:

  • tipo di lesioni,
  • estensione,
  • localizzazione.

Le lesioni singole possono essere asportate chirurgicamente, distrutte con crioterapia con azoto liquido, o trattate con iniezioni locali di farmaci citotossici.

L’applicazione topica di un gel a base di acido retinoico può far regredire le lesioni piccole e piane, specialmente nella forma epidemica di Kaposi.

La radioterapia viene scelta nel caso di manifestazioni limitate ad aree limitate, così come il ricorso alla chirurgia è preso in considerazione solo nel caso di poche e piccole lesioni.

Nel Kaposi HIV-correlato la terapia antiretrovirale permette di ottenere ottimi risultati.

Quando la malattia ha un decorso rapidamente progressivo, si rende necessario il trattamento chemioterapico e/o con terapia biologica per via sistemica (antracicline, paclitaxel).

Prevenzione

Non esistono misure preventive specifiche, per esempio non esiste un vaccino efficace verso il virus responsabile (HHV8); a livello generale si consiglia quindi di

  • preservare l’efficacia del sistema immunitario,
  • evitare comportamenti sessuali a rischio (causa prima dell’infezione sia del virus HHV8 che dell’HIV).

Fonti e bibliografia

  • Cainelli T., Giannetti A., Rebora A. Manuale di dermatologia medica e chirurgica. McGraw-Hill 4° edizione.
  • Braun-Falco O., Plewing G., Wolff H.H., Burgdorf W.H.C. Dermatologia. Edizione italiana a cura di Carlo Gelmetti. Sprienger – Verlag Italia 2002.
  • Saurat J, Grosshans E., Laugier P, Lachapelle J. Dermatologia e malattie sessualmente trasmesse. Edizione italiana a cura di Girolomoni G. e Giannetti A. Terza edizione 2006. Masson.

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Curcuma: proprietà, benefici e controindicazioni

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Cos’è e a cosa serve?

La curcuma è una spezia di colore giallo arancio che si ottiene dal rizoma essicato della Curcuma Longa, una pianta perenne appartenente alla famiglia delle Zinziberacee (la stessa dello Zenzero), originaria dell’India e coltivata in alcune aree tropicali dell’Asia e in America Centrale. Il termine Curcuma deriva dall’arabo Kurkum, che significa “zafferano”, in riferimento al colore giallo intenso (benché si tratti di una pianta differente rispetto a quella da cui si ottiene la spezia che chiamiamo zafferano). Il termine inglese che la identifica, invece, ossia Turmeric, deriva dal latino medievale Terra merita, ossia “terra meritevole, degna”.

Ingrediente principale del curry (masala indiano), è usata e conosciuta come spezia aromatica, ma anche come integratore alimentare per una serie di patologie, in virtù delle sue proprietà

  • antiossidanti,
  • antinfiammatorie,
  • immunostimolanti.
Fotografia della radice e della polvere di curcuma

iStock.com/fcafotodigital

Nella medicina tradizionale indiana e cinese [1] la curcuma è usata da centinaia di anni per problemi riguardanti diversi distretti corporei, tra cui:

Il Centro nazionale per la salute complementare e integrativa (NCCIH), agenzia governativa degli Stati Uniti, nella monografia dedicata alla curcuma ne riporta l’utilizzo per le stesse indicazioni di cui sopra, aggiungendo l’uso recente come coadiuvante nella terapia antitumorale [2], specialmente se volta a potenziare l’azione della chemioterapia e ridurne gli effetti collaterali [3,4].

Esistono inoltre interessanti studi preliminari su come i curcuminoidi, molecole presenti nell’estratto, possano

Altri studi riguardano l’utilizzo della curcumina, la principale sostanza attiva isolata dalla curcuma, per

L’NCCIH ha altresì condotto ricerche sull’uso della curcumina in caso di

I risultati non sono ancora definitivi ma sembrerebbero promettenti.

