Che cosa sono i psicobiotici?
Il termine psicobiotico è stato coniato nel 2013 da Dinan et al. e si riferisce a probiotici e prebiotici che esercitano effetti positivi sul cervello e sul comportamento attraverso la modulazione del microbiota intestinale.
Si ricordi che:
- probiotici: microrganismi vivi che, se somministrati in quantità adeguata, conferiscono un beneficio alla salute dell’ospite, di cui fanno parte ad esempio i fermenti lattici;
- prebiotici: substrati selettivamente utilizzati dai microrganismi intestinali, capaci di conferire un beneficio per la salute, tipicamente in forma di fibra vegetale
In altre parole gli psicobiotici sono in grado di:
- Modulare la produzione di neurotrasmettitori e neuromodulatori, sostanze coinvolte nei delicati meccanismi propri del sistema nervoso centrale (come serotonina, GABA, dopamina);
- Regolare l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), implicato nella risposta allo stress;
- Influenzare l’infiammazione sistemica e i livelli di citochine proinfiammatorie, spesso alterati in patologie psichiatriche;
- Potenzialmente agire in modo indiretto sulla plasticità sinaptica e sulla neurogenesi (secondo alcune ipotesi ancora in fase di verifica).
In termini semplici, gli psicobiotici puntano a migliorare l’equilibrio del microbiota intestinale, nella speranza che questo possa avere effetti positivi anche sul funzionamento del sistema nervoso. Va tuttavia precisato che, ad oggi, si tratta di un’ipotesi ancora in fase di studio e non di una terapia consolidata.
Il microbiota intestinale e l’asse intestino-cervello
Il concetto di asse intestino-cervello si basa sull’idea che l’intestino e il cervello siano in costante comunicazione attraverso vie neurali (vago), immunitarie, endocrine e metaboliche. Il microbiota intestinale — l’insieme di trilioni di microrganismi che popolano il nostro tratto gastrointestinale — gioca un ruolo fondamentale in questo dialogo bidirezionale.
Numerosi studi preclinici su modelli animali hanno dimostrato che alterazioni del microbiota intestinale possono influenzare il comportamento, la risposta allo stress, la memoria e persino l’umore, ma l’estrapolazione e la generalizzazione di questi dati all’essere umano richiede grande cautela.
Quali sono le evidenze negli esseri umani?
Una meta-analisi pubblicata nel 2021 ha valutato l’efficacia degli psicobiotici nel trattamento dell’ansia nei giovani di età compresa tra 10 e 24 anni, selezionando 14 studi da un totale iniziale di 5416. I risultati hanno mostrato una differenza trascurabile e non statisticamente significativa sulla riduzione dei sintomi ansiosi e questo dato mette in evidenza una sostanziale inefficacia clinica degli psicobiotici nel contesto specifico dell’ansia giovanile, pur riconoscendo la rilevanza dell’adolescenza come fase critica per lo sviluppo neurobiologico e microbiotico.
Nonostante i risultati deludenti, gli autori della revisione sottolineano l’importanza di proseguire la ricerca con studi metodologicamente più robusti, che esplorino i meccanismi d’azione, le relazioni causali e il punto di vista dei pazienti giovani, elementi oggi largamente trascurati nella letteratura disponibile.
Anche nel contesto dei disturbi neurologici maggiori, gli psicobiotici sono stati proposti come potenziali strumenti coadiuvanti nel trattamento di patologie complesse. Una revisione del 2022 ha analizzato il ruolo degli psicobiotici in condizioni come disturbi dello spettro autistico, malattia di Parkinson, sclerosi multipla, insonnia e depressione. Pur riportando alcuni segnali di efficacia — soprattutto nella modulazione del microbiota e nella riduzione di sintomi psichiatrici associati — gli autori sottolineano la natura ancora preliminare delle evidenze. La maggior parte degli studi è infatti di piccola scala, con disegni sperimentali eterogenei e senza follow-up a lungo termine.