Effetti collaterali e interazioni

Secondo quanto riportato dal Centro nazionale americano per la salute complementare e integrativa (NCCIH), la curcuma, nelle dosi comunemente utilizzate per via orale o topica, è generalmente considerata sicura. Peraltro, si stima che in India il consumo giornaliero alimentare si aggiri tra i 2 e i 4 grammi di rizoma fresco, che corrisponde a circa 100-200mg di curcuminoidi [1].

Dosi elevate o un utilizzo protratto nel tempo degli integratori possono invece causare problemi gastrointestinali [2].

Recentemente il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità hanno ricevuto segnalazioni di casi di epatotossicità in persone che facevano uso di integratori contenenti curcumina; tali integratori sono stati prontamente ritirati dal commercio e sottoposti ad analisi, poiché il timore riguardava la possibile contaminazione dei lotti medesimi.

Secondo quanto dichiarato dalla prof.ssa Patrizia Burra – ordinario di Gastroenterologia dell’Università degli Studi di Padova e vicepresidente della Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia digestiva (Sige) – è noto in letteratura che circa il 5% dei pazienti che usano integratori di curcumina, soprattutto se per periodi prolungati (superiori al mese), manifesti problemi epatici, che peraltro scompaiono con interruzione immediata dell’integrazione. Tali problemi sembra siano di tipo idiosincrasico, ossia di causa sconosciuta, dovuti probabilmente alla predisposizione individuale o all’interazione con farmaci assunti in concomitanza [13].

La stessa conclusione è riportata sul sito del Ministero della Salute: “alla luce di tali conclusioni, si è deciso di adottare una specifica avvertenza per l’etichettatura degli integratori in questione, volta a sconsigliarne l’uso a soggetti con alterazioni della funzione epato-biliare o con calcolosi delle vie biliari e, in caso di concomitante assunzione di farmaci, ad invitare comunque a sentire il parere del medico”.

Questo in considerazione del fatto, è opportuno ricordarlo, che prodotto naturale non significa innocuo e, soprattutto se assunto in modo e in dosi non controllate, può causare danni anche seri.

Per la curcuma in polvere, invece, lo stesso Ministero aggiunge: “considerando la storia e le dimensioni del consumo come alimento, non sono emersi elementi per particolari raccomandazioni”.

Tanto più che numerose ricerche recenti hanno evidenziato il ruolo epatoprotettore della curcuma (in termini di protezione dalla tossicità indotta da farmaci), in virtù delle sue proprietà antiossidanti e antinfiammatorie [4,14,15,16].

Curcuma, meglio fresca o in forma d’integratore?

Fotografia della spezia accanto a un insieme di capsule a base di curcumina

iStock.com/Doucefleur

La questione se sia meglio assumere un alimento in forma completa o come estratto è oggetto di dibattito da diversi anni, anche se il cosiddetto approccio riduzionistico (la parte per l’intero, il singolo principio attivo rispetto all’intero alimento) continua ad essere quello dominante in ambito nutrizionale [17,18]. Questo atteggiamento deriva dalla convinzione che il componente attivo di una determinata pianta sia solo uno e che quindi, isolandolo e concentrandolo, si possa ottenere il massimo beneficio. Studi sempre più numerosi, tuttavia, hanno evidenziato come altri componenti della pianta agiscano spesso in sinergia, potenziando azione ed efficacia del rimedio.

Lo studio della singola sostanza non è di per sé sbagliato: è più facile studiare un singolo componente per volta e metterlo in correlazione con una determinata risposta biologica, studiandone il meccanismo d’azione. È necessario però tener presente che in questo modo si rischia di perdere una grossa parte di informazione. I due approcci, in definitiva, riduzionistico e olistico, dovrebbero andare di pari passo, in modo complementare e non competitivo.

La curcuma è uno degli esempi di quanto appena descritto: l’ingrediente attivo, e quello più studiato, è considerato essere la curcumina, ma secondo quanto riportato da una ricerca dell’Università del Texas [12] ci sono numerose altre sostanze attive nella curcuma (si noti che la curcumina rappresenta solo il 2-5% del contenuto).

L’attività di queste sostanze, su cui si sono concentrati gli studi degli ultimi 10 anni, è stata dimostrata dall’utilizzo di curcuma senza curcumina. Gli studi sono ancora limitati, ma alcuni di essi suggeriscono che la curcuma usata per intero funzioni in alcuni casi addirittura meglio della sola curcumina.

Per fare un esempio, gli stessi ricercatori dell’Università del Texas hanno messo a confronto l’attività di curcuma e curcumina su 7 tipi diversi di cellule tumorali: in tutti e 7 i casi la curcuma  ha funzionato meglio del principio attivo da solo [19].

Domande frequenti

La curcuma fa dimagrire?

Secondo una recente metanalisi [21] riguardante 21 studi e più di 1600 pazienti, l’assunzione di curcumina è stata effettivamente utile nel ridurre il peso e l’indice di massa corporea (BMI) in soggetti affetti da sindrome metabolica. Gli stessi autori dello studio, tuttavia, precisano che gli studi presi in esame hanno ancora troppi difetti metodologici, primo fra tutti l’utilizzo di dosi non standardizzate di curcumina, oltre ad essere estremamente eterogenei come durata e numero di persone coinvolte.

Altri studi, d’altronde, riferiscono effetti non significativi sugli stessi parametri in caso di integrazione con curcumina.

Allo stato atttuale delle ricerche, quindi, mancano solide basi e studi rigorosi sull’efficacia o meno della curcumina per il controllo del peso e dei disordini metabolici.

Quanta ne prendo e come?

La curcuma è ben tollerata fino alla dose di 2-4 g al giorno di polvere essicata (equivalenti circa a due cucchiaini da tè rasi), salvo

  • sensibilità individuale,
  • problemi epatici
  • o terapie farmacologiche in atto, per le quali è bene consultare il medico curante.

Assunta come integratore, la dose è in genere di 1-2 capsule da 400 mg al giorno.

Fotografia di capsule di un integratore a base di curcumina

iStock.com/Torjrtrx

Sono peraltro sufficienti 2 cucchiaini di curcuma aggiunti a zuppe o piatti di pesce per assicurarsi la giusta dose giornaliera di antiossidanti. Può anche essere utilizzata in tè o infusi e negli estratti di frutta e verdura. È bene però proteggerla dall’eccessivo calore, che ne riduce i benefici: meglio aggiungerla a fine cottura o in bevande non bollenti.

La curcumina è una sostanza liposolubile: ha cioè bisogno di alimenti grassi per poter essere meglio assimilata. L’ideale è quindi associarla ad alimenti come

  • olio d’oliva,
  • olio di semi di lino,
  • avocado,
  • noci,
  • salmone.
Curcuma, olio d'oliva in bottiglia di vetro ed altre spezie

iStock.com/karandaev

Anche il pepe (questa è la principale ragione scientifica alla base del suo inserimento nella ricetta del cosiddetto Golden Milk) e peperoncino ne migliorano la biodisponibilità, così come la quercetina, contenuta in

  • capperi,
  • cipolla rossa,
  • mele,
  • sedano,
  • agrumi.

Cos’è il Golden Milk (latte d’oro)? Fa bene?

Il Golden Milk è una bevanda a base di curcuma utilizzata nella medicina ayurvedica e consigliata come antinfiammatorio naturale, specie per

Non ci sono studi scientifici sull’efficacia della bevanda di per sé, ma possiamo considerarla come uno dei modi per assumere la curcuma e quindi beneficiare dei suoi effetti.

In rete si trovano numerose ricette per preparare il latte d’oro, ma di base si utilizza

  • curcuma,
  • acqua,
  • pepe nero

per preparare la “pasta” e poi la si diluisce con

  • latte (vaccino o vegetale),
  • olio (di oliva, di mandorle, di cocco, secondo le preferenze),
  • aggiungendo eventualmente miele per dolcificare.