Un problema ricorrente è la contraddittorietà dei risultati: alcuni studi riportano miglioramenti clinici, altri nessuna differenza significativa rispetto al placebo. Questa variabilità può derivare da numerosi fattori, come ad esempio differenze nei ceppi batterici utilizzati, nei criteri di selezione dei partecipanti, nelle condizioni di base dei pazienti e nei metodi di valutazione degli outcome.
In sintesi:
- se da un lato gli psicobiotici appaiono promettenti come strumento integrativo, soprattutto nei disturbi neuropsichiatrici cronici,
- dall’altro manca ancora una base solida di studi clinici ampi, controllati e replicabili su cui fondare raccomandazioni terapeutiche.
È dunque prematuro considerarli un’opzione terapeutica validata.
Possibili meccanismi d’azione
I meccanismi ipotizzati con cui i psicobiotici eserciterebbero effetti neuropsichiatrici sono molteplici:
- Produzione di metaboliti neuroattivi: come acidi grassi a catena corta (SCFA), serotonina, dopamina, GABA;
- Modulazione dell’infiammazione sistemica: riduzione delle citochine pro-infiammatorie (es. IL-6, TNF-α), spesso associate a depressione e ansia;
- Influenza sulla barriera emato-encefalica e sulla permeabilità intestinale (“leaky gut”), potenzialmente coinvolte in fenomeni neuroinfiammatori;
- Interazione con il nervo vago, che svolge un ruolo cruciale nella trasmissione delle informazioni dall’intestino al cervello.
Tuttavia, la gran parte di queste evidenze deriva da modelli animali o in vitro. La validazione clinica di questi meccanismi nell’uomo è ancora in fase iniziale.
Perché vale comunque la pena?
Gli psicobiotici rappresentano un campo di ricerca promettente ma ancora immaturo. Le evidenze preliminari indicano che alcune combinazioni di ceppi probiotici potrebbero avere un effetto favorevole su sintomi depressivi e ansiosi, ma mancano ancora prove solide, ampie e replicabili per raccomandarne l’uso sistematico nella pratica clinica.
Non si può escludere che in futuro i psicobiotici trovino un ruolo nel trattamento coadiuvante di alcune condizioni psichiatriche, ma per il momento devono essere considerati strumenti sperimentali, da utilizzare solo in ambito di ricerca o in casi selezionati, con monitoraggio attento e in associazione alle terapie convenzionali basate sull’evidenza.
Ma anche ammettendo che gli effetti clinici degli psicobiotici sulla salute mentale siano minimi o del tutto assenti, mantenere un microbiota intestinale in buona salute resta un obiettivo di primaria importanza per il benessere generale dell’organismo.
Il microbiota svolge infatti un ruolo chiave in numerose funzioni fisiologiche essenziali e promuoverne la salute attraverso scelte quotidiane mirate — come una dieta ricca di fibre vegetali (consumando cereali integrali, legumi, frutta, verdura, semi e frutta secca a guscio), il consumo regolare di alimenti fermentati, un’attività fisica costante, la riduzione dello stress cronico e un uso responsabile degli antibiotici — è associato a benefici di salute ben documentati nella letteratura scientifica.
Tra questi, si segnalano una miglior regolazione metabolica (inclusi glicemia e profilo lipidico), un rischio ridotto di malattie cardiovascolari, un supporto alla funzione immunitaria e una minore incidenza di disturbi infiammatori cronici. Queste evidenze, più solide rispetto a quelle attualmente disponibili in ambito neuropsichiatrico, rafforzano l’idea che la cura del microbiota rappresenti una componente fondamentale della prevenzione medica e della promozione della salute globale, a prescindere dall’efficacia specifica degli psicobiotici sulla salute mentale.
Altre fonti
L'articolo Psicobiotici: cosa sono e perché possono aiutare mente e intestino proviene da Healthy The Wom.