L’indicazione è quella di assumere la bevanda per almeno 30-40 giorni di seguito, per beneficiare dei suoi effetti

Bibliografia

  1. Encyclopedia of Dietary Supplements, 2nd ed – P. Coates, et al., New York, NY: Informa Healthcare; 2010
  2. National Center for Complementary and Integrative Health
  3. Curcumin Combination Chemotherapy: The Implication and Efficacy in Cancer. Tan B, Norhaizan M. Molecules. 2019 Jul 10;24(14).
  4. Preventive Effect of Curcumin Against Chemotherapy-Induced Side-Effects Zhijun Liu1, Pengyun Huang et al. Front. Pharmacol., 27 November 2018
  5. Effects of curcuminoids on frequency of acute myocardial infarction after coronary artery bypass grafting. Wongcharoen W, Jai-Aue S, Phrommintikul A, et al. American Journal of Cardiology. 2012;110(1):40-44.
  6. Efficacy and safety of Curcuma domestica extracts compared with ibuprofen in patients with knee osteoarthritis: a multicenter study. Kuptniratsaikul V, Dajpratham P et al. Clin Interv Aging. 2014 Mar 20;9:451-8.
  7. Curcumin for radiation dermatitis: a randomized, double-blind, placebo-controlled clinical trial of thirty breast cancer patients. Ryan JL, Heckler CE, Ling M, et al. Radiation Research. 2013;180(1):34-43.
  8. Curcumin for maintenance of remission in ulcerative colitis. Garg SK, Ahuja V, Sankar MJ, et al. Cochrane Database of Systematic Reviews. 2012;(10):CD008424.
  9. Antioxidant and anti-inflammatory activities of curcumin on diabetes mellitus and its complications. Meng B, Li J, Cao H. Current Pharmaceutical Design. 2013;19(11):2101-2113
  10. The efficacy of curcumin in managing acute inflammation pain on the post-surgical removal of impacted third molars patients: A randomised controlled trial. Maulina T, Diana H, Cahyanto A, Amaliya A. J Oral Rehabil. 2018 Sep;45(9):677-683.
  11. Role of turmeric in management of alveolar osteitis (dry socket): A randomised clinical study. Lone PA, Ahmed SW, Prasad V, Ahmed B. J Oral Biol Craniofac Res. 2018 Jan-Apr;8(1):44-47.
  12. Multitargeting by turmeric, the golden spice: From kitchen to clinic. Gupta SC, Sung B, Kim JH, Prasad S, Li S, Aggarwal BB. Mol Nutr Food Res. 2013 Sep;57(9):1510-28.
  13. Casi di epatite correlati ad integratori a basi di curcuma. Sige: “Rischi a seguito assunzione protratta e in donne anziane”
  14. Hepatoprotective properties of Curcuma longa L. extract in bleomycin-induced chronic hepatotoxicity. Karamalakova YD, Nikolova GD, Georgiev TK, Gadjeva VG, Tolekova AN. Drug Discov Ther. 2019;13(1):9-16.
  15. Does Curcuma longa root powder have an effect against CCl4-induced hepatotoxicity in rats: a protective and curative approach. Serairi Beji R, Ben Mansour R, Bettaieb Rebey I et al. Food Sci Biotechnol. 2018 Aug 19;28(1):181-189.
  16. Mechanistic insights of hepatoprotective effects of curcumin: Therapeutic updates and future prospects. Khan H, Ullah H, Nabavi SM. Food Chem Toxicol. 2019 Feb;124:182-191.
  17. Transcending reductionism in nutrition research. Hoffmann I. Am J Clin Nutr. 2003 Sep;78(3 Suppl):514S-516S.
  18. Perspective: Reductionist Nutrition Research Has Meaning Only within the Framework of Holistic and Ethical Thinking. Fardet A, Rock E. Adv Nutr. 2018 Nov 1;9(6):655-670.
  19. Curcumin-free turmeric exhibits anti-inflammatory and anticancer activities: Identification of novel components of turmeric. Aggarwal BB, Yuan W, Li S, Gupta SC. Mol Nutr Food Res. 2013 Sep;57(9):1529-42.
  20. Nutrition Facts – Turmeric
  21. The Effects of Curcumin on Weight Loss Among Patients With Metabolic Syndrome and Related Disorders: A Systematic Review and Meta-Analysis of Randomized Controlled Trials. Akbari M, Lankarani KB et al. Front Pharmacol. 2019 Jun 12;10:649.

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